LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA D’APPELLO: I CONTATTI CI FURONO, MA IL REATO È PRESCRITTO «Fino al 1980 Andreotti disponibile con i boss» «Cambiò atteggiamento dopo l’omicidio Mattarella. Lo giudicherà la storia» Lirio Abbate corrispondente da PALERMO Luci e ombre prevalgono nelle motivazioni della sentenza della corte d’appello che ha confermato il 2 maggio scorso l’assoluzione del senatore Giulio Andreotti dall’ accusa di associazione mafiosa. E’ un verdetto «doublé face» quello emesso dai giudici di secondo grado. La Corte sostiene che l’ex premier avrebbe dimostrato «un’ autentica, stabile ed amichevole disponibilità verso i mafiosi» fino alla primavera del 1980. Poi Andreotti cambiò registro e si impegnò ad attuare misure severe ed efficaci contro i boss. I due diversi momenti e atteggiamenti si susseguono uno dopo l’altro nelle 1520 pagine in cui è spiegata la sentenza con la quale la Corte ha deciso la prescrizione delle accuse fino al 1980 e l’assoluzione per quelle dei periodi successivi. I giudici sostengono, insomma, che i contatti fra l’ex presidente del Consiglio ed i capi di Cosa nostra ci sono stati, ma il reato è prescritto perché avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge Antimafia del 1983. Il punto di snodo dell’inchiesta Andreotti viene individuato dalla Corte (presidente Salvatore Scaduti, relatore Mario Fontana) nell’uccisione del Presidente della Regione, Piersanti Mattarella avvenuta a Palermo il 6 gennaio 1980.1 giudici definiscono «eroico» l’impegno di Mattarella teso a riportare in un contesto di legalità l’attività della Regione. E lo mettono in relazione con la crescente irritazione dei capimafia che, nel quadro di un consolidato rapporto di scambio, chiedevano ad Andreotti di «trovare una soluzione politica». In caso contrario l’organizzazione avrebbe risolto il caso in modo «cruento». Andreotti avrebbe in un primo momento sottovalutato la serietà delle minacce e solo quando ne ebbe più precisa consapevolezza si «precipitò» in Sicilia per tentare una mediazione. Come ha raccontato il pentito Francesco Marino Mannoia, unico testimone del fatto, il senatore avrebbe incontrato il boss Stefano Boutade in una riserva di caccia del costruttore catenese Carmelo Costanzo. Il senatore tentò il tutto per tutto. La ricostruzione dei giudici descrive lo sforzo di mediazione con gli interlocutori mafiosi: «Ne frena ‘l’impeto, prende tempo, li rassicura additando una soluzione “politica”, elude (almeno neh’ immediato) ogni iniziativa cruenta». «Staremo a vedere» confidò alla fine Bontade a Marino Mannoia. Mancando segnali “rassicuranti” Mattarella fu poi assassinato. Andreotti, che pure era un avversario politico del Presidente della Regione, non poteva certo avallare un dehtto, scrivono i giudici. E perciò ne rimase tanto sconvolto che nella primavera del 1980 sarebbe tornato in Sicilia per chiedere spiegazioni ai boss. Ma la reazione di Bontade fu molto sprezzante e anzi alla fine dell’incontro il boss diffidò il senatore, allora presidente del Consiglio, dell’adottare interventi o leggi speciali «perché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi». Da quel momento, secondo il ragionamento della Corte, l’atteggiamento di Andreot¬ ti nei confronti di Cosa nostra sarebbe radicalmente mutato. La sentenza ricostruisce minuziosamente sia la legislazione antimafia varata, sia il personale impegno del senatore a contrastare concretamente, e perfino efficacemente, Cosa nostra. Pur mancando la certezza che i suoi rapporti «amichevoli» con i boss siano effettivamente cessati, il processo logico seguito dalla Corte tende a dare ima risposta negativa. La sentenza delinea anzi una “crisi” di questi rapporti con Cosa nostra a partire dalla fase in cui le dinamiche interne alla mafia portarono all’egemonia dei corleonesi. In questo quadro appare quindi inverosimile la storia del bacio con Totò Riina, raccontata dal pentito Balduccio Di Maggio del quale viene posta in rilievo la sostanziale inattendi- bilità. Un intero capitolo della sentenza conferma che il senatore conosceva i cugini Nino e Ignazio Salvo e aveva piena consapevolezza che i suoi «sodah siciliani intrattenevano rapporti amichevoli con alcuni boss». La prescrizione impedisce di sanzionare questa condotta. Andreotti, concludono i giudici, ne risponderà davanti alla storia. Per i pm di primo grado, Guido Lo Forte, Roberto Scarpinato e Gioacchino Natoli «è la prima sentenza che afferma l’esistenza di rapporti ad altissimo livello fra un ex Presidente del Consiglio ed alcuni capi di Cosa nostra». «La Corte – aggiungono i magistrati – scrive che “i fatti indicano una vera e propria partecipazione del senatore Andreotti all’associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. E ci ha colpito leggere ancora che secondo la Corte di questi fatti “il senatore Andreotti risponde in ogni caso dinanzi alla storia”». «Non c’è stato nessun teorema ma un’attività di ricerca della verità», dice Guido Lo Forte. «Sono stati provati fatti che sgombrano definitivamente il campo da tutte le illazioni di chi in questi anni ha presentato all’ opinione pubblica una Procura che costruiva processi di questo rilievo basandosi solo su teoremi», gli fa eco Roberto Scarpinato. Con Natoli, chiusi nella stanza dell’aggiunto Scarpinato, leggono insieme e non riescono a nascondere la propria soddisfazione. Dopo la loro estromissione dalla Dda di Palermo, per i tre pm è forse l’ultimo atto giudiziario di un processo di mafia che stanno studiando di cui erano titolari. Il senatore a vita Giulio Andreotti. Secondo le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello, fino al 1980 ha mostrato «disponibilità verso i mafiosi» LA STAMPA
Grasso: confermato che non era solo un «teorema» dei pm
Grasso: confermato che non era solo un «teorema» dei pm «IL REATO SEMBRA PROPRIO CHE SIA STATO COMPIUTO E PRESCRITTO SOLO PER IL GRAN TEMPO TRASCORSO» Grasso: confermato che non era solo un «teorema» dei pm Il procuratore di Palermo: un giudizio davvero pesante, è la dimostrazione che il processo andava fatto Intervista Francesco La Licata PALERMO IL procuratore della Repubblica, Piero Grasso, legge l’autentico macigno delle motivazione scritte dai giudici di secondo grado del processo Andreotti e non riesce a trattenere il commento: «E’ davvero pesante il giudizio, specialmente per la parte che riguarda la prescrizione. Sembra di poter dire che i giudici non tradiscano alcun dubbio sul fatto che il reato, la partecipazione all’associazione per delinquere, sia stato compiuto e prescritto solo per il gran tempo trascorso». Ingenerose, dunque, le critiche a suo tempo mosse alla Procura che avviò le indagini? «Le diverse valutazioni raggiunte dai giudici di primo e secondo grado dimostrano che, quanto meno, il processo andava fatto e che l’ipotesi accusatoria poggiava su fatti concreti che andavano approfonditi e non, come sostenevano gli scomposti attacchi del mondo della politica, su teoremi di parte elaborati da pubblici ministeri militanti». Non era di questo parere il collegio di primo grado. «Le motivazioni che abbiamo sotto gli occhi dicono che i giudici d’Appello hanno ritenuto fondate anche alcune delle censure espresse dai pubblici ministeri, in sede di esplicitazione dei motivi d’appello, nei confronti delle conclusioni raggiunte dal Tribunale». Eppure si contìnua ad accusare i magistrati di “far politica” e di sottrarre energie con le inchieste che coinvolgono esponenti parlamentari – alle indagini sulla mafia militare. Come a dire: perdete tempo coi politici e intanto assassini e taglieggiatori imperversano indisturbati perché le migliori risorse sono impegnate coi “teoremi”. «Ho letto qualche interpellanza parlamentare sulla presunta perdita di credibilità dello Stato riconducibile alle inchieste su mafia e pohtica. Ma ho il dovere di repheare e di ricordare a tutti che Cosa nostra non è solo un fenomeno criminale. Lo strapot ere della mafia è in massima parte dovuto alla particolare abilità nel penetrare ambienti economici, politici ed istituzionah, nel cercare collu¬ sioni con ambienti ed entità esterni. Sarebbe un grave errore concentrare tutte le forze in direzione del mondo di Cosa nostra militare, trascurando gli intrecci dei piani più alti, che esistono e non li hanno inventati i magistrati. Cosa dovremmo fare, chiudere gli occhi ogni volta che ci hnbattiamo in un nome eccellente?». Proprio lei ha parlato della necessità, per voi magistrati, di rimanere autonomi dagli interessi politici. «E lo confermo. Ciò che bisogna evitare è di dare l’impressione all’esterno che dentro gli uffici si affrontino fazioni pohtiche contrapposte. La normale dialettica, il confronto è sempre ed esclusivamente di natura tecnico-culturale ed affronta soprattutto le problematiche organizzative. Converrà che spesso, per semplificazioni giornalistiche, è avvenuto che lo scontro dialettico sia stato confuso con fenomeni meno nobili. Ma adesso mi sento di dire che è tutto superato, incomprensioni ed equivoci». Si è chiarito coi suoi sostituti? «Siamo usciti da un profondo e utilissimo dibattito che ha ridato slancio e spinta vitale per andare avanti tutti insieme nel lavoro. Questa procura ha dato dimostrazione di poter ottenere buoni risultati nella lotta alla mafia: i successi accumulati vanno ascritti ai meriti e al sacrificio di tutti, al di là dei momenti di crisi che, comunque, sono stati minoritari rispetto alla coesione e alla voglia di lavorare». Come risolverà il problema organizzativo posto dalle circolari del Consiglio superiore che di fatto sottrae all’ufficio forze vitali di primo piano come il contributo di magistrati del calibro di Lo Forte e Scarpinato? «Le circolari del 7 aprile e del 3 luglio sono un fatto concreto che non si può ignorare. Ma sarebbe im lusso improponibile quello di rinunciare a cuor leggero all’apporto di professionalità elevate come quelle dei miei aggiunti. Ritengo perciò di poter continuare ad avvalermi del loro lavoro, ricorrendo al metodo delle applicazioni nelle varie inchieste, specialmente per i processi in corso. Ciò consente, tra l’altro, ima più serena razionalizzazione dell’ufficio con un riassetto graduale e molto meno traumatico di un esodo improvviso e massiccio». La Procura torna ad essere squadra, dunque? «Diciamo che non si era mai completamente disunita, al di là di ciò che poteva sembrare dalla lettura dei giornali e da qualche malizioso e interessato intervento politico. Noi dimostreremo coi fatti che le nostre inchieste sono guidate esclusivamente da valutazioni tecniche e giuridiche, da criteri identici sia die si indaghi a destra o a sinistra. E il lavoro non manca». «Sarebbe un grave errore trascurare gli intrecci più alti di Cosa nostra Dovremmo chiudere gli occhi ogni volta che ci imbattiamo in un nome eccellente?» Il procuratore capo di Palermo Pietro Grasso LA STAMPA
La legale: due procure hanno pareri diversi
La legale: due procure hanno pareri diversi La legale: due procure hanno pareri diversi intervista Antonella Rampino ROMA RESTO convinto che quel che conta è il risultato. Poi, certo, quando avrò le millecinquecento pagine che motivano la sentenza, le leggerò». La voce di Giulio Andreotti è serena, quel che traballa è la linea del cellulare: è in auto, sta tornando a casa. Lì lo aspetta l’avvocato Giulia Bongiomo. «Gli abbiamo spiegato da tempo che, nel momento in cui si viene bersagliati da un miliardo di frecce, è possibile che ima ti colpisca di striscio». Avvocato Bongiomo, il collegio di difesa ha emesso un comunicato in cui esprimete soddisfazione, e condividete la conclusione dei giudici: la sentenza sull’operato di Andreotti spetta alla Storia. Eppure, nella sentenza si legge di upiena consapevolezza», di «favori» ricevuti dalla mafia. Nei confronti della quale Andreotti è stato disponibile fino al 1980, cioè sino ad un’epoca coperta da prescrizione. «Sì, e questa è la parte negativa. Ma la vivrei male se avessero scritto accuse precise, che Andreotti cercava di favorire Cosa Nostra per arricchirsi, per esempio. Invece si dice che fino all’80 aveva avuto dei contatti perché la sua analisi era inadeguata, aveva sottovalutato il fenomeno mafioso. E quando invece l’ha ben compreso, l’ha combattuto, mettendo a repentaglio se stesso e la propria famiglia». E’ possibile credere che Andreotti fino agli anni Ottanta non avesse ben capito cos’è il fenomeno mafioso? «Mi rendo conto che per chi non è siciliano sia cosa difficile da capire…». Mi scusi, ma è difficile da accettare conoscendo l’intelligenza di Andreotti. «No, no, l’intelligenza non c’entra. Bisogna considerare gli anni: quelli del grande terrorismo, La sua attenzione era centrata su tutt’altro. Io ho constatato di persona, in 10 anni, che in quanto a mafia ad Andreotti bisogna spiegare tutto per bene. Le prime volte, ero scoraggiata. Buonanotte, mi dicevo, questo non ha proprio idea di cos’è Cosa Nostra. Ma io sono siciliana, per me è facile. Lui mi chiedeva continuamente: cos’è un mandamento? Com’è organizzata una famiglia? Recentemente, gli ho dovuto spiegare la differenza tra la mafia cosiddetta buona e quella stragista». Ma chi è Bontade lo saprà: i giudici dicono che lo ha incontrato proprio nell’80, gli ha chiesto conto dell’assassinio di Mattarella. «Tutt’ora mi chiede “chi è questo Bontade, di che famigha è”. E io: ma come presidente, era quello che chiamavano il principe… Intendiamoci: Andreotti è, come sappiamo, intelligentissimo. Ma l’intelligenza non è conoscenza di tutto. Se lui fosse stato a contatto coi mafiosi, alcune cose le avrebbe sapute, alcuni nomili ricorderebbe. Quanto all’episodio che lei dice, i giudici sostengono che Andreotti avrebbe capito la pericolosità della mafia, che credeva essere solo una forza di controllo del territorio, proprio quando scoprì l’omicidio Mattarella, e che da quel momento cominciò a combatterla)). Cosa ha colpito Andreotti della motivazione della sentenza? «La parte in cui si parla di Pecorelli. E’ colpito dal vedere che fino a qualche mese fa c’era una Corte d’Assise che aveva detto che questo pentito Buscetta era attendibilissimo e gli ha dato 24 anni. E che invece questa Corte d’Appello ha parlato di Buscetta come contraddittorio e oscillante. Gli ha fatto piacere. Mi aveva chiesto già il giorno prima se secondo me avrebbero trattato l’omicidio Pecorelli. E anche io non me l’aspettavo. E invece questo ci fa un piacere straordinario». Perché siete in attesa della sentenza della Corte di Cassazione cui avete ricorso proprio in merito al processo di Perugia, che nel novembre scorso ha condannato Andreotti per l’omicidio Pecorelli prendendo in parola Tommaso Buscetta «Sì. E’ importantissimo che, prima della sentenza a corti riunite, una corte così autorevole come quella d’Appello di Palermo dica l’esatto contrario di quanto sostenuto dal tribunale di Perugia». LA STAMPA