5.12.1992 Svelate le accuse contro Signorino

 

Anche il pentito Marchese getta ombre sul giudice suicida: avrebbe favorito alcuni boss Svelate le accuse contro Signorino E Leonardo Messina: lavoravo per i servizi segreti E’ un’arena l’atrio del palazzo di giustizia, lucido di marmi. L’animazione sembra quella solita di tutte le mattine. Eppure non è così: c’è qualcosa in più del solito.
Gli attori sono sempre uguali, giudici, avvocati, imputati e giornalisti.
Gli sguardi si incontrano ma sfuggono, tiepidi cenni del capo al posto delle tradizionali battute cameratesche. No, non c’ posto – ed è comprensibile – per lo scherzo. Eppure, nell’attesa del feretro per la piccola cerimonia in memoria del giudice Domenico Signorino, suicida per mafia, non si recitano solo le parti assegnate dal copione.
La sceneggiatura vuole i giudici indignati, gli avvocati preoccupati perché nell’aria si avvertono sommovimenti che li riguardano, i giornalisti nell’angolo, accusati di assoluta mancanza di pietas, «responsabili morali» del suicidio che ha scosso tante coscienze.
Il copione è rispettato al punto che, in mezzo a frasi indignate, battute al vetriolo tra i giudici di Palermo e quelli di Caltanissetta, gli avvocati che propongono di tramutare in reato il mestiere di giornalista, tra tutto questo, si compone uno scenario che rivela il quadro generale nel quale è rimasto coinvolto Domenico Signorino.
Il sostituto procuratore generale è chiamato in causa da Gaspare Mutolo, boss pentito di Pallavicino.
E’ il mese di luglio, «don Gasparino» parla, Paolo Borsellino ascolta. Il pentito riferisce una serie di episodi che riguardano alcuni magistrati di Palermo e qualche funzionario di polizia. Le storie risalgono agli anni passati. Non vuole verbalizzare, però.
Dice, Mutolo, che firmerà quando si saranno trovati i riscontri.
Solo ad ottobre – Borsellino è morto -, interrogato dai magistrati della Procura di Palermo, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, accetta di firmare.
E parla della vicenda della casa acquistata da Signorino coi «buoni uffici» di don Saro Biccobono, padrino di Pallavicino e Partanna-Mondello, diretto superiore del pentito.
Poi tira fuori un episodio molto delicato, che risale al 1981. Mutolo racconta che il giudice Signorino, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica, era stato avvicinato perché «ammorbidisse» l’impianto accusatorio contro i boss che erano stati catturati durante il cosiddetto blitz di Villagrazia.
Un summit di mafia interrotto dalla polizia il 19 ottobre del 1981. Una riunione ad alto livello delle cosche vincenti, che si teneva nella villa dei clan Vernengo e Marchese. E qui si innesca una polemica.
Chi ha lasciato trapelare queste notizie? Caltanissetta dice: «Noi no». Palermo replica, per bocca del giudice Marcantonio Molisi: «Sono assolutamente certo che nessuno degli operatori della giustizia palermitani abbia lasciato filtrare la notizia del coinvolgimento di Mimmo Signorino in un’inchiesta giudiziaria».
Dubbio: la «fuga» è stata favorita da chi ha interrogato il pentito, oppure dai magistrati incaricati di svolgere l’indagine sul sostituto procuratore generale? Tante risposte, una il contrario dell’altra, si perdono tra i corridoi del palazzo di giustizia.
La polemica avanza, il quadro si definisce.
Già, perché si apprende che l’interrogatorio di Caltanissetta non è andato affatto bene a Signorino.
Specialmente sull’affare del blitz di Villagrazia, che vide il magistrato protagonista della prima fase delle indagini, poi, in dibattimento, affidate esclusivamente alla collega Agata Consoli.
Un argomento – il blitz – che è affrontato da più pentiti. Mutolo? Non è solo lui. C’è anche Pino Marchese, il giovane imparentato con quelli del summit. Ma soprattuto, a riprova dei cosiddetti riscontri incrociati, c’è una pagina dei verbali di qualche anno fa, firmati da Francesco Marino Mannoia.
Il pentito racconta che gli uomini d’onore si interessarono a quel processo. Racconta che uno degli arrestati, Ruggero Vernengo, riuscì a ritardare l’interrogatorio simulando di avere la febbre alta.
«Scopo del rinvio era quello di consentire al Vernengo di assumere la paternità della villa, da parte di una donna, cognata di Rosario Riccobono».
Il giovane Ruggero, in pratica, doveva sostenere di aver comprato la villa per togliere dai guai il vero proprietario, il superboss Pietro Vernengo, «che l’aveva acquistata per 160 milioni da Rosario Riccobono».
Così, ricompare ancora il nome di Riccobono. Il pentito, quindi, rivela che l’avvocato Gaetano Zarcone introdusse in carcere la foto della donna, la finta venditrice, perché Ruggero Vernengo, che non la conosceva, «potesse fissare in mente le sembianze» a cautela di un eventuale confronto. Ma aggiunge anche molte altre cose, coperte da omissis. E’ questo il nodo della vicenda: la dichiarazione di Mutolo, quella di Marchese, che, insieme, confermano un precedente racconto di Marino Mannoia.
Era Signorino, la persona cui si erano rivolti gli uomini d’onore per essere aiutati? La risposta sarebbe dovuta arrivare dalle indagini della procura di Caltanissetta, competente per le inchieste che vedono implicati magistrati palermitani. Gli stessi che adesso sostengono la necessità di estinguere l’azione penale «per morte del reo».
Soluzione che non vede d’accordo l’avvocato Francesco Crescimanno, difensore di Signorino. «Abbiamo tutto l’interesse – dice – che l’inchiesta vada avanti. Per dimostrare l’estraneità del giudice ai fatti raccontati da Mutolo». Ma forse c’è un altro motivo per cui sarà necessario andare avanti: altri magistrati di Palermo rischiano di finire nel «tritacarne» delle rivelazioni a puntate.
Almeno tre, che al funerale di Signorino hanno dovuto fingere indifferenza. Ma che ogni mattina aprono il giornale con una certa apprensione. Francesco La Licata LA STAMPA