Nell’articolo della scorsa settimana abbiamo esaminato le rivelazioni dell’ex mafioso Maurizio Avola sulla provenienza del tritolo utilizzato nellastrage di via D’Amelio : esplosivo militare T4, recuperato dall’ex Jugoslavia e, passando per laToscana , trasportato in Sicilia prima degli attentati. Una testimonianza corroborata dalle parole diAgnese Piraino , moglie di Paolo Borsellino , che confermò come il magistrato fosse a conoscenza dell’arrivo di quel carico letale.

La procura nissena, tuttavia, mantiene la sua posizione sull’inattendibilità di Avola, senza aver effettuato un riscontro che potrebbe essere chiave – come la comparazione con l’esplosivo sequestrato a Catania nel 1992 – e senza aver incluso, almeno nella seconda richiesta di archiviazione, risposte alla memoria presentata dall’avvocato Fabio Trizzino , legale dei figli di Borsellino, che proponeva interessanti accertamenti.

Il quadro che ne emerge alimenta interrogativi irrisolti: chi erano i mafiosi ancora non identificati nel commando compartimentato da Totò Riina ? Perché all’epoca le procure siciliane non attivarono un coordinamento sulle indagini relative al tritolo, già individuato prima delle stragi, nonostante fosse emerso il ruolo dei catanesi come specialisti di Cosa Nostra negli esplosivi? Come conciliare le riserve su Avola con il suo contributo decisivo in diversi importanti processi? Il nodo cruciale è che gran parte del giornalismo nostrano, anziché chiarire, ha contribuito a diffondere elementi privati ​​di riscontri – come l’etichetta di Avola “ eterodiretto ” da entità oscure – nonostante i pedinamenti e le intercettazioni iper invasive non abbiano mai dimostrato tale tesi. L’attenzione si è così spostata su teorie complottiste basate su presupposti errati.

Un esempio è un articolo di Fabrizio Gatti , serio giornalista d’inchiesta, che ha involontariamente alimentato l’idea di un presunto coinvolgimento di una società israeliana nel depistaggio. Eppure, come dimostrano le stesse intercettazioni che coinvolgono non solo Avola e il suo avvocato Ugo Colonna , ma anche i giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo , si tratta di un fatto banalissimo. Dinamica che, al di là delle speculazioni, resta verificabile negli atti.

La domanda è: cosa emerge sia delle carte processuali che dalle fonti aperte? Intanto, la tempistica. L’inchiesta di Santoro e Ruotolo era già conclusa quando Avola, sollecitato dai giornalisti stessi, rilasciò le sue dichiarazioni ai procuratori di Caltanissetta . La procura, però, smentì le rivelazioni con un comunicato rilasciato lo stesso giorno della pubblicazione del libro scritto dai giornalisti, senza attendere accertamenti approfonditi, scatenando così la campagna mediatica contro Avola. Per rispondere agli attacchi, Ruotolo e Santoro decisero spontaneamente (e senza l’impulso da alcuna “entità”) di ricorrere a una soluzione estrema, anche per un eventuale evento televisivo: sottoporre Avola alla “macchina della verità”, pur sapendo che i risultati non avrebbero avuto alcun valore legale.

Contattarono un ex investigatore, autore di un libro sul tema, che durante un pranzo illustrò i metodi disponibili: dal poligrafo ( poco attendibile) alla risonanza magnetica funzionale (più rigorosa), fino all’analisi vocale ( Layered Voice Analysis ), utilizzata da una società israeliana. Fu quest’ultima la strada scelta.

Dopo aver ottenuto i contatti della società, l’audio di un’intervista ad Avola sulla strage venne inviato per l’esame. La prima risposta fu ambigua: il soggetto risultava “stressato e pessimista”, diceva il vero ma occultava informazioni sensibili (e vedremo che effettivamente ci sarebbero stati alcuni omicidi che lui dice di aver compiuto). Si decise allora di registrare e inviare (risulta dalle intercettazioni) una seconda intervista, più strutturata e con domande mirate, ma da quel momento gli israeliani sparirono nel nulla.Quindi altro che intervento dall’alto. Casomai bisogna chiedersi perché la società sparì. Forse fu avvicinata da qualcuno oppure più probabilmente – visto il clamore mediatico – ha preferito non essere additata come parte del presunto depistaggio.

Un altro equivoco da sfatare è l’idea che Avola smentisca le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, il pentito che ha smascherato le menzogne di Vincenzo Scarantino. Al contrario, le sue rivelazioni potrebbero integrare un tassello ulteriore sulla dinamica della strage. La criticità nasce dall’assenza di elementi concreti per sostenere che la versione di Avola copra presunti coinvolgimenti dei servizi segreti nell’attentato. Partiamo dai fatti: Cosa Nostra disponeva di uno smisurato esercito, artificieri competenti e quantità di esplosivo sufficienti a radere al suolo interi edifici.

Nessuna testimonianza ha mai indicato la presenza di soggetti istituzionali durante l’esecuzione materiale della strage. Anche Spatuzza, interrogato sul garage dove fu portata la Fiat 126 rubata, non parlò di poliziotti o agenti del Sisde. Andando alle fonti, nel primissimo verbale del 3 luglio 2008, dichiarò: «In tale luogo (il garage ndr) notai la presenza di due persone: il primo aveva intorno ai 50 anni ed era un soggetto da me non conosciuto, il secondo era Renzino Tinnirello».

Alla richiesta di identificare l’uomo ignoto, rispose: «Non sono in grado di riconoscere l’uomo di 50 anni da me visto nel garage non avendo prestato al medesimo particolare attenzione». Successivamente, ribadì di avere un ricordo «sfocato». Potrebbe trattarsi, banalmente, di un mafioso non noto a Spatuzza. Non si capisce quindi come sia nata l’ipotesi – del tutto priva di riscontri – che fosse un uomo delle istituzioni. Talmente suggestiva che lo stesso Spatuzza dirà di sentirsi in pericolo se effettivamente, come indicò come ipotesi la procura, fosse dei servizi segreti.

Sul tema dei servizi segreti, è noto che Avola – durante l’incidente probatorio – abbia affermato di aver commesso omicidi «per loro conto». Tuttavia non aggiunge dettagli, scelta comprensibile considerando che non viene creduto neppure in merito all’attentato. Il riferimento ai “servizi” rimane dunque generico. Va precisato: Avola era un soldato, agiva su ordine del suo capo Aldo Ercolano, ed è plausibile che fosse quest’ultimo a gestire questi eventuali contatti. I catanesi erano “particolari”, come li definì Nino Gioè. Diversi i corleonesi che non fanno i favori a nessuno. «Se me la facessi con i servizi, non mi chiamerei Totò Riina», disse il capo dei capi intercettato al 41 bis. Interessante che l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, nell’atto indirizzato al Gip, metta in guardia che potrebbe riferirsi alla morte di Sergio Castellari.Probabilmente ha una sua fonte. Se fosse vero, parliamo di uno strano suicidio che riguarda il direttore generale dell’allora ministero delle Partecipazioni Statali. Siamo in piena epoca di tangentopoli. Ma qui bisogna fermarsi, altrimenti si resta nel campo delle congetture visto che probabilmente Avola non parlerà mai più.

Come emerso già dalle intercettazioni, Avola si è autoaccusato anche dell’omicidio di Enrico De Pedis, detto Renatino boss della banda della magliana. La dinamica, in questo caso, non coinvolgerebbe i servizi, ma un regolamento di conti tra Ercolano e la vittima. La procura esclude il suo coinvolgimento sottolineando che era sotto sorveglianza.

Un’argomentazione debole: come ricorda l’avvocato Colonna nella sua ultima memoria, Avola riuscì a compiere una rapina miliardaria alle poste di Alessandria pur essendo sorvegliato speciale, volando da Catania a Milano. Andata e ritorno in un giorno, ed è tutto documentato nelle motivazioni di condanna. Raggiungere Roma, teatro del delitto De Pedis, sarebbe stato teoricamente ancora più semplice. Il cuore della questione, però, resta la strage di Via D’Amelio. I buchi neri – chi azionò la bomba? Da dove arrivò il tritolo? – non possono essere colmati con ipotesi suggestive, ma solo attraverso i fatti. Ogni deviazione rischia di far perdere altri anni di tempo.  DAMIANO ALIPRANDI – IL DUBBIO 5.3.2025