Lobby in cerca di trasparenza

 

di Lionello Mancini

Cos’è una lobby? Cosa fa un lobbista? Soprattutto: come lo fa? Che possibilità hanno, oggi, i gruppi organizzati di agire correttamente per rappresentare i loro interessi, senza ricorrere ai Bisignani o ai Greganti? 

Sono domande importanti, che l’Italia si pone con ritardo anomalo e non casuale rispetto ai Paesi meglio regolamentati e dunque più liberi da influenze opache; Paesi nei quali la politica sa essere pragmatica ma anche onesta e in grado di rafforzare il senso di comunità nazionale grazie a leggi che il cittadino possa applicare con facilità o anche criticare senza essere uno scienziato del diritto. 

Transparency International Italia (Tii) ha messo per la prima volta un punto fermo su questa complessa problematica scegliendo una modalità poco appariscente. Ha riunito per mesi i maggiori esperti di lobbismo, per capire quanto davvero pesino i rappresentanti dei vari settori, che accesso abbiano alle informazioni necessarie, quali regole siano loro necessarie e quanto robusta sia la loro etica. Il tutto per sbarrare la strada a faccendieri di diverse carature e dalle fedine penali di varia lunghezza. Da questo lavoro, Transparency Italia ha tratto il report «Lobbying e democrazia» che sarà presentato e analizzato domani a Roma (in via della Mercede 55, alle ore 10,30) dai due fronti: professionisti del settore e politici.

Talmente sconosciuto è il mondo delle lobby italiane che ancora oggi l’unico riferimento resta il Registro europeo per la trasparenza che riporta 612 iscrizioni italiane. Sappiamo così che il gruppo più consistente è rappresentato da 138 Ong dalle finalità più varie, seguito dal pattuglione di 128 Associazioni di categoria e 76 tra imprese e gruppi. Suddividendo i settori in cui sono maggiormente attivi i lobbisti italiani a Bruxelles, in testa c’è l’Ambiente con 353 rappresentanti, anche se sommando quelli di Imprese (293) e Ricerca (290), risulta una falange di quasi 600 incaricati. 

Esistesse nel nostro Paese un identico registro, sapremmo molto di più su come vengono costruite o modificate le leggi, mentre i media potrebbero raccontare correttamente il lavoro dei lobbisti. Un lavoro a volte paziente, che somma competenze vere a quelle non sempre rassicuranti dei politici (come nel caso dei “farmaci orfani”, salvati dai tagli ai fondi pubblici); ma anche fatto di incursioni fulminee, lanciate nottetempo, per stravolgere il senso di una norma con un comma aggiunto o cancellato (ad esempio la lobby dei taxisti). 

È così che il 70% degli italiani finisce col ritenere che il governo sia guidato in larga misura, se non del tutto, da poche grandi organizzazioni che agiscono unicamente nel loro interesse (Barometro globale sulla corruzione di Transparency International, 2013). Naturalmente le cose non stanno così, anche se molte istituzioni – partiti in testa – e media a caccia di facili sensazionalismi nutrono quella percezione che spinge l’Italia in basso nelle classifiche mondiali, evitando ogni chiarezza nei rapporti tra politici, enti, burocrati, amministratori e gli interlocutori espressione di pezzi della società civile. 

Persino i Cinque stelle hanno tentato di mettere mano al tema, scoprendo la inafferrabilità del sistema di rilasci dei badge d’accesso alla Camera. Informazione peraltro inutile, visto che non c’è obbligo di registrare i nomi di chi partecipa agli incontri né su quali temi. 

Quella che scarseggia, alla fine, è la volontà di entrambe le parti di rendere trasparente il rapporto e così il Paese opaco brulica di discreti ristoranti e di salotti riservati oltre che politicamente trasversali. C’è da tremare, pensando al 2017, quando i partiti saranno a secco di fondi pubblici, mentre tardano le barriere che mettano fuori gioco i “facilitatori” dalla mazzetta facile.

Delle sette raccomandazioni firmate Transparency Italia per disciplinare il lobbismo, cinque si riferiscono ai passi normativi necessari, una invita gli operatori a darsi una efficace autoregolamentazione e l’ultima è un augurio di rinascita del giornalismo investigativo, oggi in stato d’abbandono. 

E il questionario fatto riempire da una ristretta e qualificatissima cerchia di esperti e professionisti attivi nel cuore del sistema legislativo e burocratico italiano, emergono i tre punti da migliorare – e di molto – per dare un futuro al settore: la trasparenza nell’azione, l’integrità di chi opera, la parità nell’accesso ai processi decisionali pubblici. Tra pochi mesi, questo lavoro di analisi verrà messo a confronto con studi analoghi svolti da Transparency in altre regioni europee, per aggiornare lo stato dell’arte. 

«Il principale problema legato al lobbying è la mancanza di trasparenza – conferma Virginio Carnevali, da febbraio presidente di Transparency Italia – poiché resta difficile sapere chi influenza chi e su quali temi. Servono regole più chiare, come l’istituzione di un registro pubblico e obbligatorio, un maggior controllo degli accessi al Parlamento, la possibilità di tracciare gli incontri tra politici e lobbisti». 

Sole 24 Ore  3.11.2014