L’autista di Falcone “Oggi c’è inflazione di antimafia: solo i giovani danno speranza”

 

Giuseppe CostanzaGiuseppe Costanza (Facebook/Fondazione Giuseppe Costanza)

Ascolta questo articolo ora…

 

Era il 1984, da una settimana Giuseppe Costanza aveva preso servizio all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo quando arrivò una proposta: diventare l’autista del giudice Giovanni Falcone. Costanza guidò l’auto del magistrato per otto anni, il giorno della strage di Capaci però era seduto sul sedile posteriore e riuscì a sopravvivere. Al rientro a lavoro, Costanza racconta di essere stato dimenticato. “Non sapevano cosa farsene di me – dice – finché un giorno mi incatenai davanti al Tribunale: allora Caselli, che all’epoca era procuratore di Palermo, si accorse di me e mi assegnò una mansione”. Anni dopo la strage, Costanza ha messo in piedi una fondazione a proprio nome. Il 2 giugno di quest’anno, all’età di 77 anni, Giuseppe Costanza ha ricevuto l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Domenica 13 ottobre alle 17 aprirà la rassegna “Utopia” al Teatro Antonio Zanoletti presso il centro parrocchiale di Roveleto di Cadeo.

Quando incontrò Falcone?

Lavoravo da una settimana all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo quando la segreteria del dottor Falcone mi chiamò per dirmi che il giudice voleva parlarmi. Andai nel “bunkerino” del pool antimafia, bussai alla porta e mi fecero accomodare. Falcone iniziò a farmi una serie di domande sulla mia vita, anche se in realtà già sapeva tutto perché aveva indagato su di me. Alla fine mi chiese se fossi disponibile a guidare la sua macchina. La proposta mi suonò strana: lavoravo come conducente di automezzi speciali, perché chiedere la mia disponibilità, siccome non dipendeva da me? Comunque accettai. Alla prima uscita in macchina mi resi conto del perché di quella strana domanda: quando Falcone si muoveva, la sua auto blindata era preceduta da un’auto civetta e poi da una volante che apriva il corteo, dietro c’era un’altra volante che lo chiudeva e in alto un elicottero che ci dava il via. Venivo da tutt’altro mondo e mi resi conto dell’attività pericolosa che Falcone stava svolgendo nell’interesse dell’Italia intera. Per comunicarmi i suoi spostamenti lui bypassava l’iter istituzionale, mi chiamava direttamente a casa e non in ufficio. Mi faceva piacere, voleva dire che Falcone si fidava di me.

La chiamò a casa anche quel 23 maggio 1992?

Sì, chiamò tre volte. La prima fu il giorno prima, per dirmi che dovevamo andare alla mattanza del tonno, la seconda per posticipare al giorno dopo e la terza per comunicarmi che sarebbe arrivato alle 19.45 all’aeroporto di Punta Raisi e dirmi di allertare la scorta.

E poi cosa successe?

Così ci ritrovammo a Punta Raisi, entrammo in auto sulla pista e parcheggiammo nell’area dei vigili del fuoco. Quando arrivò l’aereo, un Falcon 10 dei servizi, mi affiancai. Falcone scese in compagnia della moglie Francesca Morvillo. Lei volle sedersi davanti, al posto del passeggero, e Falcone, per stare accanto alla moglie, preferì mettersi personalmente alla guida dell’auto che io lasciai in folle, col motore acceso. Disse che sarebbe andato direttamente a una riunione con altri magistrati, senza fermarsi a casa. Ci saremmo dovuti passare ugualmente per accompagnare Francesca Morvillo. E ci demmo appuntamento al lunedì successivo (25 maggio, nda) per il volo di ritorno, siccome quella domenica io ero in permesso per la comunione di mio figlio. Parlammo della necessità di lasciarmi la chiave dell’auto per andare a prenderlo due giorni dopo e lui, forse sovrappensiero, tolse la chiave con l’auto in corsa – eravamo in autostrada a 120 chilometri orari – e me la passò. Io gli feci notare la pericolosità di quell’azione. Ma, ora, posso dire che se sono vivo è proprio perché lui ha spento il motore, azionando una sorta di freno motore. Così, anche l’auto che di precedeva ha rallentato e gli attentatori, quando hanno visto la prima auto raggiungere l’obiettivo, hanno schiacciato il pulsante. Noi siamo andati a sbattere contro il muro di detriti che si sono sollevati dall’esplosione. Dei presenti in quella macchina io sono l’unico sopravvissuto.

Falcone la scelse anche come barbiere, è così?

Sì, fu una sua richiesta dopo aver scoperto che precedentemente lavoravo come barbiere. Per evitare il rischio di uscire di casa, mi chiese se fossi disponibile a tagliargli i capelli. E quindi al mattino andavo a casa di Falcone e trovavo lui e sua moglie in vestaglia.

Lei lamenta di essere stato “dimenticato” dopo la strage di Capaci. Perché?

Se muori, c’è sempre qualcuno che si riempie la bocca, ma se sopravvivi ti dimenticano e ti abbandonano a te stesso. A me è successo dal 1992 al 2013. Poi, mio nipote di 13 anni, guardando in televisione le celebrazioni dell’anniversario della strage di Capaci, mi chiese: nonno, ma non c’eri anche tu a Capaci? Perché non sei sul palco insieme a loro? A quel punto mi si accese una lampadina e iniziai a denunciare i fatti: c’è gente che non ha versato una goccia di sangue e diventa eroe nazionale mentre io, che rischiai la vita nell’attentato, venivo trattato in quel modo.

Come uscì lei dalla strage?

Rimasi in coma per diverso tempo, si pensava che non sarei sopravvissuto. Mi avevano addirittura preparato la bara.

Che idea si è fatto di quell’episodio?

La settimana prima dell’attentato andai a prendere Falcone all’aeroporto. Appena salì in macchina, mi disse testualmente: “È fatta, sarò il Procuratore nazionale antimafia. Ci organizzeremo a Roma con un ufficio, non ci muoveremo più con una macchina ma con un piccolo elicottero”. Sono convinto che ci sia un collegamento: la strage fu dovuta a quella nomina, qualcuno che ha avuto molta paura ha ordinato di farlo saltare in aria. Non credo proprio che Totò Riina, Bernardo Provenzano o Matteo Messina Denaro avessero una capacità tecnica tale da imbottire un’autostrada di esplosivo, sono manovali che hanno avuto l’ordine di far uccidere Falcone. Tra l’altro, non c’era bisogno di fare quell’attentato a Palermo perché Falcone a Roma si sarebbe mosso senza scorta: se avessero voluto uccidere l’uomo, l’avrebbero potuto fare in uno di quei vicoli. Invece, a Palermo, si poteva dire che era stata la mafia. Ma di che mafia parliamo? Forse della manovalanza.

E la strage di via d’Amelio? Come si collega alla sua tesi?

Se c’era qualcuno che poteva prendere il posto di Giovanni Falcone, quello era Paolo Borsellino. Sarebbe stato lui il designato a diventare Procuratore nazionale antimafia, una figura istituzionale nata per la prima volta dopo la strage di Capaci.

Borsellino venne a trovarla in ospedale, è vero?

Fu l’unico magistrato che venne a trovarmi.

Falcone e Borsellino avevano paura di un possibile attentato?

Era un rischio che si affrontava, ma si viveva. Non dimentichiamoci dell’attentato fallito (quello dell’Addaura del 21 giugno 1989, nda) quando qualcuno mise una borsa con una cassetta metallica collegata con dei fili su una scogliera. Quando un collega la vide, capì subito che si trattava di una bomba, avvertì il magistrato che però non ci credette. E mi chiese se l’avessi vista con i miei occhi, io gli risposi di sì, che c’era una bomba giù nella scogliera. Così io rimasi sul posto insieme agli artificieri che fecero esplodere l’ordigno. Noi eravamo sempre pronti a reagire a un attacco, ma quando ti fanno saltare in aria in autostrada non è più un attentato alla persona, ma alla nazione.

Lei dopo la strage continuò a lavorare. Cosa fece?

Dopo la strage, in Tribunale non sapevano cosa farsene di me, fu il periodo più mortificante della mia vita. Così un giorno feci un’azione clamorosa: mi incatenai davanti al tribunale. Allora si accorsero della mia esistenza: il giudice Gian Carlo Caselli, che all’epoca era Procuratore di Palermo, bypassando i funzionari preposti, emise un ordine di servizio per reinserirmi nell’ambito lavorativo col compito di trascrivere i movimenti delle auto dal libro di bordo a quello dell’ufficio. Successivamente, feci un concorso interno e passai all’Ufficio informatico.

Sono passati più di trent’anni. Ha ancora senso parlare di antimafia oggi?

Credo che oggi ci sia un’inflazione di antimafia, non senza qualche interesse. Io, con la mia Fondazione, non ricevo alcun soldo, ma c’è chi invece percepisce denaro. Devo però osservare un fenomeno: noto che i ragazzi che incontro hanno un approccio eccezionale all’antimafia, stanno attenti quando racconto la storia nei particolari e fanno domande. Spero tanto che la nuova generazione riesca a cambiare le cose.