«Li ammazzavo poi facevo sciogliere i loro corpi anche nella calce viva» Torturati prima di essere strangolati A destra il pentito Vincenzo Scarantino in una foto scattata nel giorno del suo matrimonio
Vincenzo Scarantino sta parlando a ruota libera, facendo nuove sconvolgenti rivelazioni sui crimini della mafia a Palermo. E non ha esitato a descriversi sanguinario, spietato killer che non ha avuto neppure un attimo di esitazione prima di sciogliere nell’acido muriatico o nella calce viva alcuni nemici condannati a morte dai suoi boss. «I corpi si liquefacevano in un attimo», ha detto.
Un racconto che ha lasciato di stucco il giudice Ilda Boccassini della procura della Repubblica di Caltanissetta che l’ha incriminato da tempo per concorso nella strage di via D’Amelio in cui due anni fa furono uccisi il procuratore Paolo Borsellino e cinque dei sei poliziotti che lo scortavano.
Ricco di particolari, e con una torrenziale elencazione di nomi, date, circostanze in un italiano zoppicante ma con una puntualità stupefacente in un «picciotto» di scarsa cultura finora descritto come piccolo malavitoso di borgata.
Invece no. Lui stesso, ora, si propone come un killer crudele e inesorabile. Una specie di Giano bifronte: pronto a sparare, a uccidere ovvero pronto a sfilare in processione con il saio della sua confraternita. Papà e marito «dolcissimo» in famiglia; per parenti e amici, uno sempre pronto a darsi da fare per mandare avanti la famiglia, magari macchiandosi di qualche piccolo reato come furto d’auto e spaccio di «spinelli». E ora la valanga di ammissioni, come in una sorta di processo liberatorio, di rimozione del passato, con un’ansia autoassolutoria che secondo i testi di criminologia è ricorrente in molti assassini.
Ha riferito di aver sgozzato «come animali» Santo e Luigi Lucerà, due fratelli di 54 e 44 anni, in un rustico soffocato in un aranceto nella borgata Santa Maria di Gesù il cui «padrino» era suo cognato, Salvatore Profeta, pure arrestato per aver partecipato alla strage in via D’Amelio. E ha parlato anche di vittime torturate e strangolate, fatte scomparire perché nessuno ne sapesse più nulla. Altri casi di «lupara bianca» sui quali, finalmente, si comincia a far luce.
Come quello di Benedetto Bonanno, 22 anni, abbattuto con cinque colpi di pistola il 24 marzo del 1988 e il cui corpo fu poi distrutto dopo essere stato cosparso di benzina e incendiato. Possibile mai che un semplice «picciotto» potè ricevere incarichi così delicati? E il giudice Boccassini, che proprio ieri è stata nuovamente destinata a Milano dopo aver trascorso quale «applicata» due anni in procura a Caltanissetta, infatti gliel’ha domandato.
Gli ha chiesto se davvero egli potè essere contemporaneamente un killer di peso e un tipo qualunque. «Sono un uomo d’onore riservato», ha risposto Scarantino, chiarendo così di essere invece un mafioso d’un certo rango, ma non di esserlo pubblicamente: un ruolo che la mafia ha scopiazzato dalle logge massoniche coperte i cui componenti non si dichiarano mai all’esterno «fratelli». E il pentito ha descritto anche la cerimonia della sua iniziazione con in prima fila il cognato, presenti assieme a Profeta altri boss come Pietro Aglieri e Carlo Greco. «Alla fine ha specificato – abbiamo mangiato e ci siamo baciati tutti».
Niente più e niente meno che nella «Piovra» tv. Fra i retroscena svelati da Scarantino, quello sul pentimento di Francesco Marino Mannoia che decise di cominciare a collaborare con la giustizia dopo che gli uccisero madre sorella fratello e due zii. «Sapemmo in tempo dell’intenzione di Marino Mannoia perché Pietro Aglieri l’ebbe confidata da zio Saruzzo». Quest’ultimo altri non è che il padre di Francesco Marino Mannoia, oggi super vigilato, superstite della sua famiglia che è stata lentamente decimata nella guerra di mafia seguita alle prime denunce di Tommaso Buscetta.
Un racconto che ha lasciato di stucco il giudice Ilda Boccassini della procura della Repubblica di Caltanissetta che l’ha incriminato da tempo per concorso nella strage di via D’Amelio in cui due anni fa furono uccisi il procuratore Paolo Borsellino e cinque dei sei poliziotti che lo scortavano.
Ricco di particolari, e con una torrenziale elencazione di nomi, date, circostanze in un italiano zoppicante ma con una puntualità stupefacente in un «picciotto» di scarsa cultura finora descritto come piccolo malavitoso di borgata.
Invece no. Lui stesso, ora, si propone come un killer crudele e inesorabile. Una specie di Giano bifronte: pronto a sparare, a uccidere ovvero pronto a sfilare in processione con il saio della sua confraternita. Papà e marito «dolcissimo» in famiglia; per parenti e amici, uno sempre pronto a darsi da fare per mandare avanti la famiglia, magari macchiandosi di qualche piccolo reato come furto d’auto e spaccio di «spinelli». E ora la valanga di ammissioni, come in una sorta di processo liberatorio, di rimozione del passato, con un’ansia autoassolutoria che secondo i testi di criminologia è ricorrente in molti assassini.
Ha riferito di aver sgozzato «come animali» Santo e Luigi Lucerà, due fratelli di 54 e 44 anni, in un rustico soffocato in un aranceto nella borgata Santa Maria di Gesù il cui «padrino» era suo cognato, Salvatore Profeta, pure arrestato per aver partecipato alla strage in via D’Amelio. E ha parlato anche di vittime torturate e strangolate, fatte scomparire perché nessuno ne sapesse più nulla. Altri casi di «lupara bianca» sui quali, finalmente, si comincia a far luce.
Come quello di Benedetto Bonanno, 22 anni, abbattuto con cinque colpi di pistola il 24 marzo del 1988 e il cui corpo fu poi distrutto dopo essere stato cosparso di benzina e incendiato. Possibile mai che un semplice «picciotto» potè ricevere incarichi così delicati? E il giudice Boccassini, che proprio ieri è stata nuovamente destinata a Milano dopo aver trascorso quale «applicata» due anni in procura a Caltanissetta, infatti gliel’ha domandato.
Gli ha chiesto se davvero egli potè essere contemporaneamente un killer di peso e un tipo qualunque. «Sono un uomo d’onore riservato», ha risposto Scarantino, chiarendo così di essere invece un mafioso d’un certo rango, ma non di esserlo pubblicamente: un ruolo che la mafia ha scopiazzato dalle logge massoniche coperte i cui componenti non si dichiarano mai all’esterno «fratelli». E il pentito ha descritto anche la cerimonia della sua iniziazione con in prima fila il cognato, presenti assieme a Profeta altri boss come Pietro Aglieri e Carlo Greco. «Alla fine ha specificato – abbiamo mangiato e ci siamo baciati tutti».
Niente più e niente meno che nella «Piovra» tv. Fra i retroscena svelati da Scarantino, quello sul pentimento di Francesco Marino Mannoia che decise di cominciare a collaborare con la giustizia dopo che gli uccisero madre sorella fratello e due zii. «Sapemmo in tempo dell’intenzione di Marino Mannoia perché Pietro Aglieri l’ebbe confidata da zio Saruzzo». Quest’ultimo altri non è che il padre di Francesco Marino Mannoia, oggi super vigilato, superstite della sua famiglia che è stata lentamente decimata nella guerra di mafia seguita alle prime denunce di Tommaso Buscetta.
Le dichiarazioni di Scarantino adesso vengono passate al filtro dagli inquirenti che preferiscono procedere con cautela, ma che sono quasi certi della sua attendibilità. E ciò malgrado discrepanze fra le rivelazioni di Scarantino e quelle di altri due pentiti. Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, pure loro loquaci con i magistrati di Caltanissetta e soprattutto sulla strage di Capaci con vittime Falcone la moglie e tre agenti. Per i familiari di Scarantino è recentemente scattato il piano di protezione previsto dallo Stato, dopo che alcuni parenti, temendo vendette trasversali, avevano negato che il giovane si fosse davvero pentito. In vicolo Bonafede dove gli Scarantino alloggiano nella borgata Guadagna si svolse anche una manifestazione con tanto di cartelli di protesta e la madre e una zia del pentito s’incatenarono per un paio d’ore davanti al Palazzo di giustizia. Antonio Ravidà LA STAMPA
VINCENZO SCARANTINO