Rifiuto del pizzo (dopo otto anni) riceve l’applauso

 


Di Lionello Mancini

È stata una scossa per Lamezia Terme vedere sul palco di Trame4 la loro concittadina Francesca Miscimarra e ascoltare le sue parole, a tratti interrotte dall’emozione. Trame4 è la quarta edizione di un piccolo festival calabrese di metà giugno, un appuntamento sfacciatamente e gioiosamente schierato contro la mafia, come le trame dei libri e delle vite che vi vengono presentate nell’arco di cinque giorni (e quattro notti di musica e spettacoli). In uno degli incontri, sul palco di Piazzetta San Domenico, davanti a un pubblico foltissimo e silenzioso, c’erano tre “Capitane coraggiose”: in modi, luoghi ed epoche diversi, tutte e tre hanno detto “no” al racket delle estorsioni. Con esiti diversi.
Raffaella Ottaviano, commerciante a Ercolano – prima e sola nel suo paese – ha risposto ineducatamente, dieci anni fa, agli emissari “dello zio” che le chiedevano il pizzo: invece di trattare, li ha messi alla porta ed è andata dai carabinieri. Oggi, dice, Ercolano è una cittadina libera dalla camorra, dove non si spara più. Del resto, ha aggiunto, «loro erano solo 200, non potevano far paura a 60mila abitanti e infatti dopo dieci anni, oggi siamo 45 a denunciare i tentativi di estorsione». Ad affiancarla e a sostenerla la Federazione antiracket di Tano Grasso, che ne ha tratto uno dei più clamorosi successi della sua storia ventennale.
Elena Ferraro è un’imprenditrice della sanità siciliana. I suoi laboratori di analisi sono a Castelvetrano (Tp), la culla dell’ultimo potente latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Presentandosi con questo cognome, un uomo le ha chiesto di «mettersi a posto», ottenendone una denuncia e, dopo pochi mesi, grazie alla testimonianza di Ferraro, una condanna. Ogni giorno, l’imprenditrice incontra al bar i parenti del latitante, ma non se ne cura e nessuno osa disturbarla, e il paese (Comune in testa) le fa sentire vicinanza e sostegno. 
Francesca Miscimarra è la più giovane. Da Lamezia era fuggita otto anni fa. La ditta familiare di impiantistica pagava il pizzo da tempo e – subentrata a suo padre – Francesca avrebbe dovuto continuare così, a testa china. Insieme all’Associazione antiracket di Lamezia, invece, lei è andata a sporgere denuncia. Un segnale di liberazione possibile cui la città ha girato le spalle: «Nessuna solidarietà, a parte l’Associazione antiracket e le forze dell’ordine. I clienti sono scappati, nessuno ci chiamava più, gli affari stavano andando a rotoli. Me ne sono andata in Lombardia per ricominciare. Questa è la prima volta che torno nella mia città». Scrosciano gli applausi commossi, forse imbarazzati, di sicuro in ritardo. 
Chi denuncia il racket in Sicilia o in Campania trova – se vuole, da tempo – sostegno e coraggio; chi ha coraggio in Calabria, deve emigrare. Ancora oggi è così? Maria Teresa Morano e Armando Caputo, le colonne dell’antiracket lametino snobbate dai grandi nomi nazionali e ignorate dalle istituzioni locali, si stringono nelle spalle e continuano a lavorare in silenzio, da anni, perché anche il coraggio dei giovani calabresi trovi protezione nell’abbraccio dei concittadini.


Il Sole 24 Ore

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