Don Pino Puglisi per dire no alla mafia

 

«Vedo l’Europa come una grande prateria in cui le mafie vanno a pascolare». Non ha certo usato mezzi termini il giudice Nicola Gratteri quando un paio d’anni fa, nel corso di un convegno, ha riacceso i riflettori sulla capacità delle cosche di mutar pelle, espandersi, diffondersi. Le mafie, non v’è dubbio, sono una questione non più solo italiana, ma viene da chiedersi se, in un’Europa e in un mondo uniti dalla globalizzazione e tuttavia ancor divisi dagli interessi economici e dalle leggi, sia possibile una efficace risposta al fenomeno mafioso, capace di andare oltre i confini – pure mentali e culturali – come fa “Cosa Nostra” nel proprio àmbito.


La sfida non si vince più solo con le investigazioni, la caccia ai patrimoni, la certezza e la severità della pena, l’introduzione a livello comunitario (auspicata e non ancora realizzata) del reato di associazione mafiosa. È necessario, anche un modello di impegno civile di testimonianza cristiana. Quello di don Pino Puglisi, ad esempio, proclamato beato esattamente un anno fa, il 25 maggio 2013. Per capire quanto universale sia il messaggio di questo sacerdote palermitano basta far riferimento proprio al nostro continente: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza e rispetto dei diritti umani sono i princìpi condivisi dalle genti d’Europa. Sono valori cristiani, che il Vaticano II ha ribadito e rilanciato per tutta la cattolicità, e che infine sono stati trasfusi nella Carta dei diritti fondamentali (adottata nel 2000 e divenuta vincolante per i Paesi Ue dal 2009), i cui capisaldi sono, appunto la difesa dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali; la promozione dei diritti delle donne, dei bambini, delle minoranze e degli sfollati, senza patria; la condanna della pena di morte, della tortura, della tratta di esseri umani e di ogni discriminazione. 

Valori la cui pratica collide con le forze palesi o occulte che invece perseguono la via della sopraffazione, in quelle situazioni di emarginazione sociale e carenza di opportunità lavorative dove la criminalità organizzata attecchisce e miete vittime. Vittime come Falcone e Borsellino, e come il parroco di Brancaccio a Palermo.

Il 15 settembre del 1993 chi lo uccide alle spalle usa una calibro 7.65, solitamente non utilizzata dai mafiosi per i loro delitti. I sicari portano via il borsello della vittima: vogliono far passare l’omicidio come un tentativo di rapina finito tragicamente. Non ci riusciranno. E tutti, esecutori e mandanti, questi ultimi identificati nei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, verranno assicurati alla giustizia. Ma perché Cosa Nostra uccide un ministro di Dio? Quell’omicidio è stato, semplicemente, la conseguenza non ricercata di un’umile volontà di quotidiana fedeltà al Signore, anche di fronte alla eventualità di una morte violenta inflitta da uomini dediti al male. Prospettiva che don Pulisi non era ignota, al punto da affermare: «Il discepolo di Cristo è un testimone. La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio». 

Fu ucciso dalla mafia in odium fidei, per odio alla fede cristiana incarnata ed esercitata. Tale odio non solo ebbe per oggetto le verità da credere, ma anche le virtù richieste dalla fede. Egli subì il martirio per amore di Cristo e della Chiesa, per aver incitato la gente a preferire valori umani e cristiani, quali la difesa dei deboli, l’educazione della gioventù, il rispetto della giustizia e della legalità, l’acquisizione dei diritti che la mafia negava. Insomma, per aver invitato i suoi parrocchiani a conformarsi a quei princìpi che costituiscono anche le basi dell’Europa unita.

Oggi quel prete viene additato dalla Chiesa come emblema del modo straordinariamente ordinario di essere cristiano e di essere prete e, per ciò stesso, inevitabilmente voce critica di ogni comportamento contrastante col diritto alla vita e coi diritti fondamentali dell’uomo. Per questo, a pieno titolo, come già lo è stato per Palermo e la Sicilia, Puglisi può essere pure per le genti del Vecchio Continente – che in queste ore stanno eleggendo il nuovo Europarlamento – un punto di riferimento per una resistenza attiva, svolta in nome del Vangelo, alle varie forme di criminalità organizzata in un’Europa che tale linea proclama solennemente sin dal 2007, anche se poi, proprio in questi giorni, incredibilmente decide di considerare parte della “ricchezza” che nella Ue si produce ogni anno (il famoso Pil) pure i proventi delle attività criminali.

La figura del Beato deve perciò essere non solo un modello da imitare da parte dei credenti, ma da presentare, da far conoscere a tutti i cittadini d’Europa. Il parroco di Brancaccio, col suo sacrificio, ricorda ai cristiani e a tutti gli uomini retti, che contro le mafie non basta denunciare, prevenire, punire, ma occorre un impegno civile e un annuncio del Vangelo da testimoniare con coerenza, con convinzione. «Un cristiano – ricordava qualche tempo fa Papa Francesco – se non è rivoluzionario, non è un cristiano. Non capisco le comunità cristiane che sono chiuse in parrocchia. Uscire per annunziare il Vangelo. A noi cristiani il Signore ci vuole pastori e non pettinatori di pecorelle». Proprio come don Pino Puglisi: Prete, semplicemente prete.

AVVENIRE. 26.5.2014

Vincenzo Bertolone – arcivescovo di Catanzaro e postulatore della causa di beatificazione di don Puglisi