(di Lara Sirignano) (ANSA) – La lotta alla criminalità organizzata come pietra fondante di un Paese più giusto e prospero: a quattro mesi dall’anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone, Mario Monti rilancia l’impegno del Governo nel contrasto alle mafie. E lo fa sullo sfondo di un’altra ricorrenza tragica: l’eccidio in cui persero la vita il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. A 30 anni dalla morte del prefetto dei 100 giorni, il premier affida a un messaggio il suo pensiero. E ribadisce che la guerra ai clan è una priorita” dell’azione dell’esecutivo. “Voglio ricordare con profondo dolore l’estremo sacrificio di queste persone in difesa delle istituzioni e dei cittadini. – scrive – Dalla Chiesa è rimasto nella memoria collettiva un simbolo di rigore morale, un esempio di vita al servizio dello Stato di chi, nonostante i rischi, non ha mai indietreggiato nella lotta contro la mafia. Spero che questo ricordo resti scolpito per sempre nella memoria dei giovani italiani e in particolare di quanti in Sicilia hanno il coraggio di riaffermare ogni giorno il rispetto della legge come dovere morale”. Parole, quelle di Monti, precedute dai messaggi del capo dello Stato Giorgio Napolitano e dei presidenti di Camera e Senato Gianfranco Fini e Renato Schifani, letti al termine della messa celebrata nella cappella della Legione dei carabinieri. E se il presidente della Repubblica ricorda il generale come “un eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa”, Fini invita a vedere nella testimonianza del prefetto “un modello per tutti”. A rappresentare il Governo a Palermo oggi c’era il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. “Il suo sacrifico non fu inutile”, ha detto al termine della cerimonia religiosa evitando di riaffrontare, nonostante fosse incalzata dai giornalisti, le recenti polemiche sulle intercettazioni delle telefonate tra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. “Oggi sono qui per ricordare il generale Dalla Chiesa – dice – Di altro non parlo”. Attualità, dunque, volutamente tenuta fuori da commemorazioni tutte istituzionali. Pochissimi i cittadini che hanno partecipato alle manifestazioni. Qualche curioso affacciato al balcone di casa in via Carni, dove i killer di Cosa nostra investirono con una tremenda pioggia di proiettili le tre vittime, nessuno alla messa a cui hanno preso parte istituzioni locali, il capo della polizia Antonio Manganelli, il comandante generale dell’Arma Leonardo Gallitelli e la figlia di Dalla Chiesa Rita. “Voglio venire a vivere a Palermo”, ha detto ai cronisti. “Qui ritrovo mio padre”. Un proposito piaciuto molto al sindaco del capoluogo, Leoluca Orlando andato ad abbracciarla. Ma se Rita Dalla Chiesa ha lanciato da Palermo un messaggio di speranza “parlo con la gente e vedo una voglia di cambiamento”, diverse sono state le parole del fratello Nando, assente dalle cerimonie e polemico nei confronti di “quei giornalisti o intellettuali (o politici) che, anziché restare sgomenti davanti alla terribile grandezza di quanto successe in quei mesi palermitani, e usare la propria intelligenza per trarne insegnamenti radicali sulla politica, sulle burocrazie, sui valori del Palazzo, sulla storia di una grande città mediterranea e dell’Italia tutta, hanno pensato di dimostrare meglio il loro valore professionale rifiutando il teatro della tragedia, per cercare in carte segrete da nessuno mai trovate in trent’anni il senso degli avvenimenti”. Fuori dal coro delle ufficialita” anche il procuratore aggiunto Antonio Ingroia che ha colto l’occasione della presentazione di un libro sul prefetto per puntare il dito contro uno Stato, che era abituato più a convivere che a essere intransigente con i poteri criminali. “Non solo Dalla Chiesa ma anche tanti altri come Falcone e Borsellino – ha detto – erano considerati delle ‘anomalie’. Al di là dei possibili mandanti esterni e dei moventi convergenti, il punto è che i responsabili morali dell’isolamento di queste persone stavano dentro uno Stato imbelle”. .
DALLA CHIESA: NAPOLITANO, ECCEZIONALE SERVITORE DELLO STATO
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha inviato al prefetto di Palermo, Umberto Postiglione un messaggio nel quale definisce il generale Dalla Chiesa,di cui ricorre il trentennale della uccisione un ” eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa” . Ricordarne il sacrificio ”contribuisce a consolidare quella mobilitazione di coscienze e di energie e quell’unione d’intenti fra Istituzioni, comunita’ locali e categorie economiche e sociali, attraverso cui recidere la capacita’ pervasiva di un fenomeno criminale insidioso e complesso”.Questo il messaggio del Capo dello StatoI:”A trent’anni dal vile agguato al prefetto di Palermo, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, alla moglie Emanuela Setti Carraro e al coraggioso agente di scorta Domenico Russo, crudelmente assassinati dalla mafia, rendo commosso omaggio alla loro memoria, ricordandone l’estremo sacrificio a difesa delle Istituzioni e dei cittadini. Eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa, in Sicilia ed in altre regioni, arricchita dagli straordinari risultati conseguiti nella lotta al terrorismo, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa fu inviato nuovamente nell’isola, quale prefetto della provincia di Palermo, in una fase particolarmente difficile della lotta alla mafia. La sua uccisione provocò un unanime moto d’indignazione, cui seguì un più deciso e convergente impegno delle Istituzioni e della società civile, che ha consentito di infliggere colpi sempre più duri alla criminalità organizzata, ai suoi interessi economici ed ai suoi legami internazionali”. “Ricordare il sacrificio del generale Dalla Chiesa e dei tanti che ne hanno condiviso il destino a salvaguardia dei valori di giustizia, di democrazia e di legalità, contribuisce a consolidare quella mobilitazione di coscienze e di energie e quell’unione d’intenti fra Istituzioni, comunità locali e categorie economiche e sociali, attraverso cui recidere la capacità pervasiva di un fenomeno criminale insidioso e complesso”, aggiunge il Capo dello Stato. “Con questo spirito di rinnovata adesione ai valori fondanti della Repubblica e interpretando i sentimenti di gratitudine dell’intera Nazione, rinnovo ai familiari del generale Dalla Chiesa, della sua gentile consorte Emanuela e dell’agente Russo espressioni di calorosa vicinanza e solidale partecipazione al loro dolore
MAFIA: DALLA CHIESA; FIGLIA, VERRO’ A VIVERE A PALERMO
”Voglio venire e vivere a Palermo per continuare a stare nel luogo in cui trovo papa”’. Lo ha detto Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso 30 anni fa a Palermo dalla mafia, a margine della commemorazione dell’anniversario dell’eccidio. ”Palermo e’ una citta’ che amo molto – ha aggiunto – ho parlato con la gente, con i ragazzi, e credo che ci sia un voglia reale di cambiamento”. Ai giornalisti che le chiedevano cosa pensasse del sacrificio del padre ha risposto: ”Certo non e’ stato inutile”.
DALLA CHIESA: CANCELLIERI, SUO SACRIFICIO NON INUTILE
“Il sacrificio del generale Dalla Chiesa non fu inutile e contribuì a radicare in tutti il sentimento di ripulsa per ogni forma di violenza mafiosa”. E’ uno dei passaggi dell’intervento del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri che ha preso la parola al termine della messa celebrata a Palermo, in occasione del trentesimo anniversario dell’uccisione di Dalla Chiesa. Cancellieri che ha ricordato l’esperienza in Sicilia del prefetto ha aggiunto: “Da prefetto di Palermo iniziò a dialogare con la società civile e gli si aprirono nuovi campi d’azione che preoccuparono coloro che poi decisero di eliminarlo”. Il ministro ha ricordato Dalla Chiesa come “un grande servitore dello Stato che proseguì senza cedimento nella strada della legalità”. Ai giornalisti che, al termine della cerimonia, le chiedevano un commento sulle recenti polemiche sulle intercettazioni delle conversazioni tra il capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Mancino Cancellieri ha risposto: “Oggi sono qui per ricordare Dalla Chiesa. La sua esperienza è un monito per tutti noi”.(ANSA).
DALLA CHIESA: FINI,SUA GRANDEZZA MORALE MODELLO PER TUTTI
“Sono trascorsi trent’anni dall’efferato assassinio del Prefetto di Palermo, Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo. Resta immutato il profondo senso di amarezza per una così grave ferita inferta all’Italia da parte della criminalità organizzata”. E’ questo l’inizio del messaggio inviato dal Presidente della Camera,Gianfranco Fini al Prefetto di Palermo,Umberto Postiglione. “Il Generale Dalla Chiesa fu ucciso per mano della mafia che ne temeva il coraggio, l’esperienza investigativa, il rigore, l’efficacia di un impegno intenso ed incondizionato, proprio dei grandi servitori dello Stato, a difesa della legalità e della democrazia”. La sua “altissima testimonianza e la sua grandezza morale” devono continuare “a costituire un modello per tutti, operando in profondità sulla nostra identità e sensibilità civica. Una società autenticamente libera richiede infatti la condivisione di una sempre più diffusa e radicata cultura del rispetto della legge e della giustizia, unitamente ad un costante ed attivo impegno – di Istituzioni, magistrati, forze dell’ordine, associazioni e cittadini – in una profonda e decisiva sfida tesa a riscattare il Paese, liberandolo dal fenomeno della criminalità organizzata una volta per tutte”. Alle famiglie “Dalla Chiesa, Setti Carraro e Russo invio i sensi della più sentita solidarietà, mia e della Camera dei deputati”.
DALLA CHIESA: GRASSO, NON FU SOLO UN DELITTO DI MAFIA
Nel delitto Dalla Chiesa è possibile riconoscere una “causale non ascrivibile direttamente alla mafia”. Di un movente complesso e oscurato da tanti misteri ha parlato il procuratore nazionale antimafia nella commemorazione del generale a trent’anni dalla strage di via Carini. Grasso è intervenuto dopo la messa nella chiesa di San Giacomo dei militari all’interno della caserma intestata allo stesso Dalla Chiesa. Il procuratore ha ricordato che sono stati già condannati gli uomini della “cupola” e gli esecutori materiali. “Ma si può affermare – si è chiesto – che tutta la verità è stata accertata, che tutte le responsabilità sono state scoperte? Vi sono tante domande rimaste senza risposta giudiziaria per cui si deve sempre tendere a svelare, anche dopo trent’anni, le trame e i misteri nascosti”. Per Grasso il progetto di eliminare Dalla Chiesa sarebbe stato pensato addirittura tre anni prima del suo incarico di prefetto a Palermo. Nel 1979 Tommaso Buscetta, detenuto nel carcere di Cuneo, contattò un brigatista per sapere se le Br fossero disposte a rivendicare l’uccisione del generale. Uscito dal carcere, Buscetta apprese da Stefano Bontate che quel progetto nasceva dalla preoccupazione di “ambienti politici” che Dalla Chiesa, forte del successo contro il terrorismo, volesse “porsi a capo dello Stato con un’azione di forza”. Gaetano Badalamenti fece pure cenno a un collegamento con il caso Moro.
DALLA CHIESA: PALERMO E TORINO RICORDANO STRAGE
Trent’anni fa, sul luogo della strage, in via Isidoro Carini, qualcuno scrisse “Qui è morta la speranza dei siciliani onesti”. Era il 4 settembre ’82 quando la scritta comparve. Il giorno prima in quel posto erano stati uccisi Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Domattina alle 10 il ministro dell’Interno Anna Maria cancellieri, in rappresentanza del governo, sarà presente in via Carini alla cerimonia per ricordare il generale ucciso dalla mafia. Con la titolare del Viminale ci sarà anche la figlia di Dalla Chiesa, Rita, che in questi trent’anni si era sempre rifiutata di partecipare alle commemorazioni. Dopo via Carini, il ministro assisterà alla messa nella Chiesa di S. Giacomo dei Militari, all’interno della Caserma intitolata a Carlo Alberto dalla Chiesa e che è la sede del Comando legione Carabinieri Sicilia. Qualche ora più tardi, alle 15.30, Cancellieri sarà nella parte opposta del Paese, a Torino, per ricordare il prefetto anche in Piemonte. La cerimonia si svolgerà nella Sala Rossa del Comune, alla presenza del comandante generale dei Carabinieri, Leonardo Gallitelli, il figlio di Dalla Chiesa, Nando, il sottosegretario alla difesa Filippo Milone, e il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese, Gian Carlo Caselli. La commemorazione torinese sarà preceduta in mattinata dalla deposizione di una corona d’alloro al Monumento al Carabiniere ai Giardini Reali. La giornata piemontese nasce da una mozione approvata all’unanimità dal Consiglio comunale di Torino lo scorso 7 maggio. Palermo e Torino, due città dove Dalla Chiesa profuse il suo impegno nella lotta contro le Brigate Rosse (costituendo il Nucleo speciale antiterrorismo) e contro la mafia. E nel municipio del capoluogo siciliano, domani alle 19, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e il sindaco Leoluca Orlando parteciperanno alla presentazione del libro “A Palermo per morire”, di Luciano Mirone, che pone mille interrogativi su quella strage di cui sono stati trovati e condannati solo gli esecutori materiali. I cento giorni di Dalla Chiesa a Palermo, arrivato nel giugno dell’82 dopo una scia di omicidi e senza quei poteri che gli erano stati promessi, si conclusero sotto i colpi di un gruppo di fuoco. Dopo i successi contro il terrorismo, il prefetto era tornato in Sicilia per la battaglia più difficile, sconfiggere quella mafia che aveva cominciato a conoscere da capitano dei carabinieri a Corleone, nel ’49. Ai funerali di Dalla Chiesa, la figlia Rita non aveva stretto le mani di nessun politico e si era sempre rifiutata di partecipare alle commemorazioni nel capoluogo siciliano. Domani sara’ presente per la prima volta in via Carini (lungo lo stesso asse, poco distante, ora c’é una strada intitolata a Dalla Chiesa), insieme alla figlia Giulia che nell’82 aveva 11 anni. Oggi, in un’intervista al Corriere della Sera, dice di volersi trasferire in questa città quando smetterà di lavorare e ai palermitani onesti manda un messaggio: “La speranza non è finita”.
ALLA CHIESA: FIGLIO, UN DELITTO POLITICO
“Troppe volte in questi anni ho avuto e continuo ad avere la sensazione che gran parte della politica sembra non essere interessata alla ricerca della verità e della giustizia e soprattutto, cosa ancora più grave, sembra voler procedere a un’opera di rimozione del passato”. Così Nando Dalla Chiesa, figlio di Carlo Alberto, il generale ucciso 30 anni fa a Palermo, parla ad Articolo21 della strage del 3 settembre 1982. “‘Un delitto politico’ affermava Giorgio Bocca, nell’ultima intervista a mio padre, all’indomani dell’assassinio. Lo confermo – dice – anche dopo 30 anni”. “Quella politica – aggiunge – che può uccidere e far finta che nulla sia successo. O che si dimena alla ricerca di carte segrete e inedite quando sarebbe meglio cercare di fare i conti con quello che è accaduto platealmente. I mandanti (e gli esecutori) di Cosa nostra sono stai individuati, rimangono fuori i mandanti esterni. Ma non possiamo dimenticare cosa può voler dire quell’accusa prescritta ad Andreotti di aver intrattenuto rapporti organici con la mafia fino al 1980. Mio padre tutto sommato viene ucciso nell’82”. “C’era un grumo di potere – continua – che penalmente può non essere stato identificato ma moralmente e politicamente sì”. Nando Dalla Chiesa interviene anche sul tema della verità sulle stragi del biennio ’92-93 sulla presunta trattativa Stato-Mafia: ”La verità è sempre lontana, e l’unico modo in cui può venire fuori con nettezza è che qualcuno parli. Ma non può essere un mafioso a parlarne perché non verrebbe creduto. Deve essere un uomo delle istituzioni a raccontare quello che sa; temo però che non lo farà nessuno”.
DALLA CHIESA: FIGLIO, MEMORIA NON VENGA PIU’ UMILIATA
“Posso approfittare della attenzione che si risveglia in queste occasioni per chiedere che la memoria non venga più umiliata?”. Lo afferma Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto ricordando così, in un articolo pubblicato su Libera Informazione, il padre, ucciso trent’anni fa dalla mafia “Chiedo due cose – spiega – assicuriamo ai cittadini i loro elementari diritti, impediamo che vengano elargiti loro sotto forma di favori dalla mafia. E facciamo sì che le istituzioni siano sempre più importanti di una tessera di partito. Sembra poco ma è una rivoluzione” “Dopo trent’anni mi capita spesso di trovare in un ventenne di Libera – dice – più rispetto e memoria di mio padre di quanti ne trovi in chi ebbe modo di vivere l’incubo sanguinoso degli anni di piombo, in chi poté assistere in diretta all’annuncio pubblico del suo assassinio durato quattro mesi in una Palermo infuocata.” “Parlo di quei giornalisti o intellettuali (o politici) – prosegue Nando Dalla Chiesa – che, anziché restare sgomenti davanti alla terribile grandezza di quanto successe in quei mesi palermitani, e usare la propria intelligenza per trarne insegnamenti radicali sulla politica, sulle burocrazie, sui valori del Palazzo, sulla storia di una grande città mediterranea e dell’Italia tutta, hanno pensato di dimostrare meglio il loro valore professionale rifiutando il teatro della tragedia, per cercare in carte segrete da nessuno mai trovate in trent’anni il senso degli avvenimenti
DALLA CHIESA: UN INTRECCIO DI SEGRETI LUNGO 30 ANNI
(di Franco Nicastro) C’era un inquieto presagio nelle parole che Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva affidato a Giorgio Bocca nella sua ultima intervista: “Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo”. Quelle parole davano forza a un senso di impotenza, frustrazione, ostilità che accompagnò Dalla Chiesa nei suoi ‘cento giorni a Palermo’. La sfida alla mafia era cominciata lo stesso giorno (30 aprile 1982) in cui era stato ucciso Pio La Torre. E si sarebbe conclusa la sera del 3 settembre 1982 in via Carini: sotto i colpi di Kalashnikov di un commando il generale fu ucciso con la moglie Emmanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Mentre all’Ucciardone si brindava, in una Palermo stretta tra orrore e disperazione, una mano anonima lasciò un cartello sul luogo dell’agguato: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. All’indignazione della città fece eco la denuncia del cardinale Salvatore Pappalardo che ai funerali svolti in un clima di grande tensione tuonò: “Mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata”. Sagunto, cioé Palermo, era stata espugnata da un sistema criminale che aveva colpito lo Stato e stritolato Dalla Chiesa, lasciato solo e senza i poteri di coordinamento e di intervento a lungo e inutilmente reclamati. All’atto della sua nomina il generale era stato chiaro. Veniva in Sicilia per colpire la struttura militare di Cosa nostra ma soprattutto per spezzare il sistema di coperture e di complicità tra la mafia e la politica. Al presidente del consiglio Giulio Andreotti aveva promesso: “Non guarderò in faccia nessuno”. L’attacco alla mafia era partito con un rapporto contro 162 boss, l’atto di avvio di un lavoro investigativo che pose le basi del primo maxiprocesso a Cosa nostra con 475 imputati e una montagna di accuse. L’altro fronte investigativo aperto da Dalla Chiesa era il sistema politico-affaristico contiguo alla mafia. Ma proprio queste iniziative, hanno scritto i giudici della corte d’assise, suonavano come un “chiaro campanello d’allarme per chi all’epoca traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti”. Per questo l’azione del superprefetto fu circondata dalle ostilità politiche ambientali. Preparata da una catena di sangue intitolata dalla mafia “campagna Carlo Alberto”, con la strage di via Carini i boss poterono regolare i conti con un nemico storico implacabile che in Sicilia aveva già dato prova della sua determinazione: nel 1949 quando, giovane capitano, era stato mandato a Corleone a perseguire il clan di Luciano Liggio e tra gli anni ’60 e ’70 quando aveva comandato la legione dei carabinieri di Palermo. Dopo trent’anni i processi hanno scritto una verità parziale. Sono stati condannati i sicari e i vertici della cupola tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Ma i lati oscuri sono tanti: “Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. Così si legge nella sentenza che ha condannato all’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, e a 14 anni i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. L’ombra della “coesistenza” di interessi, di cui parla la sentenza, incombe su un misterioso episodio. La sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza di Dalla Chiesa lenzuoli per coprire i cadaveri. Ma ne approfittò per ripulire la cassaforte dove il superprefetto teneva documenti scottanti, compreso un dossier sul caso Moro. Quando i magistrati l’aprirono non trovarono più nulla. Da quel mistero ne sono germinati tanti altri, tutti irrisolti, sull’intreccio di poteri che decretarono la fine di Dalla Chiesa. (ANSA).