Papa Francesco e la Scomunica ai Mafiosi 
un Grido liberatorio contro ogni Ambiguità di Corrado Stajano

C’era dunque bisogno di un Papa arrivato di là dall’Oceano per scomunicare con solenne fermezza la mafia e i suoi uomini senza onore. È accaduto sabato scorso in Calabria, nella bella terra di Sibari, davanti a centinaia di migliaia di persone. «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male come i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono sco-mu-ni-cati». Così, scandendo le sillabe, papa Francesco ha spazzato via un’ambiguità secolare. E ancora: «La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune».

È la prima volta dall’Unità d’Italia che i mafiosi vengono scomunicati: un tempo lungo, zeppo di tragedie sanguinose nel nostro Sud soffocato, a causa delle cosche, in un vivere angosciante. Non è stato facile arrivare alla scomunica, un percorso arduo, minato da ostacoli di ogni genere.

La Chiesa, infatti, ha sempre tergiversato, frenata dalle sue corpose contraddizioni. Anche nel passato prossimo. Dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nel 1982, nel testo di un intervento del papa Giovanni Paolo II figurava un passo, già anticipato ai giornali, molto duro su Cosa nostra che poi scomparve. Neppure una parola. Nel 1985, pareva che la Commissione episcopale avesse deciso per la scomunica, ma allora fu il cardinale Ugo Poletti a tagliar corto: «Non ci sarà nessuna scomunica della mafia da parte dei vescovi, per il semplice fatto che questa sanzione è già prevista dal codice di diritto canonico». Non sono mancati via via gli inviti al pentimento, che non fanno male a nessuno. Papa Giovanni Paolo II, nel 1993 ad Agrigento davanti al tempio della Concordia, spronò i mafiosi a convertirsi; vescovi e cardinali, spesso attenti a non pronunciare la parola mafia — dispiace a non pochi benefattori — si fecero anche loro missionari del pentimento. E tutto finì lì, nella delusione e nello sconcerto degli uomini di buona volontà.

La ‘ndrangheta, impastata com’è di religiosità pagana, ha usato la Chiesa, una sua parte almeno, per i propri fini criminali e spesso gli uomini di quella Chiesa non sono stati impeccabili: basta pensare ai preti che hanno ospitato nelle loro parrocchie Luciano Liggio, Totò Riina e altri; ai collaborazionisti; ai falsi testimoni di giustizia; ai processati e condannati; ai consiglieri e consigliori inseriti a un buon livello nel sistema di collusione dei poteri criminali.

Tutto, nella ‘ndrangheta, è simbolo. Se l’organizzazione fosse soltanto criminale sarebbe stata facilmente debellata, in più di un secolo, dalle forze di polizia. Ma ha sempre avuto agganci e alleanze coi poteri. Sbandiera la Madonna e usa l’esibizione religiosa per la sua legittimazione sociale. Il nuovo, poi, ha sempre bisogno del vecchio. La processione al Santuario di Polsi, la festa della Madonna della Montagna, ai primi di settembre di ogni anno, non serve di certo ai capi della ‘ndrangheta di oggi, laureati, addottorati, plurilingue, per sussurrarsi come un tempo, mascherati tra la folla dei pellegrini, le loro trame delinquenziali. Per i traffici dell’orrore preferiscono le stanze degli hotel a cinque stelle di tutto il mondo, ma hanno ugualmente bisogno di mostrarsi. Il loro potere è la loro faccia, il loro cognome, lo stesso di quarant’anni fa, come nelle monarchie ereditarie.

Gli ‘ndranghetisti, unti di devozione, pregano e sparano. Nel 2007 nelle tasche di una delle vittime della strage di Duisburg, in Germania, è stata trovata un’immaginetta di San Michele Arcangelo. Le chiese fanno da fondale, i capi ‘ndranghetisti si inginocchiano piamente con la famiglia alla messa grande della domenica e sui sagrati, secondo la tradizione, si consumano le vendette, i delitti contro gli «infami» che devono essere visti da tutti i paesani. Le processioni, le feste patronali, i fuochi d’artificio sono appannaggio della ‘ndrangheta. Le statue delle Madonne vengono portate sulle spalle dagli «‘mbuttaturi» che gridano «viva Maria» e magari hanno appena ucciso o spacciato quintali di droga.

Poi ci sono e ci sono stati i preti coraggiosi che, a rischio della vita, hanno sbattuto in faccia ai mafiosi i portoni delle loro chiese e hanno cercato di spiegare al popolo com’era e com’è falsa la devozione esibita dagli uomini delle cosche e come la ‘ndrangheta non porta ricchezza, ma degrado e miseria, non soltanto morale. Don Giuseppe Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio, a Palermo, assassinato da Cosa nostra; don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe, assassinato dalla Camorra, sono dei martiri, ma, come scrisse Bertolt Brecht, «Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi».

La ‘ndrangheta, almeno da vent’anni, è diventata un’azienda leader del mercato criminale in Italia e in tutto il mondo, sopravanzando anche Cosa nostra. La Cassazione, il 6 giugno scorso, in una sentenza di grande rilievo sul primo troncone del processo milanese «Infinito» ha documentato, a differenza di quel che si pensava, l’unitarietà dell’organizzazione ‘ndranghetista e l’esistenza di un vertice di comando, anche se differente dalla Cupola di Cosa nostra.

Papa Francesco ha ben capito che un Paese, e anche il mondo, non possono crescere, progredire, con questo cancro in casa. Quel che succede in Argentina, la tragedia della criminalità e della droga diffusa a tonnellate nel (e dal) Paese natale, gli hanno di certo fatto da stimolo e da guida. Non è stato prudente come i suoi predecessori o insensibile come non pochi prelati di curia. L’evento di Sibari non ha soltanto un sapore evangelico, ma anche un grande peso politico e civile. Un grido liberatorio, quello di papa Francesco.




Corriere della Sera 3.7.2014