Pignatone: «Ora i boss riciclano tangenti»

 

INTERVISTA AD AVVENIRE
di Marco Birolini
 

 

INTERVISTA AD AVVENIRE
di Marco Birolini

Da Palermo a Roma, passando per Reggio Calabria. Giuseppe Pignatone è da anni in prima linea nella lotta alle mafie. Dal suo ufficio di procuratore capo della capitale, invita a tenere alta la guardia: contro i clan tanto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare. E soprattutto, sottolinea, ognuno può giocare un ruolo importante. 

Fino a pochi anni fa si credeva, o si fingeva di credere, che le mafie infestassero solo una parte d’Italia. Ora ci si accorge che il fenomeno riguarda tutto il Paese e inquina economia e politica. È troppo tardi?

In realtà, l’ho constatato di recente in un dibattito al Nord, ci sono ambienti e persone che continuano a negare l’esistenza stessa del problema “mafie” fuori dal Meridione. Temo che questo atteggiamento sia frutto della volontà di non affrontare i problemi e le scelte imposte dalla presenza delle mafie. Eppure le indagini degli ultimi anni, e questo credo sia un fatto di eccezionale importanza, hanno dimostrato senza alcun dubbio come le mafie siano presenti e attive anche in zone del Paese che non si credevano interessate al fenomeno. Comunque non è certamente troppo tardi per reagire, nella consapevolezza che le mafie sono un pericolo gravissimo non solo per l’economia ma per la stessa vita democratica. 

Lei ha conosciuto da vicino le dinamiche siciliane, poi quelle calabresi. Che scenari ha trovato a Roma?

Roma è naturalmente una realtà molto complessa. Le indagini non possono concentrarsi quasi soltanto sulla criminalità mafiosa come avviene in altre sedi, ma devono estendersi ai temi della corruzione, politica e amministrativa, e della criminalità economica e fiscale, fino a quelli della sicurezza pubblica e della violenza di matrice politica. Una questione fondamentale è poi quella dell’aggressione ai patrimoni accumulati illecitamente e reinvestiti a Roma ed in altre zone del Lazio. Fra l’altro, vi sono segnali che fanno ritenere che vi siano rapporti fra questi diversi fenomeni criminali.

 A cosa si riferisce?

In particolare, è probabile che alcuni dei canali di riciclaggio (intermediari finanziari, professionisti e faccendieri) usati dalla criminalità organizzata siano usati anche per “ripulire” le grandi somme di denaro provenienti dalla corruzione e dalla criminalità economica. Su questi temi il mio ufficio, che conta su molti magistrati di grande valore e che si avvale di uffici di polizia giudiziaria di grande livello, si sta impegnando a 360 gradi, senza pregiudizi di alcun tipo ma anche senza pensare che ci siano santuari inviolabili. Sul fronte del contrasto alle mafie è poi fondamentale avere iniziato una proficua collaborazione con le procure della Repubblica di altre città, a cominciare da quelle di Milano, con cui vi è ormai un rapporto consolidato, e di Napoli, con il cui procuratore, Giovanni Colangelo, si è realizzata una piena intesa.

 Che cosa si deve fare per sconfiggere le mafie?

Sappiamo bene quello che dobbiamo fare dal lato della repressione: indagini, arresti, sequestri; sempre, sia chiaro, nell’assoluto rispetto delle regole, con un’azione seria e continua e con la consapevolezza che la mafia non è solo intimidazione e violenza. La vera forza della mafia sta nelle relazioni che è riuscita e riesce a tessere con esponenti di tutti i settori della società. Se così non fosse, le mafie non avrebbero resistito per 150 anni e più.

 In effetti, già nel 1900 don Sturzo diceva che la mafia entra nei corridoi di Montecitorio. E si è visto che le infiltrazioni toccano anche magistratura e forze dell’ordine.

È quello che emerge dalla storia e, per nostra esperienza, dalle indagini delle forze di polizia e di tanti uffici giudiziari in tutta Italia: non ci sono categorie sociali di per sé immuni dal rischio di “contagio” del virus mafioso, così come non ci sono categorie di per sé necessariamente condannate a restare prigioniere della criminalità. Anzi, le indagini hanno dimostrato che professionisti, politici, burocrati e spesso anche imprenditori stringono accordi con le mafie per convenienza: contano di guadagnare con l’appoggio dei mafiosi denaro, voti, progressi di carriera, potere. A volte questo calcolo ha successo, altre volte no: perché arriva la giustizia penale o perché il mafioso pian piano esige sempre di più e chi ha stretto patti con lui si ritrova di fatto suo prigioniero e perde i suoi beni, l’impresa, la reputazione e, quel che è peggio, la sua stessa libertà.

 C’è anche chi sa dire no ai clan.

L’esperienza in una realtà difficile come quella calabrese ha dimostrato che ragazzi figli di persone condannate all’ergastolo per reati di mafia sono stati capaci, senza rinnegare i loro padri, di maturare una propria scelta di vita basata su valori completamente diversi.

 È la prova che la società civile può reagire. L’antidoto può arrivare anche da movimenti di legalità come, per esempio, Libera e Progetto San Francesco?

Sappiamo bene che la repressione non basta per affermare la legalità. La legalità è il frutto del modo di pensare e delle scelte concrete di ognuno di noi e della società nel suo insieme. Ogni nostro comportamento, ogni scelta politica, ogni fatto può influire sul livello di legalità. Naturalmente, quando le scelte positive maturano non a livello individuale, ma a livello di associazioni come quelle citate, è possibile conseguire risultati molto più significativi. In questo senso è fondamentale far capire che chi accetta di avere rapporti con i mafiosi è isolato nel suo stesso ambiente sociale, che la sua scelta non paga, indipendentemente dall’esito del processo penale.

 Per chi è cristiano, la lotta contro i clan è anche una lotta contro il male.

I vescovi italiani hanno più volte sottolineato il pericolo costituito dalla mafia definita una “struttura di peccato” e un “cancro” della nostra società. Tutti ricordiamo le parole di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento, nel 1993 (il Papa citò il quinto comandamento e disse ai mafiosi: “Basta con la civiltà della morte. Convertitevi”, ndr). Ma io ricordo anche le parole di un vescovo siciliano, monsignor Cataldo Naro, che affermava che “il contributo più vero ed efficace che la Chiesa può dare alla lotta alla mafia e più in generale a creare una società più giusta” è che i cristiani “si impegnino a vivere nella santità” nella loro vita ordinaria.

 Insieme al suo collega e amico Michele Prestipino, lei ha scritto un libro sulla ’ndrangheta intitolato non a caso “Il contagio”. Il volume si conclude con le parole di padre Pino Puglisi, martire di mafia.

Sì, sono parole che richiamano ognuno alle sue responsabilità e però aperte alla speranza: «Se ognuno facesse qualcosa, se ognuno si mettesse in gioco, se ognuno rifiutasse di farsi spettatore in un mondo che sta morendo, tutto sarebbe diverso. 

Testo Web Avvenire