CALTANISETTA: a processo due ex generali e un ex poliziotto

Il teorema della trattativa Stato-mafia, che nel corso degli anni è cambiato in corso d’opera, prevede anche che Bernardo Provenzano sia stato protetto per anni attraverso un patto tra mafia e politica, con l’ausilio di soggetti deviati e i soliti ex Ros.
La vicenda, che muore a Palermo, entra nell’imminente processo di Caltanissetta attraverso il rinvio a giudizio degli ex generali dei carabinieri della Dia in pensione Alberto Tersigni e Angiolo Pellegrini oggi 82enne, e dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, accusato di aver protetto Cosa Nostra in concorso con soggetti dei servizi segreti non identificati.
Si tratta della tesi elaborata anche dalla procura generale di Palermo, all’epoca guidata dal procuratore Roberto Scarpinato, ed emersa durante il processo d’appello sulla trattativa.
Dal capo d’accusa della procura di Caltanissetta sottoscritto dal sostituto procuratore Pasquale Pacifico e dai magistrati Domenico Gozzo e Salvatore Dolce della procura nazionale antimafia, emerge che gli ex generali Pellegrini e Tersigni erano stati intercettati in vista della loro audizione come testimoni al processo d’appello sulla trattativa. Secondo l’accusa, avrebbero concordato cosa riferire. Eppure, secondo l’avvocato Basilio Milio, uno dei legali dell’ex generale Tersigni, hanno semplicemente dialogato per ricordarsi a vicenda i fatti di venti anni fa.
In fondo non ci sarebbe nulla di male. Per fare un esempio, questo è accaduto anche con l’ex magistrato Giuseppe Ayala, sentito nel 2019 al processo depistaggio Via D’Amelio.
All’ennesimo cambio di versione, lui stesso ha affermato: “Prima di venire qui ho chiamato Lo Forte e telefonicamente mi ha assicurato che non era lui la persona che mi aiutò a riconoscere Borsellino.
Io quindi ricordavo male”. Nessuno ha avuto nulla da ridire o insinuare che si siano accordati.
Ma ritorniamo al rinvio a giudizio.
L’ex colonnello Pellegrini è stato il braccio destro di Falcone, uomo di fiducia del Pool antimafia che ha portato a compimento le più importanti indagini nei confronti di Cosa Nostra. Il “rapporto dei 161”, firmato dai poliziotti Ninni Cassarà e Francesco Accordino e, appunto, da Angiolo Pellegrini, è stato all’origine del maxiprocesso dove, tra gli altri, compare anche Provenzano.
La tesi contro lui e Tersigni è quella di non aver vagliato le dichiarazioni di Pietro Riggio, ora collaboratore di giustizia e che all’epoca operava da infiltrato per conto della Dia stessa con lo scopo di arrivare alla cattura di Bernardo Provenzano.
In quel periodo, da confidente, raccontò agli ex ufficiali di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Peluso che nel 2001 c’era un progetto di attentato nei confronti del giudice Leonardo Guarnotta, che all’epoca presiedeva il processo di primo grado nei confronti dell’allora senatore Dell’Utri. Per la procura nissena i due ex generali della Dia non avrebbero messo al vaglio tali dichiarazioni. Anzi, sono accusati di aver affermato il falso (e quindi depistato) dinanzi alla procura che chiedeva chiarimenti sui fatti, non avrebbero detto ciò che sapevano e avrebbero addirittura ostacolato le indagini finalizzate ad acquisire elementi per comprovare l’autenticità delle dichiarazioni di Riggio.
Che abbiano riferito male è un dato di fatto. Ma dopo anni, forse è pacifico non ricordarsi più alcuni fatti e fare confusione. D’altronde questo avviene anche con ben altri personaggi, che però non risulta siano stati raggiunti da avvisi di garanzia.
La notizia clamorosa è che per la procura nissena Riggio è credibile. O meglio, sono credibili i racconti che Peluso avrebbe fatto a lui.
Ma chi è quest’ultimo? Proviene dal nutrito sottobosco composto da falsari, truffatori, papponi. Lo stesso Peluso – come si legge nelle motivazioni della sentenza d’appello trattativa – era un pregiudicato per truffa, violenza sessuale, sfruttamento della prostituzione e altri reati. Costui si spacciava per uno che avrebbe commesso l’attentato di Capaci, di far parte dei servizi deviati e altro ancora. Protagonista di delitti eclatanti e trame eversive decisamente non alla portata della sua statura.
Tra i vari racconti che fece a Riggio, uno è quello del sedicente progetto di attentato nei confronti di Guarnotta. E nel capo d’accusa, per la procura nissena, è tutto vero. Gli ex colonnelli Tersigni e Pellegrini hanno fatto finta di nulla? Nonostante sia già poco credibile di suo, visto che dopo la sconfitta dell’ala stragista la mafia ha usato la tattica della “sommersione” (leggasi intercettazione di Pino Lipari, uomo di Provenzano, del 2 agosto 2000), e quindi nessun rumore e nessun eclatante attentato, gli ufficiali della Dia misero subito sotto intercettazione telefonica Peluso. Ma non solo.
La Dia avvisò correttamente l’allora procuratore Pietro Grasso. Come si legge nell’informativa della Dia, si parla di una fonte (ovvero Riggio) che rivela ai carabinieri «non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di Cosa Nostra, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola».
La fonte dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di «tale Peluso Giovanni». Quindi presero sul serio questo racconto de relato, appurando nello stesso tempo che Peluso era un pregiudicato per prostituzione e truffa.
Quest’ultimo reato è stato per Grasso un campanello d’allarme, tant’è vero – come si legge nell’informativa – che ha concordato l’avvio delle indagini preventive «con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte».
Alla fine la nota del 2001 dell’ex colonnello Pellegrini chiariva che le indagini non avevano confermato alcun coinvolgimento di Peluso in reati di criminalità organizzata.
Dalle intercettazioni era emerso soltanto un tenore di vita irregolare e contatti con persone sospette, ma nessun elemento concreto di affiliazione mafiosa. Piuttosto il linguaggio criptico delle conversazioni e i precedenti penali di Peluso lasciavano intendere un probabile coinvolgimento in attività truffaldine.
Che un collaboratore come Riggio si sia convinto delle veridicità riferite da Peluso, ci può stare. Poi sta agli inquirenti verificare che ciò sia vero. Eppure per la procura, l’ex poliziotto Peluso, l’ex delinquente Antonio Mazzei, assieme a soggetti dei servizi segreti non identificati (quindi se non individuati, rimane una ipotesi), in realtà non volevano catturare Provenzano all’epoca ricercato con una taglia milionaria, ma proteggerlo.
Quella stessa combriccola fu convocata dagli ex colonnelli, che speravano nella cattura di Provenzano. Pellegrini successivamente li avrebbe definiti truffaldini e millantatori. Costoro indicarono Riggio, allora detenuto, come possibile fonte, prospettandogli garanzie processuali in cambio di informazioni.
Una volta scarcerato, Riggio rientrò nelle estorsioni per Cosa Nostra, fornendo alcuni risultati investigativi come l’individuazione di una talpa in procura e informazioni sulle dinamiche criminali locali. Ma finì lì. Molto utile per le cose che conosceva, ma nulla per le cose che apprendeva de relato da Peluso. Quest’ultimo è stato rinviato a giudizio, ma il paradosso è che ci si basa sui suoi racconti che avrebbe fatto a Riggio e, forse, alla sua ex compagna Marianna Castro.
Quindi ancora una volta si riesuma la trattativa, questa volta ordita in particolar modo da un politico ben specifico. Non compare nel capo d’accusa. Ma c’è nell’indagine della procura di Firenze sulle stragi continentali: Marcello Dell’Utri. In fondo Riggio lo cita come colui che avrebbe indicato i luoghi da colpire nel 1993. Ma non era stato, secondo i teoremi riesumati, il neofascista Paolo Bellini?
Difficile trovare un filo logico in tutto questo calderone. Resta il fatto che ancora una volta, prevale la tesi della mafia eterodiretta. Il contrario di ciò che hanno combattuto, e sono morti per aver messo il becco sugli affari di Cosa Nostra con le grandi imprese, anche se ci si ostina a non voler vedere, Falcone e Borsellino. IL DUBBIO Damiano Aliprandi