Dagli scandali una spinta verso il rating

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di Lionello Mancini

 

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Quella di un rating che premi le imprese più attive sul fronte della legalità è un’idea lungimirante, ma ora che è avviata per legge, viene osteggiata in forme più o meno esplicite dagli habitué dell’opaco e dai cultori dell’Italia irredimibile. Eppure, a ben guardare, una dimostrazione indiretta della bontà del percorso, viene proprio dagli scandali più o meno trimalcionici e dalla politica con la “p” minuscola che impazza nelle Regioni. È probabile che per “Batman” e simili scattino le manette. Ma anche in questo caso resterebbe la frustrante sproporzione tra l’enormità dei comportamenti dei partiti – tutti -, i danni materiali e morali provocati dai loro unanimismi predatori e le sanzioni penali che sarà possibile applicare. Una sproporzione che ribadisce come per certi fenomeni non esiste controllo contabile, amministrativo, penale che tenga. Finché il sistema partitico-istituzionale non si darà regole chiare, trasparenti, verificabili, il nostro denaro continuerà a mancare dove serve, ma a fluire copioso nelle tasche sbagliate. E ogni volta che riemergeranno furberie, raggiri che inghiottono risorse, vitalizi da nababbi cinquantenni (per non dire delle spartizioni di poltrone nelle società finto-private a capitale pubblico e gestione partitica), ogni volta ri-assisteremo a un breve mea culpa bofonchiato a “Porta a porta” e poi toccherà agli avvocati disquisire e cavillare (i partiti sono enti privati, i presidenti non hanno poteri sufficienti, le Giunte sono altro dai Consigli) fino al nulla delle sentenze definitive. La specularità tra la tragica farsa della politica e i rischi che corre il mondo delle imprese, è proprio qui. In un mercato bloccato, in mano alla sottopolitica e alla burocrazia, quando non alla criminalità, o le imprese saranno in grado di promuovere al proprio interno una governance che illumini contabilità, produzioni, organizzazione, assunzioni, rendicontazione, oppure continuerà il tran tran degli imprenditori che vivono nel perenne timore di inciampare nel cavillo, nella politica, nella mafia, nelle procure. Da qui l’idea prospettica di dare senso e valore agli sforzi dell’impresa che non punta sul mondo fatiscente della politica, o quello putrido della criminalità, ma che si vanta di avere in regola tutte le proprie carte: faticando, rischiando, spendendo, ma sfilandosi così dal giogo dell’elargizione pubblica (magari “sollecitata” con tangenti) o, peggio, del boss, dell’usuraio, dell’estorsore. E senza più lamentare «lo Stato che non fa la sua parte». Eppure, a quest’idea di puntare sulla legalità si oppongono obiezioni che sembrano più sabbia buttata negli ingranaggi che contributi a costruire uno strumento efficiente. Per non dire della bocciatura secca dei costruttori, delusi da un Governo che – parola di vicepresidente Ance – «alza nuovi steccati che rischiano solo di creare difficoltà alle imprese». Anche se alla successiva affermazione «Questo tipo di rating non esiste in nessun altro Paese al mondo», si può facilmente ribattere che nemmeno i nostri record di evasione fiscale, di corruzione e di mafie esistono in altri Paesi al mondo. E dunque? Non è ora di cominciare a remare tutti nella stessa direzione di un repulisti generale di teste di maiale, coppole e bustarelle?

Sole 24 Ore. 1.10.2012