Le barriere poste a tutela del segreto bancario svizzero potrebbero sbriciolarsi nella primavera del 2013.
È questa, infatti, la data limite entro la quale dovrebbe essere ultimato un apposito progetto di legge voluto dal governo federale di Berna. Dopodiché, esaurito il percorso previsto dalla legislazione rossocrociata, potrebbe definitivamente crollare il muro della tradizionale segretezza elvetica. E così, le autorità fiscali potranno avere accesso ai dati bancari anche in caso di evasione fiscale e non solo per frode o riciclaggio come avviene attualmente. Una vera e propria rivoluzione. Un rovesciamento epocale di una certezza divenuta inossidabile nel corso degli anni: la segretezza dei forzieri svizzeri. Una possibilità che sta già facendo passare notti insonni ai numerosissimi pendolari del conto corrente. Tra questi, tanti anche quelli in arrivo da Como. Un tema che sta già facendo discutere, a partire dal mondo politico d’oltreconfine.
«Siamo contrari come partito – dice Pierre Rusconi, ex presidente dell’Udc del Canton Ticino, ideatore della campagna “Balà i ratt” e oggi consigliere nazionale – Se poi la volontà dovesse sconvolgere un sistema bancario come il nostro, bisognerà però trovare le maggioranze politiche. E ho grossi dubbi che ciò possa avvenire. Inoltre gli accordi bilaterali dei quali si parla da tempo prevedono già pesanti limitazioni».
Infatti, per cercare di non arrivare allo scambio automatico delle informazioni – ovvero alla fine definitiva del segreto bancario – il governo elvetico sta siglando con diversi Paesi degli accordi fiscali bilaterali, denominati di “Rubik” (il Parlamento svizzero li ha già sottoscritti a maggio con Gran Bretagna, Germania e Austria ma sono contestati da un referendum in Svizzera). Si tratta di convenzioni che prevedono il versamento di un’imposta liberatoria sui patrimoni per regolarizzare il passato e di una tassa alla fonte sui redditi per il futuro.
«Già questi patti sarebbero deleteri – aggiunge Rusconi – Prima, comunque, a esprimersi saranno chiamati i cittadini. Le 50mila firme per il referendum sono state raccolte. A novembre si dovrebbe andare alle urne. Ma se si dovesse arrivare alla firma degli accordi e, ancor peggio, a un ancor più specifico percorso legislativo teso allo smantellamento del segreto bancario, avremmo conseguenze devastanti». A partire dall’inevitabile perdita di posti di lavoro. «Sarebbe una logica conseguenza. Se si dovesse dare libero accesso alle informazioni bancarie, sarebbero numerosissimi i clienti delle banche pronti a spostare i capitali altrove, senza il minimo indugio. Tanto che, in base ad alcuni calcoli effettuati, nel giro di 3 anni andrebbero in fumo 100mila posti di lavoro nel settore». Scenari disastrosi, che trasformerebbero quella che da sempre viene considerata una prerogativa della Svizzera nella principale causa di un’emorragia occupazionale.
Uno scenario cupo che viene criticato anche dal deputato della Lega dei Ticinesi, Lorenzo Quadri. «Sono contrario a questa ipotesi. Soprattutto non capisco il comportamento del consiglio federale. Si sta intraprendendo una strada rischiosa – precisa Quadri – Così facendo si andrà a indebolire il diritto alla privacy».
Ma anche in questo caso, ciò che più preoccupa sono le possibili ricadute sul territorio di una rivoluzione epocale di tal natura. «Aprire le banche, mettere in piazza i dati e ledere la privacy farà inevitabilmente cambiare la percezione nei confronti del nostro sistema bancario – aggiunge Quadri – e verranno cancellati posti di lavoro. Nel solo Ticino si parla di 5mila posti a rischio. In Svizzera saranno di più». Un’analisi della situazione e degli scenari futuribili viene tratteggiata da Aldo Bertagni, analista economico e vicedirettore della “Regione Ticino”. «È una notizia che non sorprende più di tanto gli analisti – dice Bertagni – Si sta infatti parlando, ormai da tempo, degli accordi bilaterali di Rubik e della materia nel suo complesso. Iniziare a parlarne era giusto. Penso che prima di arrivare in fondo bisognerà sentire la gente con un referendum. Nella migliore delle ipotesi passeranno due anni. Se poi il popolo dovesse essere chiamato più di una volta a esprimersi ci vorranno anche 5 o 6 anni».
Fabrizio Barabesi
Corriere di Como 23.9.2012