«Ecco i capi e i killer della mafia» Il pentito racconta le vendette, le stragi, e fa i nomi di tutti gli uomini della «cupola» «Ecco i capi e i killer della mafia» Mannoia: «Anche avvocati tra gli uomini d’onore»
La sua «verità» Francesco Marino Mannoia l’ha ripetuta fino in fondo, con diligenza. Ha citato nomi e fatti. Ha stupito tutti affermando che tra i killer che uccisero il generale Dalla Chiesa e la moglie non c’erano «catanesi» (quegli stessi, come Nitto Santapaola, che sono stati condannati all’ergastolo).
Una sola zona d’ombra ha lasciato sulla sua puntigliosa audizione. «Non sa dei politici o non vuole parlarne?» gli ha chiesto a un certo punto l’avvocato Alfredo Galasso, della parte civile di Nando e Rita Dalla Chiesa. il pentito pronto, quasi a sfidarlo: «Non voglio parlarne».
L’avvocato Galasso ha osservato con amarezza: «Tace per scelta, non perché non sappia».
Silenzio anche sulle infiltrazioni dei boss negli appalti pubblici, il ricco filone che costituisce terreno di coltura per i collegamenti tra mafia, politica e pubblica amministrazione.
Gli avvocati. Marino Mannoia non è andato per il sottile nelle ore di domande e risposte, non esitando per esempio a parlare di «avvocati uomini d’onore».
E’ accaduto quando Vincenzo Gervasi, pure della parte civile di Dalla Chiesa, gli ha domandato come i boss detenuti all’Ucciardone, beffandosi dei controlli, riescano a comunicare con l’esterno. «Attraverso i parenti e uomini d’onore che vengono a fare visita — ha sostenuto — e alcuni avvocati che sono anch’essi uomini d’onore.
Ma di questi non intendo parlare perché si tratta di fatti che non hanno attinenza con la presente materia processuale». E «uomo d’onore» il pentito ha anche definito l’avvocato Salvatore Chiaracane, imputato di associazione mafiosa, conosciuto — ha precisato — nel carcere di Tram, in Puglia, dov’erano reclusi insieme con Giovambattista Bontate. «Fu lui che ci presentò» ha proseguito Marino Mannoia. Le sue affermazioni su non meglio precisati avvocati che sarebbero mafiosi hanno spinto l’avvocato Frino Restivo, presidente della camera penale, a un primo passo.
Una sola zona d’ombra ha lasciato sulla sua puntigliosa audizione. «Non sa dei politici o non vuole parlarne?» gli ha chiesto a un certo punto l’avvocato Alfredo Galasso, della parte civile di Nando e Rita Dalla Chiesa. il pentito pronto, quasi a sfidarlo: «Non voglio parlarne».
L’avvocato Galasso ha osservato con amarezza: «Tace per scelta, non perché non sappia».
Silenzio anche sulle infiltrazioni dei boss negli appalti pubblici, il ricco filone che costituisce terreno di coltura per i collegamenti tra mafia, politica e pubblica amministrazione.
Gli avvocati. Marino Mannoia non è andato per il sottile nelle ore di domande e risposte, non esitando per esempio a parlare di «avvocati uomini d’onore».
E’ accaduto quando Vincenzo Gervasi, pure della parte civile di Dalla Chiesa, gli ha domandato come i boss detenuti all’Ucciardone, beffandosi dei controlli, riescano a comunicare con l’esterno. «Attraverso i parenti e uomini d’onore che vengono a fare visita — ha sostenuto — e alcuni avvocati che sono anch’essi uomini d’onore.
Ma di questi non intendo parlare perché si tratta di fatti che non hanno attinenza con la presente materia processuale». E «uomo d’onore» il pentito ha anche definito l’avvocato Salvatore Chiaracane, imputato di associazione mafiosa, conosciuto — ha precisato — nel carcere di Tram, in Puglia, dov’erano reclusi insieme con Giovambattista Bontate. «Fu lui che ci presentò» ha proseguito Marino Mannoia. Le sue affermazioni su non meglio precisati avvocati che sarebbero mafiosi hanno spinto l’avvocato Frino Restivo, presidente della camera penale, a un primo passo.
Restivo ha annunciato che oggi chiederà al consiglio dell’Ordine degli avvocati e procuratori legali di «assumere iniziative a tutela della deontologia e onorabilità della classe forense palermitana».
Mannoia tesse un implacabile atto d’accusa sul filo d’una tensione che si è mantenuta al massimo. Il pentito arriva gratificato con un «vai a c…», volgare ma esplicativo come più non si può, da un suo cugino, Antonino Costantino, imputato a piede libero durante il confronto, nel tardo pomeriggio.
La replica del pentito è giunta come uno schiaffo quando Costantino ha chiesto: «Vorrei sapere giorno, mese e anno in cui avrei commesso questi fatti». E dopo averlo mandato «a quel paese», Marino Mannoia rivolto al cugino: «Sei figlio dello zio Agostino e tra noi c’è un legame di sangue. Più mi schiero contro di te e più ti salvo la vita.
Ho detto che non sei uomo d’onore, che vuoi di più? Però è vero che hai raffinato con me eroina nel 1979 e nel 1980».
L’offesa. «Non voglio neanche vederlo in faccia — aveva detto poco prima Marino Mannoia al presidente che gli aveva annunciato l’imminente faccia a faccia —, perché non ha mandato neanche un mazzo di fiori per la morte di mia madre, mia sorella e mia zia assassinate».
Il pentito ha anche sostenuto che tempo fa Antonino Costantino scambiò per lui in una banca di Cefalù, la bella località turìstica a 60 chilometri da Palermo, dollari frutto del traffico di drogaLa cupola.
Marino Mannoia ha parlato della campagna di sterminio scatenata dai corleonesi che, con Salvatore Riina, hanno assunto da anni la guida di Cosa Nostra pronti a disfarsi di chiunque si opponga.
Un potere nelle mani di una supercosca al di sopra di tutte le altre non si era mai visto. Marino Mannoia rivela l’identità dei boss membri della «cupola» come già avevano fatto Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
«Michele Greco, Salvatore Riina, Giuseppe e Giacomo Gambino, Francesco Madonìa, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Antonino Rotolo, un ruolo marginale aveva «Nené» Geraci, mentre Michele Greco e Salvatore Riina, i super-boss, venivano anche rappresentati da Pino Greco «Scarpa» (da tutti gli altri sempre chiamato, invece, «Scarpuzzedda», ndr) e da Bernardo Provenzano».
Per Pippo Calò non ha mezzi termini: sebbene sia in carcere da anni ne è sempre membro effettivo.
Dalla mafia si esce morti o pentiti.
I killer. Ha anche fatto i nomi dei killers della potente, sanguinaria cosca di corso dei Mille, quella della camera della morte in piazza Sant’Erasmo, che secondo lui sono «Pietro Senapa, Salvatore Rotolo, Giuseppe Spataro, Antonino Marchese, Vicenzo Sinagra «Tempesta», Pietro Alfano, Francesco Tagliavia e Giuseppe Marchese». E al presidente Vincenzo Palme-giano che gli ha chiesto se fossero proprio killer, ha risposto: «Siamo tutti killer; anch’io, signor presidente, ho le mie responsabilità».
Del fratello minore Agostino, fatto sparire con la lupara bianca nell’aprile dell’anno scorso, Marino Mannoia aveva già parlato l’altro ieri, all’inizio dell’audizione, come di un sicario.
Mannoia tesse un implacabile atto d’accusa sul filo d’una tensione che si è mantenuta al massimo. Il pentito arriva gratificato con un «vai a c…», volgare ma esplicativo come più non si può, da un suo cugino, Antonino Costantino, imputato a piede libero durante il confronto, nel tardo pomeriggio.
La replica del pentito è giunta come uno schiaffo quando Costantino ha chiesto: «Vorrei sapere giorno, mese e anno in cui avrei commesso questi fatti». E dopo averlo mandato «a quel paese», Marino Mannoia rivolto al cugino: «Sei figlio dello zio Agostino e tra noi c’è un legame di sangue. Più mi schiero contro di te e più ti salvo la vita.
Ho detto che non sei uomo d’onore, che vuoi di più? Però è vero che hai raffinato con me eroina nel 1979 e nel 1980».
L’offesa. «Non voglio neanche vederlo in faccia — aveva detto poco prima Marino Mannoia al presidente che gli aveva annunciato l’imminente faccia a faccia —, perché non ha mandato neanche un mazzo di fiori per la morte di mia madre, mia sorella e mia zia assassinate».
Il pentito ha anche sostenuto che tempo fa Antonino Costantino scambiò per lui in una banca di Cefalù, la bella località turìstica a 60 chilometri da Palermo, dollari frutto del traffico di drogaLa cupola.
Marino Mannoia ha parlato della campagna di sterminio scatenata dai corleonesi che, con Salvatore Riina, hanno assunto da anni la guida di Cosa Nostra pronti a disfarsi di chiunque si opponga.
Un potere nelle mani di una supercosca al di sopra di tutte le altre non si era mai visto. Marino Mannoia rivela l’identità dei boss membri della «cupola» come già avevano fatto Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
«Michele Greco, Salvatore Riina, Giuseppe e Giacomo Gambino, Francesco Madonìa, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Antonino Rotolo, un ruolo marginale aveva «Nené» Geraci, mentre Michele Greco e Salvatore Riina, i super-boss, venivano anche rappresentati da Pino Greco «Scarpa» (da tutti gli altri sempre chiamato, invece, «Scarpuzzedda», ndr) e da Bernardo Provenzano».
Per Pippo Calò non ha mezzi termini: sebbene sia in carcere da anni ne è sempre membro effettivo.
Dalla mafia si esce morti o pentiti.
I killer. Ha anche fatto i nomi dei killers della potente, sanguinaria cosca di corso dei Mille, quella della camera della morte in piazza Sant’Erasmo, che secondo lui sono «Pietro Senapa, Salvatore Rotolo, Giuseppe Spataro, Antonino Marchese, Vicenzo Sinagra «Tempesta», Pietro Alfano, Francesco Tagliavia e Giuseppe Marchese». E al presidente Vincenzo Palme-giano che gli ha chiesto se fossero proprio killer, ha risposto: «Siamo tutti killer; anch’io, signor presidente, ho le mie responsabilità».
Del fratello minore Agostino, fatto sparire con la lupara bianca nell’aprile dell’anno scorso, Marino Mannoia aveva già parlato l’altro ieri, all’inizio dell’audizione, come di un sicario.
Ieri l’ha confermato, ribadendo che il giovane, il 6 agosto del 1985, fece parte del commando che esplose 115 colpi di fucile mitragliatore sovietico Kalashnikov nell’agguato in via Croce Rossa.
Furono massacrati il vicequestore Ninni Cassarà, vicecapo della squadra mobile, e l’agente che lo scortava, Roberto Antiochia, di soli 20 anni. «Gli AK-47 (appunto i Kalashnikov, ndr) erano a disposizione soltanto delle «famiglie» di Resuttana e Ciaculli, e mio fratello lo ebbe da quella di Resuttano, quando partecipò all’omicidio del vicequestore Ninni Cassarà. Punto e basta».
Il pentito, ricordando i delitti dei suoi congiunti, ha negato di essere «animato da spirito di vendetta» e sull’uccisione, il 23 dicembre, di suo zio Carlo Schiavo, pure imputato nel dibattimento in corso, ha mormorato: «Hanno fatto questa bravata e vorrei capire perché». E con un improvviso e imprevisto tono conciliante, di chi sta per davvere dalla parte della giustizia, s’è anche occupato degli innocenti: «Non è giusto — ha detto — che paghino persone che non c’entrano con l’organizzazione».
Per evitare di dare l’impressione di tenersi sul vago, ha poi ammonito i fratelli Salvatore e Pietro Marsalone, imputati anche loro, «a stare attenti perché vanno cercando protezione da chi potrebbe procurare loro sgradite sorprese». Le esecuzioni.
La ferocia dei boss è stata il motivo conduttore della requisitoria del pentito. Per esempio, Antonino Grado non volle tradire il cugino Salvatore Contorno, condannato a morte dopo il pentimento e sostenne che non ne aveva notizie da un bel po’ di tempo. Ma per sua sfortuna, qualcuno li vide insieme e riferì. La solidarietà familiare fu punita.
Grado venne ucciso. Identica sorte toccò a Francesco Mafara, per lo stesso motivo.
Ultimata la deposizione, il presidente ha chiesto a Marino Mannoia se volesse assistere al prosieguo del dibattimento e lui ha risposto: «No, rinuncio permanentemente». Quindi tutti via dall’aula-bunker. Il processo riprenderà mercoledì. Antonio Ravidà LA STAMPA
Furono massacrati il vicequestore Ninni Cassarà, vicecapo della squadra mobile, e l’agente che lo scortava, Roberto Antiochia, di soli 20 anni. «Gli AK-47 (appunto i Kalashnikov, ndr) erano a disposizione soltanto delle «famiglie» di Resuttana e Ciaculli, e mio fratello lo ebbe da quella di Resuttano, quando partecipò all’omicidio del vicequestore Ninni Cassarà. Punto e basta».
Il pentito, ricordando i delitti dei suoi congiunti, ha negato di essere «animato da spirito di vendetta» e sull’uccisione, il 23 dicembre, di suo zio Carlo Schiavo, pure imputato nel dibattimento in corso, ha mormorato: «Hanno fatto questa bravata e vorrei capire perché». E con un improvviso e imprevisto tono conciliante, di chi sta per davvere dalla parte della giustizia, s’è anche occupato degli innocenti: «Non è giusto — ha detto — che paghino persone che non c’entrano con l’organizzazione».
Per evitare di dare l’impressione di tenersi sul vago, ha poi ammonito i fratelli Salvatore e Pietro Marsalone, imputati anche loro, «a stare attenti perché vanno cercando protezione da chi potrebbe procurare loro sgradite sorprese». Le esecuzioni.
La ferocia dei boss è stata il motivo conduttore della requisitoria del pentito. Per esempio, Antonino Grado non volle tradire il cugino Salvatore Contorno, condannato a morte dopo il pentimento e sostenne che non ne aveva notizie da un bel po’ di tempo. Ma per sua sfortuna, qualcuno li vide insieme e riferì. La solidarietà familiare fu punita.
Grado venne ucciso. Identica sorte toccò a Francesco Mafara, per lo stesso motivo.
Ultimata la deposizione, il presidente ha chiesto a Marino Mannoia se volesse assistere al prosieguo del dibattimento e lui ha risposto: «No, rinuncio permanentemente». Quindi tutti via dall’aula-bunker. Il processo riprenderà mercoledì. Antonio Ravidà LA STAMPA