Borsellino, 25 anni fa la strage di via D’Amelio. Così abbiamo sconfitto la mafia delle stragi

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Il 19 luglio ‘92 la mafia uccideva a Palermo, in via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli ed Emanuela Loi. Poche settimane dopo la strage di Capaci, Cosa nostra rinnova la sfida alle istituzioni che proseguirà nel ‘93 con le bombe a Roma, Firenze e Milano. Venticinque anni dopo quell’attentato, l’attuale Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, traccia un bilancio della lotta alla mafia — dalla reazione dello Stato, all’arresto dei boss, fino alle inchieste più recenti — in questo testo rielaborato per il Corriere e tratto dalla prefazione alla nuova edizione di «Codice Provenzano», di Michele Prestipino e Salvo Palazzolo (Laterza). 

di Giuseppe Pignatone

La reazione dello Stato agli attentati contro Falcone e Borsellino ha portato alla cattura di Provenzano. Ma adesso la ’Ndrangheta ha riempito il vuoto lasciato dai Corleonesi

 

L’ 11 aprile 2006, dopo quasi 43 anni di latitanza, Bernardo Provenzano veniva catturato dalla Polizia di Stato nelle campagne di Corleone, a pochi chilometri da casa. Quel giorno, nei 150 anni di storia di Cosa Nostra, era stata scritta una pagina molto importante, che forse segnava la fine di un’epoca. È giusto riconoscere che la mafia corleonese, quella che ha avuto capi come Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, quella che ha dominato la scena dagli anni Settanta del secolo scorso, è stata sconfitta. Un risultato da non sottovalutare, anche perché la lunga «stagione corleonese» non trova paragoni con le tante altre fasi della storia di Cosa Nostra, tanto che lo storico Salvatore Lupo ha affermato che «l’era dei Corleonesi» deve essere considerata «come una parentesi nella storia della mafia».

Infatti, non è stata solo la stagione di una sanguinosa «guerra di mafia» con centinaia di morti tra i membri dell’organizzazione e tra comuni cittadini ad essa del tutto estranei (terribili carneficine sono state perpetrate anche in passato). È stata, soprattutto, la stagione della sfida aperta alle istituzioni democratiche, della pretesa non solo di «convivere» con lo Stato — pretesa storica di tutte le organizzazioni mafiose — ma di assumere addirittura un ruolo prevalente, di primazia, di rovesciare, cioè, i rapporti di forza nelle relazioni tra mafia e politica. In questo contesto così modificato, Cosa Nostra ha preteso di avere un ruolo nella fase di aggiudicazione degli appalti pubblici e non più solo in quella di esecuzione delle opere, ha tutelato con ogni mezzo i suoi uomini posti al centro della vita amministrativa e politica della città di Palermo (come Vito Ciancimino) e del potere economico e finanziario siciliano (come i cugini Nino e Ignazio Salvo) ed è intervenuta senza esitazione con la violenza più feroce contro la «politica delle carte in regola» di Piersanti Mattarella e contro la proposta di legge per l’introduzione del reato di associazione mafiosa e per il sequestro dei beni presentata da Pio La Torre.

La sfida mafiosa

La gravità della sfida mafiosa è testimoniata innanzitutto dalla lunga serie di omicidi di uomini delle istituzioni che va dal 1977 fino alle stragi del 1992 a Capaci e via D’Amelio e a quelle del 1993 a Roma, Firenze e Milano.

Certo, Cosa Nostra aveva sempre avuto un ruolo di grande rilievo a Palermo e nella Sicilia occidentale; era stata capace di trasformarsi da mafia rurale a mafia cittadina della speculazione edilizia e delle attività imprenditoriali; aveva sempre goduto di connivenze e collusioni in ogni strato della società. Non si può tuttavia negare l’eccezionale salto di potenza economica — e, perciò, di pericolosità — determinato dal ruolo acquisito in quel periodo da Cosa Nostra nel traffico mondiale degli stupefacenti, come partner privilegiato tanto dei fornitori della morfina base (il Vicino ed Estremo Oriente, fino alla Thailandia), quanto degli acquirenti, grazie ai suoi legami con le famiglie della Cosa Nostra americana.

Vi è un altro elemento che cambia le regole del gioco che per decenni avevano visto Cosa Nostra ricorrere solo in casi del tutto eccezionali all’omicidio di uomini delle istituzioni. Mi riferisco al terrorismo politico che ha insanguinato l’Italia per tutti gli anni Settanta, con stragi (rimaste in larga misura impunite) e con attentati, spesso mortali, a decine di servitori dello Stato ed esponenti delle istituzioni.

Lo Stato, impegnato nella lotta per la salvezza della Repubblica contro il terrorismo eversivo di matrice politica, sposta al Centro-Nord le sue risorse migliori, riducendo di conseguenza al minimo la presenza e l’attività repressiva al Sud. Specie in Sicilia e Calabria dove, si diceva anche pubblicamente, la mafia avrebbe impedito al terrorismo di attecchire. Di ciò le mafie si sono ovviamente avvantaggiate, anche a non tener conto delle richieste — ne esistono tracce processuali — rivolte alle organizzazioni mafiose negli anni del contrasto al terrorismo politico. E non è senza significato che il 1978 segni il punto più alto della sfida terroristica con l’omicidio Moro e anche l’avvio sistematico della strategia mafiosa che punta a eliminare fisicamente gli uomini delle istituzioni.

Né si può liquidare questa strategia di Cosa Nostra con il ricorso al termine «follia» se si pensa che la leadership corleonese ha retto per almeno trent’anni durante i quali, e fino all’ultimo, ha potuto godere di complicità e collusioni a ogni livello, ancora oggi solo in parte svelate, anche se vanno ricordate le decine di soggetti della cosiddetta «zona grigia» o «borghesia mafiosa» — alcuni anche in posizioni di grandissimo rilievo — processati e condannati in Sicilia in questi anni per i loro legami con Cosa Nostra. È vero invece che in Sicilia, sia pure con insufficienze e ritardi, lo Stato ha saputo reagire a questa sfida mortale.

Il primo momento è costituito dalla Legge Rognoni-La Torre che nel 1982, assieme alla previsione del sequestro e confisca dei beni, introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Altra tappa decisiva è costituita dal maxiprocesso, con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta (1984) che ruppero il mito dell’omertà fornendo — come osservò Giovanni Falcone — il codice per «leggere» Cosa Nostra. Il maxiprocesso, inoltre, seppe dimostrare che lo Stato era in grado di processare e condannare i mafiosi, infrangendo il muro delle ripetute assoluzioni per insufficienza di prove. Terzo momento, le stragi del 1992 e la reazione che ne seguì. Mi riferisco ai processi e alle condanne, alla cattura dei grandi latitanti, alla confisca dei patrimoni illeciti e alla loro destinazione (anche) a fini sociali, al moltiplicarsi dei collaboratori di giustizia, alla consapevolezza che si è venuta diffondendo in settori sempre più ampi della società di che cosa realmente fosse la mafia e della necessità di contrastarla anche fuori dalle aule di giustizia.

La cattura di Provenzano non è stata il frutto improvviso e casuale di un’operazione fortunata, ma il risultato maturo di anni di indagine e di processi. Quell’arresto segna la fine della Cosa Nostra corleonese e della sua strategia di aggressione frontale allo Stato.

Può darsi che le indagini ci diranno un giorno che Cosa Nostra si è riorganizzata, ha recuperato le posizioni perdute e, magari, ha imparato a sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia: sarà comunque una Cosa Nostra diversa da quella che abbiamo conosciuto negli ultimi quarant’anni.

Il vuoto riempito dalla ’Ndrangheta

La crisi di Cosa Nostra ha lasciato un vuoto che è stato riempito dalla ’Ndrangheta, diventata oggi la mafia più forte, ricca, potente e pericolosa. Un ruolo preminente che la ’Ndrangheta ha conquistato proprio grazie a quelle caratteristiche che Cosa Nostra non ha più saputo garantire, a cominciare dall’assoluta affidabilità economica e della sicurezza, per l’assenza di «traditori», ovvero di collaboratori di giustizia con un certo spessore. Anche in questo caso, le enormi ricchezze derivanti dal traffico di stupefacenti hanno consentito alla ’Ndrangheta di raggiungere nuovi livelli di potere criminale, forse persino insperati, approfittando al massimo della scarsa attenzione dedicata dallo Stato a una mafia da sempre considerata, con un imperdonabile errore di valutazione, espressione di una società povera e arretrata, chiusa nell’isolamento di una regione storicamente esclusa dai grandi circuiti economici e culturali. Questo ingannevole convincimento è stato rafforzato dalla scelta — questa sì, lucida — dei capi della ’Ndrangheta di non unirsi alla strategia stragista dei corleonesi coi quali, pure, esistevano rapporti significativi.

La ’Ndrangheta ha molte caratteristiche comuni anche alla mafia siciliana. La prima è la struttura organizzativa fondata sia sulla «famiglia» di cui si entra a far parte mediante cerimonie solenni, che comprendono un giuramento e l’uso di formule rituali.

Vi è poi l’attenzione alla costruzione del «consenso sociale», prezioso fattore diaccumulazione del potere mafioso. Di fondamentale importanza è poi il sistema di relazioni che collega le mafie a soggetti ad esse esterni. Sono proprio queste relazioni, componente fondamentale del «capitale sociale» delle organizzazioni mafiose, il loro vero punto di forza poiché rappresentano il ponte per stabilire contatti e stringere patti con le componenti più elevate della società, quelle dotate di potere economico, politico o di altro genere.

La relazione tra mafiosi e non mafiosi di regola non trae origine dalla paura indotta dall’uso del «metodo mafioso», ma è il frutto di un patto di convenienza che le parti contraggono per la realizzazione di reciproche utilità, altrimenti non conseguibili. Così, anche le relazioni mafia-politica mettono in collegamento due mondi separati, ognuno governato da regole proprie, spesso tra loro incompatibili, e trovano attuazione attraverso accordi i cui termini dipendono dai rapporti di forza di un dato periodo e perciò possono vedere, alternativamente, la prevalenza dell’uno o dell’altro contraente. Per il momento, non sembra che per questo sistema di relazioni si sia aperta una nuova fase, anche se risultano rapporti sempre più frequenti tra organizzazione mafiosa e amministratori locali, sia perché da questi ultimi dipende ormai l’uso di buona parte delle risorse pubbliche, sia perché sono «agganci» meno rischiosi di quelli con politici di livello nazionale, oggetto di crescente attenzione da parte della pubblica opinione.

Le indagini

In quest’ultimo decennio, lo Stato ha compiuto passi importanti anche nel contrasto alla ’Ndrangheta. Fondamentali, per l’affinamento dell’analisi sulla ’Ndrangheta, sono le risultanze dell’indagine «Crimine-Infinito» condotta in stretta collaborazione dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e di Milano.

Soltanto dopo il luglio 2010, infatti, i giudici hanno delineato, in termini di novità, la struttura della ’Ndrangheta, qualificandola per la prima volta come organizzazione (di tipo mafioso) tendenzialmente unitaria e dotata di un organismo di vertice denominato Crimine o Provincia, sicché essa non va più vista in maniera parcellizzata come un insieme di cosche locali, di fatto scoordinate. Questa unitarietà fa pienamente salva la persistente autonomia criminale delle strutture territoriali (ivi comprese quelle operanti nel Nord Italia, la cosiddetta «Lombardia» in primis).

L’altra caratteristica di grande interesse emersa dalle indagini degli ultimi anni è l’esistenza della Provincia, organo di vertice che ha natura collegiale e delibera a maggioranza. È di tutta evidenza, come conferma l’esperienza di Cosa Nostra, che l’unitarietà e la presenza di un organismo di vertice aumentino la forza e la pericolosità dell’associazione mafiosa. E in una spirale di crescita criminale, alla maggior forza economica e militare della ’Ndrangheta corrisponde anche la sua maggiore capacità di sviluppare il sistema delle relazioni esterne cui si aggiunge un ulteriore elemento di forza, sconosciuto alle altre mafie tradizionali: l’espansione al di fuori delle regioni di origine.

Si tratta del modello di espansione delle strutture della ’Ndrangheta, quello della «colonizzazione», che, sotto questo specifico profilo, la differenzia da ogni altra organizzazione mafiosa. Infatti, la ’Ndrangheta, quando si espande fuori dalla Calabria, non si limita a costituirvi punti di riferimento soggettivi e magari temporanei per realizzare specifici interessi criminali, ma esporta la propria struttura organizzativa e, con essa, anche quel sistema relazionale attraverso cui è in grado, anche fuori dal territorio calabrese, di raggiungere pezzi di imprenditoria, libere professioni, politica, pubblica amministrazione.

Lo dimostrano i dati di una recente ricerca: negli ultimi dieci anni, la Direzione distrettuale di Milano ha indagato 760 persone per associazione mafiosa, tra i quali 129 imprenditori. Le condotte associative accertate hanno riguardato attività criminali (51%), ma anche il controllo illegale di attività economiche lecite per un significativo 49%.

Molto più articolata è invece la situazione di Roma e del Lazio…

La società civile

Per arrivare alla sconfitta delle mafie, è essenziale che i cittadini — tutti, di ogni parte del Paese —, resi consapevoli di questa «pericolosità», non cedano a calcoli di convenienza e non si rifugino nella comoda convinzione che «qui (cioè fuori dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia) la mafia non esiste e non può esistere».

Peraltro, nella interpretazione della Cassazione, tra gli elementi necessari per integrare il reato di associazione di tipo mafioso non figurano né la necessità di un gran numero di affiliati, né una quotidiana manifestazione di atti di violenza, né il controllo quasi militare del territorio. Questi elementi sono sì sintomatici dell’uso del metodo mafioso, ma non ne esauriscono certo il contenuto. Ciò che veramente rileva, è piuttosto la capacità di ricorrere alla violenza per creare assoggettamento, intimidazione e omertà, in vista di fini sia leciti che illeciti, unita alla consapevolezza che di tale capacità risulta acquisita in un preciso contesto: un ambiente che non deve necessariamente essere geografico, ma può anche essere sociale.

Tanto al Centro-Nord, dove le mafie sono ovviamente più deboli, quanto al Sud, dove la repressione è più pronta ed efficace, ormai da anni le organizzazioni mafiose cercano di evitare atti violenti eclatanti, consapevoli che questi allarmano l’opinione pubblica e attirano l’attenzione di polizia e magistratura. Meglio ricorrere alla corruzione, che non è di per sé rivelatrice della presenza mafiosa e che, però, favorisce quella mescolanza tra mondo mafioso e mondo «altro» che, come ben sapeva Provenzano, è alla base della forza delle mafie.

Anzi, un elemento di novità emerso dalle indagini è il fatto che l’attività corruttiva diventa essa stessa strumento e manifestazione dell’intimidazione mafiosa. C’è dunque un nuovo atteggiarsi del rapporto mafia-corruzione certamente meritevole di ulteriori approfondimenti, dato che potrebbe essere questo uno dei temi-chiave dei prossimi anni.

La cultura che cambia

Resta un ultimo elemento molto importante da sottolineare. Come rileva anche lo studioso Isaia Sales, è cambiata la percezione della mafia nella pubblica opinione, soprattutto nella società civile meridionale. Fino a non molto tempo fa «mafia» non coincideva affatto con «criminalità»: si poteva essere mafioso senza sentirsi né essere considerati delinquenti. Oggi un mafioso è considerato un assassino e un delinquente. È un cambiamento di fondamentale importanza che man mano eroderà il consenso delle mafie e aiuterà a contrastarle. Sul piano della repressione, ma anche in tutti gli altri ambiti della nostra vita, a cominciare da quello culturale ed educativo. Certo, molto resta ancora da fare. E però dobbiamo anche guardare indietro e vedere quanto, a un prezzo spesso troppo alto, sia stato fatto.