INCHIESTA STRAGE VIA D’AMELIO: vi fu depistaggio

 

 

 

 


 La trattativa STATO-MAFIA accellerò la morte di Borsellino – depositate le motivazioni della Sentenza della Corte di Assise di Palermo

13 domande di Fiammetta Borsellino alle Istituzioni


RASSEGNA STAMPA 

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19.7.2018

18.7.2018

 

NEWS 18-24.7.2018

 


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STRAGE DI VIA D’AMELIO: il 18 luglio audizione all’ARS di Fiammetta Borsellino . La figlia del giudice, ucciso 26 anni fa, è stata ascoltata in Commissione antimafia. A convocarla il presidente Claudio Fava che, alla luce delle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, ha avviato un’istruttoria sul depistaggio delle indagini. Alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio al via le audizioni in Commissione antimafia all’Ars per ricostruire la verità sul depistaggio.  Prossimamente potrebbero essere sentiti anche  i magistrati che negli anni si sono occupati del processo sulla strage. Allora in servizio all’ufficio inquirente c’erano Anna Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia. Il capo dei pm Giovanni Tinebra è morto…..Leggi tutto

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IL SICILIA – 10.7.2018 Intervista a Fiammetta Borsellino  

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IL SICILIA 10.7.2018

 

FIAMMETTA BORSELLINO: intervenga Mattarella “resto in attesa di risposte dal Consiglio Superiore della Magistratura.  SEGUE

CSM: convocato il Comitato di presidenza –Il Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura “si occuperà della vicenda Borsellino alla luce del deposito della sentenza”, dopo aver aperto da mesi una pratica sulla base di una nota inviata dalla figlia Fiammetta. Lo ha comunicato  il Csm con una nota del 2 Luglio.   SEGUE

CSM: apre l’istruttoria – Il comitato di presidenza del Csm dispone l’apertura di una pratica presso la Prima Commissione, competente sulle situazioni di incompatibilità, dopo il deposito della sentenza della corte d’Assise di Caltanissetta nel processo Borsellino Quater.  SEGUE

 

 La telefonata di Mattarella a Fiammetta BorsellinoFiammetta Borsellino: “A seguito del mio appello, ho ricevuto una telefonata dal Capo dello Stato Sergio Mattarella. Da lui ho avuto parole di conforto ma anche di rassicurazione, rivolte non soltanto a noi familiari, ma a tutti gli Italiani circa la volontà di fare piena luce su tutto. Temo tuttavia che dopo tutti questi anni la possibilità di arrivare a una verità concreta sia compromessa per sempre, ma questo non vuol dire abbandonare il dovere morale di chiederla”.

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Fiammetta e Lucia Borsellino “Controllo anche sui magistrati” ANSA – Le figlie del giudice: “Finora il Csm è stato purtroppo silente, chiarezza su queste distrazioni”. “Questo è solo un punto di partenza”. Fiammetta Borsellino, in foto, figlia del magistrato ucciso in via d’Amelio, aspettava le motivazioni della sentenza del processo quater come il momento decisivo per la ripresa di altri procedimenti. In primo luogo quello del Csm che ha aperto un fascicolo per valutare le posizioni dei magistrati della Procura di Caltanissetta che non fermarono i depistaggi. In varie occasioni Fiammetta Borsellino ha citato il procuratore del tempo Giovanni Tinebra, l’aggiunto Anna Maria Palma e i sostituti Carmelo Petralia e Nino Di Matteo. La sentenza dei giudici di Caltanissetta fa solo il nome di Tinebra, che tra l’altro è morto. “Ma è chiaro – dice Fiammetta Borsellino – che questi magistrati avevano compiti di controllo e di coordinamento delle indagini della polizia giudiziaria. E, come risulta dal processo, ci furono disattenzioni che non possono passare inosservate. Si tratta di distrazioni incomprensibili, visto che altri due magistrati, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano subito segnalato l’inattendibilità del falso pentito Vincenzo Scarantino”. Per Lucia Borsellino su queste “distrazioni” va fatta subito chiarezza. Da alcuni mesi il Csm ha aperto un fascicolo che però, chiarisce, “è solo un fascicolo vuoto perché si aspettavano le motivazioni della corte d’assise di Caltanissetta”. “Ora – aggiunge – le motivazioni ci sono. Mi aspetto quindi che il procedimento disciplinare vada avanti. Finora il Csm è stato purtroppo silente”. 

Uno dei più grandi depistaggi che questo paese abbia mai conosciuto”La denuncia di Fiammetta Borsellino del Novembre ha trovato ora ampia conferma nella sentenza della Corte d’Assise depositata nei giorni scorsi“- Al TG ETV Fiammetta Borsellino – Novembre 2017

 

 

 

In 1865 pagine le motivazioni del Borsellino quater : “Investigatori dietro il depistaggio più grave della storia giudiziaria italiana”  Le dichiarazioni di “falsi pentiti” avevano portato in carcere sette innocenti. Per i giudici gli investigatori coinvolti nella sparizione dellʼagenda rossa-

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La Procura di Caltanissetta ha chiesto di processare tre poliziotti per il depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Il processo è stato chiesto per il funzionario Mario Bo, già indagato per gli stessi fatti e che ha ottenuto l’archiviazione e per i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono tutti e tre accusati di calunnia in concorso.

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 Lettura sentenza

 

ARCHIVIO

AL BORSELLINO QUATER DI MATTEO RACCONTA SCARANTINO

Il pm palermitano sentito come teste a Caltanissetta

di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari


Dal primo interrogatorio tenuto con il “falso pentito” Vincenzo Scarantino al confronto con i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera; poi ancora il processo “Borsellino bis” ed il “Borsellino ter” passando per le inchieste sui “mandanti esterni” e la condanna a morte vissuta sulla propria pelle. Per cinque ore di udienza il sostituto procuratore di Palermo, Antonino Di Matteo, sveste i panni del pm e, di fronte alla Corte d’assise di Caltanissetta al processo “Borsellino quater”, viene sentito come teste per ricostruire in particolare le indagini condotte soprattutto sulla strage via d’Amelio. Con grande precisione Di Matteo ricostruisce pezzi di indagine che lo hanno visto tra i protagonisti solo a partire dall’ottobre-novembre del 1994, quando venne incaricato dal Procuratore capo Tinebra di entrare nel pool che si occupava delle stragi. “Il mio primo atto istruttorio – ricorda Di Matteo in aula – fu una serie di interrogatori di Scarantino alla Questura di Genova. Vi erano già state attività istruttorie e all’arresto di Scarantino si arrivò tramite le dichiarazioni di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, ma io non ho mai partecipato a quelle indagini condotte dalla dottoressa Boccassini, da Cardella e da Petralia. Con loro spesso vedevo anche Arnaldo La Barbera, soprattutto con la Boccassini che era ritenuta il motore delle indagini”. Passo dopo passo il magistrato ricostruisce quegli anni partendo da dati di fatto come i risultati ottenuti nel secondo e nel terzo procedimento sulla strage del 19 luglio 1992, che portarono a 26 condanne definitive mai messe in discussione.

Il valore dato alle parole di Scarantino

Di Matteo, parlando anche del possibile depistaggio sulle indagini, evidenzia alcuni aspetti chiave. “Se vi è stato – ricorda – bisogna chiedersi come mai tra le cose che Scarantino dice vi siano anche elementi di coincidenza, seppur parziali, con quanto riferito poi da Spatuzza. Scarantino aveva indicato come partecipi componenti di due mandamenti: Guadagna e Brancaccio. Il soggetto che per primo parlò del coinvolgimento di Tagliavia ed anche di Giuseppe Graviano, per Brancaccio, è proprio Scarantino. Quindi non è vero che Brancaccio fu tenuta fuori dalle indagini, tanto che arrivammo anche alla condanna di questi soggetti. Scarantino è stato anche il primo a parlare delle intercettazioni sul telefono della madre di Borsellino e a riferire sui fratelli Scotto. I nipoti di Borsellino indicavano la presenza di Pietro Scotto in via D’Amelio a completare dei lavori per la Sielte. Quando Scarantino parlava di Scotto, ricollegando quanto dichiarato dai parenti di Borsellino, ecco che le perplessità venivano superate. Vi erano elementi di convergenza delle prove”. Tra gli aspetti ricordati vi è poi anche il dato che all’arresto di Scarantino si arriva in base alle attività di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Pietrina Valenti, sulle dichiarazioni di Candura ed Andriotta. “Candura l’ho interrogato solo al processo – ricorda il magistrato – Andriotta fu indicato dalla Procura di Milano, segnalato dai pm Zanetti e Boccassini, come soggetto che avrebbe potuto dire delle cose sulla strage di via d’Amelio. Non avevamo elementi per ritenere che la convergenza fosse frutto di una situazione patologica”.Il pm palermitano chiarisce anche come furono affrontate le continue ritrattazioni dello stesso ex picciotto della Guadagna: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell’organizzazione materiale e della preparazione dell’attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre ’94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel ‘Borsellino Bis’ avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato, tanto che chiedemmo l’assoluzione di Calascibetta, Murana e Gambino. In secondo grado sulla base di nuove prove alcune di quelle assoluzioni furono trasformate in condanne. A un certo punto lui stesso inquinò un quadro probatorio che ritenevamo genuino, inserendo un dato falso della partecipazione dei tre collaboratori di giustizia alla riunione di Calascibetta (Cancemi, Di Matteo e La Barbera). Quest’opera di inquinamento vi fu sin dall’inizio, sin dalla prima ritrattazione televisiva ad Italia uno, di cui appresi solo qualche giorno dopo dalla stampa, vi fossero pressioni (sia esponenti della famiglia, che da parte di certi avvocati, ndr) per farlo ritrattare”. Diversamente da quanto dichiarato dal “picciotto” della Guadagna, Di Matteo ricorda di aver anche ricevuto delle telefonate dallo Scarantino: “Qualcuno, certo non io, diede al collaboratore di giustizia la mia utenza telefonica. Ricordo che era maggio giugno, io avevo finito un’udienza del processo Saetta e spensi il telefonino. Quando lo riaccesi c’erano otto messaggi vocali di Scarantino che si lamentava che diceva di voler tornare in carcere ‘nell’inferno di Pianosa’ piuttosto che vedere tradite ‘le promesse di assistenza’ alla sua famiglia. Mancate promesse che imputava al dottor Gabrielli, dirigente del servizio centrale di sicurezza, e poi Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi. Scarantino si lamentava sempre di queste persone, ma a me non ha mai detto di essersi inventato le cose o che gliele avevano fatte dire. Se lo avesse fatto avrei fatto delle relazioni di servizio. Di queste cose, in riferimento alla sua assistenza si lamentava spesso ma erano cose non rilevanti processualmente. Solo poi ho saputo che a dare il mio numero era stato il Procuratore capo Tinebra”.

La lettera con le perplessità della Boccassini e Sajeva

Rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola, Di Matteo parla anche della lettera firmata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e Roberto Sajeva inviata nell’ottobre del ’94 al procuratore aggiunto Giordano e inserita poi al protocollo riservato. Il ricordo sul punto è chiaro: “Non l’ho mai vista. Ho appreso dell’esistenza di questa lettera soltanto molti anni dopo. Con la dottoressa Boccassini non ho mai parlato, lei non mi ha mai parlato di Scarantino e sono certo di non aver mai parlato con la Boccassini di vicende relative all’indagine, né tanto meno io ne ho parlato con La Barbera. Con la Boccassini non ho mai partecipato a una riunione in Dda e la Boccassini non mi ha mai esposto le sua valutazioni. Dell’esistenza di una relazione di questo tipo ho appreso anni dopo dalla stampa”. Il pm palermitano ricorda di riflessioni sull’attendibilità di Scarantino ma nella stessa misura che avveniva anche per altri collaboratori. “In quel periodo – dice Di Matteo – Io ed altri colleghi eravamo convinti, basandoci su elementi di fatto, che fino all’agosto ’96 fosse poco credibile quello che affermava Salvatore Cancemi. Ricordo che le perplessità legate a Cancemi erano condivise da tutti. Non era plausibile che Cancemi con un ruolo così importante su Capaci non sapesse nulla su via D’Amelio. Analoghe perplessità vi erano anche in riferimento a Mario Santo Di Matteo, a suo dire ignaro di ogni fase su strage via D’Amelio. Di Matteo era stato sottoposto, dopo i il sequestro del figlio, ad intercettazione ambientale con la moglie Franca Castellese. Un dialogo in cui implorava al marito di non parlare della strage di via d’Amelio con riferimento ad ‘infiltrazioni della polizia’. Facemmo anche un interrogatorio alla moglie di Di Matteo facendole ascoltare la registrazione. Le perplessità sulla Castellese aumentarono ma non si procedette perché mancavano ulteriori riscontri. E queste perplessità vi furono anche per Gioacchino La Barbera”.

La querelle sul confronto

Si torna a parlare della vecchia polemica scaturita dalla richiesta degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola di poter leggere i verbali del confronto svoltosi il 13 gennaio 1995 tra Vincenzo Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.
“Io propongo e concordo la necessità di un confronto – racconta Di Matteo affrontando l’argomento –, e i confronti si tengono presso la sede del Ros di Roma. A quei confronti partecipo anch’io ma partecipavano anche altri magistrati della Dda di Caltanissetta, non solo i colleghi Petralia, Palma e Giordano. Ricordo che i tre soggetti (Cancemi, Brusca e Di Matteo, ndr) smentirono Scarantino”. Di Matteo spiega quindi che il confronto mirava a chiarire la partecipazione, o la mancata partecipazione, ad una riunione operativa a casa di Giuseppe Calascibetta alla Guadagna una decina di giorni prima della strage di via D’Amelio. “Eravamo in un momento in cui c’erano dei procedimenti in fase di indagine – sottolinea il sostituto procuratore di Palermo –, in quel momento noi ritenevamo che i tre non ci fossero alla riunione, ma noi avevamo delle indagini e sospettavamo che quei tre soggetti (che avevano negato la loro partecipazione in quel luogo), in quel momento erano reticenti su via D’Amelio”. Di Matteo ribadisce che quella riunione coinvolse “tutta la Dda” in relazione “agli atti da predisporre e da depositare in vista del rinvio a giudizio dei 15 o 16 nel processo Borsellino Bis”. “In quel momento tutti i componenti della Dda di Caltanissetta (in relazione alla pendenza di queste indagini, che poi sfociarono un anno dopo nella richiesta di rinvio a giudizio per il Borsellino ter), si espressero per una scelta processuale che venne presa sulla base dell’articolo 130, primo comma, sulle disposizioni di attuazione”. “Siccome Di Matteo, La Barbera e Cancemi erano indagati nell’altro procedimento in quel momento non si depositarono gli atti relativi a questo confronto”, prosegue il magistrato. “Gli atti vennero depositati con il Borsellino ter, ma nel corso del Borsellino Bis, e prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale, lo stesso pm all’udienza in cui venne sentito Cancemi, produsse il verbale di confronto. Fu ammesso anche un confronto con Brusca da parte dello Scarantino e si tenne a Como prima che si esaurisse la fase istruttoria dibattimentale quei confronti furono messi a disposizione dei difensori anche del Borsellino Bis”. “Nel momento in cui ci furono i confronti per la pendenza di indagini – sottolinea infine Di Matteo –, in quel momento si ritenne che per consentire la prosecuzione delle indagini quegli atti dovessero essere coperti ancora per un certo periodo dal segreto investigativo”. Di fatto il 14 ottobre ’97 al Borsellino Bis il pm chiese l’acquisizione del verbale di confronto tra Cancemi e Scarantino alla stessa udienza in cui era chiamato Cancemi.

La sicurezza di Scarantino

Parlando della tutela data all’epoca al collaboratore di giustizia, principale accusatore sulla strage di via d’Amelio, Di Matteo, rivolgendosi alla Corte, riferisce di non aver mai saputo le modalità, ma di ricordare che al tempo anche chi faceva le indagini, come i funzionari del Gruppo Falcone e Borsellino, si alternavano per svolgere attività di tutela nella località protetta dello Scarantino. “Non so questo per conoscenza diretta, ma per quello che sentivo dai colleghi. Era una cosa che al tempo accadeva. Un episodio simile era avvenuto per Cancemi al Ros. In quel caso, nel corso di indagini successive, mi sono imbattuto in documenti d’autorizzazione scritti dalle Procure di Caltanissetta e Palermo. Non mi risultano documenti simili su Scarantino”. Di Matteo, oltre a chiarire di “non aver mai autorizzato dei colloqui investigativi tra funzionari del Gruppo Falcone Borsellino e lo Scarantino dopo che questi aveva iniziato la collaborazione (se ciò è avvenuto prima ha detto di non esserne a conoscenza, ndr)” parla anche del suo rapporto con alcuni funzionari del gruppo investigativo guidato da Arnaldo La Barbera. “Con l’ex questore non ho mai avuto rapporti. Quelle volte che lo vedevo la sera con la dottoressa Boccassini il La Barbera nemmeno salutava. Casomai aveva buoni rapporti con Tinebra, la Palma e Petralia. Personalmente avevo un rapporto di buona collaborazione con il dottor Bo. Questi mi diceva che non viveva bene il fatto di essere stato incaricato della protezione di Scarantino. Ricordo che non era contento di essere stato incaricato di una cosa che non lo riguardava”. In merito alle parole riferite dallo stesso Scarantino nella ritrattazione di Como, dove indicava i suggerimenti che venivano fatti dai funzionari in alcuni verbali in suo possesso, Di Matteo spiega inoltre di non aver svolto indagini per un semplice motivo: “Scarantino, quando ritrattò a Como, accusò i magistrati, tra cui anche me, di averlo costretto a ritrattare ritrattazioni. Diedi per scontato che su quel tipo di accuse abbia proceduto la procura di Catania. Come mai Scarantino aveva quei verbali? Non so chi abbia fatto quelle indicazioni, non ho riconosciuto la scrittura. Nella grande maggioranza dei casi il difensore aveva diritto della copia dell’interrogatorio per farlo avere al suo assistito. A me risulta che l’avvocato Falzone, che in quel periodo assisteva moltissimi pentiti, era solita chiedere copia dei verbali dei suoi assistiti. Credo che possa essere avvenuto anche per Scarantino”.  ANTIMAFIA DUEMILA 16.11.2015

 

La TRATTATIVA-STATO MAFIA ACCELLERO’ LA MORTE DI BORSELLINO 

19 Luglio 2018 – In coincidenza con il 26° Anniversario della Strage di Via D’Amelio, sono state depositate le oltre 5 mila pagine che compogono la Senteza dello scorso 20 Aprile relativa al processo Trattativa Stato-Mafia

La SENTENZA testo integrale

Le motivazioni della sentenza emessa il 20 aprile scorso dalla corte d’assise di Palermo. I giudici condannarono Mori, De Donno, Subranni e Dell’Utri, assoluzione per Mancino

“L’improvvisa accelerazione che ebbe l’attentato a Paolo Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento Cosa Nostra culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio”. Per i giudici del processo Trattativa Stato-mafia, “non vi è dubbio” che i contatti fra gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno con Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”.    I giudici scrivono ancora: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.

 Mario Mori dal Sid a Provenzano, 40 anni di misteri – Il Fatto Quotidiano 

La consapevolezza di Mannino e le prove di Riccio – Antimafia Duemila

Le motivazioni della sentenza


Palermo, 20.4.2018 –  La Corte di Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha comminato oggi diverse condanne pesanti nel processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia, che giunge dopo quasi cinque anni di processo, circa 220 udienze e oltre 200 testimoni. 

AUDIO del PROCESSO

 Agnese Borsellino: “Mio marito mi disse della trattativa Stato-Mafia…”

Scellerata trattativa…
Borsellino la ostacolava 

Rassegna stampa

Il primo a parlare di “trattativa” attraverso un “papello di richieste” è stato il pentito Giovanni Brusca, nel 1996, all’inizio della sua collaborazione con la giustizia: disse di averne sentito parlare a Totò Riina, fra le stragi Falcone e Borsellino. Da queste dichiarazioni sono ripartiti i pm di Palermo e Caltanissetta nel 2009, dopo aver raccolto le parole di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa

Le indagini di Palermo
La Procura ha chiamato Massimo Ciancimino a deporre nel processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu di favoreggiamento aggravato nei confronti di Bernardo Provenzano. Nell’estate 1992, Mori incontrò più volte il padre di Massimo Ciancimino, Vito: “Per tentare di indurlo alla collaborazione e fermare le stragi mafiose”, ha sempre sostenuto Mori; “per intavolare una trattativa con Cosa nostra”, è la tesi della Procura di Palermo. Massimo Ciancimino ha accusato in particolare Mori di avere incontrato il padre già prima della strage di via d’Amelio, circostanza sempre negata da Mori. Ciancimino junior, che si attribuisce un ruolo di intermediario fra il padre e gli ufficiali dell’Arma, sostiene pure che fu consegnato a Mori un “papello” con le richieste di Riina (anche questa circostanza smentita da Mori). Nella ricostruzione di Ciancimino, la trattativa Stato-mafia condotta nell’estate 1992 tramite il padre sarebbe proseguita dopo il gennaio 1993 (ovvero dopo l’arresto di Totò Riina) attraverso il “nuovo canale” Bernardo Provenzano-Marcello Dell’Utri.

La deposizione di Massimo Ciancimino al processo Mori
Udienze:
1/2/2010
2/2/2010
8/2/2010
2/3/2010

Oggetto del processo Mori è il mancato blitz del 31 ottobre 1995, che secondo il colonnello Michele Riccio avrebbe potuto portare all’arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (centro della provincia di Palermo) grazie alle rivelazioni del boss confidente Luigi Ilardo. La vicenda è ricostruita nel provvedimento con cui il gip Maria Pino ha archiviato la denuncia per calunnia nei confronti di Riccio presentata da Mori e Obinu (i due ufficiali hanno presentato ricorso per Cassazione).
Il decreto di archiviazione del gip Maria Pino

Le indagini di Caltanissetta
Una prima organica ricostruzione delle vicende legate alla trattativa Stato-mafia è contenuta nel “capitolo secondo” della richiesta di misura cautelare presentata dalla Procura nissena per la strage Borsellino. Il capitolo si intitola: “Le nuove indagini sul movente del delitto, la cosiddetta trattativa”.

L’indice del documento, e i relativi link: 

1. Le indagini svolte sulla c.d. “trattativa”: una opportuna premessa. Il contributo dichiarativo di Massimo Ciancimino. 

2. Le indagini precedenti. L’attivismo di Mori e De Donno nella sentenza di Firenze. Gli ulteriori incontri del dott. Borsellino nel giugno-luglio 1992: gli incontri con l’on. Mancino, con il capo della Polizia Parisi, con quello della Criminalpol Rossi, con Bruno Contrada, con gli stessi Mori e De Donno e con il R.O.S.
2.1. La Sentenza di Firenze: la trattativa Mori-Ciancimino.
2.2. Le indagini svolte negli anni ’90 da questa Procura sui contatti del dott. Borsellino nel giugno/luglio 1992 con collaboratori di giustizia e personalità istituzionali.
2.2.1. Incontro/i con Parisi (capo della Polizia) e Rossi (capo della Criminalpol)
2.2.2. Incontro col Ministro Mancino
2.2.3. Incontri con Contrada
2.2.4. Incontri del dott. Borsellino con appartenenti al R.O.S.
2.2.5. Conclusioni sugli incontri del dott. Borsellino. 

3. Le nuove risultanze: le dichiarazioni di Ciancimino Massimo e Brusca Giovanni.

4.Le conferme di Giovanni Ciancimino e dell’avv. Ghiron. Le dichiarazioni di alcuni testi che rivestivano, all’epoca, importanti ruoli istituzionali: l’on. Martelli, l’on. Violante, l’avv. Contri, la dott.ssa Ferraro. 

5. I “nuovi” documenti raccolti: il c.d. “papello”, e le lettere di Provenzano a Ciancimino: loro non utilizzabilità probatoria, sulla base anche della relazione tecnica in atti. Le lettere autografe di Vito Ciancimino, ed i riscontri nelle stesse contenuti alla c.d. “trattativa”. I documenti su “Franco/Carlo” e la loro inattendibilità. L’inqualificabile comportamento processuale di Massimo Ciancimino sull’identificazione dell’agente segreto, e la conseguente integrale inutilizzabilità delle sue dichiarazioni al riguardo. 

6. Le “ombre” sugli apparati dello Stato: il “traditore”. Le dichiarazioni di Pino Arlacchi, Alessandra Camassa e Massimo Russo. Le ulteriori dichiarazioni di Mutolo Gaspare. Le incertezze di Di Matteo, l’intercettazione del colloquio con la moglie, e le dichiarazioni di Brusca al processo d’appello Borsellino. Le parole della vedova del dott. Borsellino. 

7. Le dichiarazioni degli on.li Mancino, Scotti e Rognoni. Le dichiarazioni di Mori e De Donno. Le provocazioni di Riina, ed il suo brusco voltafaccia maturato tra il 2009 ed il 2010. 

8. L’ombra della trattativa del 1992 nell’anno delle stragi di Firenze, Milano e Roma: il contrasto al D.A.P. e nei Ministeri tra due strategie ugualmente tese a disinnescare la “bomba carceri” concedendo a Cosa Nostra un drastico arretramento del 41 bis O.P. Le ricadute sui riscontri all’esistenza della trattativa nel 1992. 

La richiesta di misura cautelare presentata dalla Procura di Caltanissetta (il testo integrale)
Scarica l’indice del documento


BRUNO CONTRADA

Decreto di archiviazione del gip di Caltanissetta Tona per Bruno Contrada per le stragi PDF

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA:

Sentenza di primo grado PDF
Sentenza di secondo grado PDF 
Sentenza di rigetto della Cassazione PDF
Sentenza di rinvio della Cassazione PDF
Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo PDF

Bruno Contrada, ex funzionarioagente segreto  è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. Il suo nome è associato ai presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità, culminati nella strage di via d’Amelio dove morì in un attentato il giudice Paolo Borsellino che in quel periodo indagava sui collegamenti tra mafia e Stato, e alla cosiddetta “zona grigia” tra legalità e illegalità. Contrada si è dichiarato collaboratore e amico di Borsellino, ma i familiari del magistrato assassinato hanno smentito fermamente.  Anche Giovanni Falconepareva non si fidasse di lui da tempo.  In gioventù fu amico e collaboratore di Boris Giuliano, la cui moglie ha espresso invece perplessità sulla colpevolezza di Contrada. Arrestato il 24 dicembre 1992, Contrada, che si è dichiarato estraneo al reato, è stato condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2011-12 venne respinta la richiesta di revisione del processo e sempre nel 2012 finì di scontare la pena.  L’11 febbraio 2014 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione degli arresti domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il 13 aprile 2015 la stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali da parte dello Stato italiano perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era ancora previsto dall’ordinamento giuridico italiano (principio di nulla poena sine lege), e nella sentenza viene affermato che «l’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara».  In seguito a ciò, nel giugno 2015 è iniziata la revisione del processo di Contrada, poi respinta il 18 novembre. Gli avvocati di Contrada hanno presentato istanza di revoca della condanna, respinta dalla corte d’appello di Palermo, e infine accolta nel 2017 dalla corte di Cassazione, che ha dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”.


LA TRATTATIVA NON E’ PRESUNTA

L’ESISTENZA DI UNA VERA E PROPRIA TRATTATIVA DI TIPO POLITICO CON LA MAFIA, BASATA E FINALIZZATA SUL CONCETTO DEL DO UT DES E’ COSTITUITA DALLE STESSE PAROLE PRONUNCIATE DA MORI E DA DE DONNO, SENTITI NEL PROCESSO DINANZI ALLA CORTE DI ASSISE DI FIRENZE. E NON SOLO IN QUEL PROCESSO.

PM Di Matteo – dalla requisitoria 15 dicembre 2017 processo Trattativa Stato-mafia

“Rispetto a quella che viene definita sempre la “fantomatica” trattativa, la messinscena della trattativa, la pseudo trattativa e quant’altro, andiamo ad esaminare tutti quegli elementi che ci inducono ad affermare che quei dialoghi, quegli incontri riservati, nella casa di Roma, costituirono il terreno privilegiato di una vera e propria trattativa politica. E non certo come vogliono far credere gli odierni imputati, di una ordinaria, se pure eventualmente temeraria e spregiudicata iniziativa investigativa. Non c’entra nulla. Su questo processo si è detto e si continua a dire tutto. Non soltanto per criticare, che sarebbe ovviamente perfettamente comprensibile, ma per delegittimare, ridicolizzare il lavoro del Pubblico Ministero e l’onestà concettuale del Pubblico Ministero.  Siamo abituati non solo a sentire parlare di presunta trattativa , ma a leggere ed ascoltare quotidianamente giudizi impietosi che definiscono l’ipotesi della trattativa una messinscena, una bufala, un teorema di magistrati politicizzati privo di qualsiasi appiglio probatorio completo. Questa continua, costante, pressante attuale ricostruzione mediatica stride clamorosamente con dati di fatto di solare evidenza e di dirompente forza dimostrativa  E voglio partire da ciò che tutti dimenticano o fingono di dimenticare. Al di là e ancor prima di dichiarazioni di pentiti e dichiaranti, delle ricostruzioni di Massimo Ciancimino, delle affermazioniazioni di Brusca o di Cancemi, c’è ed assume oggi una forza incredibile nella sua chiarezza indiscutibile ed inequivocabile un elemento di prova acquisito quando nessuno ancora aveva nemmeno semplicemente ipotizzato di poter aprire un’indagine sui vertici del Ros e sui loro rapporti con Vito Ciancimino.  Quell’elemento di prova, quella confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia, basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des, è costituita dalle stesse parole pronunciate da Mori e da De Donno allorquando vennero sentiti nel processo Bagarella + 25 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze.  Parole molto chiare, inequivoche assolutamente antitetiche rispetto a quelle rese in questa sede con le spontanee dichiarazioni. Parole e ricostruzioni che recuperiamo attraverso il testuale riferimento nelle sentenze alla Corte di Firenze che non lasciano spazio e dubbi ad interpretazioni diverse da quelle di un’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino.  Andiamo a leggere alcuni passaggi di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte di Assise a Firenze del 27 gennaio 1998. Leggo alcuni passaggi virgolettati. Teste Mori “Andammo da Ciancimino e dicemmo “Signor Ciancimino, che cos’è questa storia qui. Ormai c’è un muro contro muro . Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?“. Guardate, basterebbero queste parole per dire: Ma quale attività investigativa? Ma quale pseudo trattativa? Il rappresentante del Comando Operativo del reparto di eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto che sa essere in contatto con Riina e Provenzano e e gli dice “Ma cos’è questo muro contro muro?” come se fosse strano che ci sia muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato. Che cos’è questa Signori Giudici Popolari se non già proprio subito una proposta di metterci d’accordo per fare venire meno il muro contro muro? Altro che Scotti alle Camere che dice che non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione, di compromesso… Ha ragione Riina quando dice “Mi hanno cercato loro”. La sentenza Tagliavia ha perfettamente ragione quando dice che il dialogo con la mafia è stato cercato …non dallo Stato, lo Stato è un concetto molto più alto, ma da alcuni esponenti deviati dello Stato.  Che cos’è questo muro, non si può parlare con questa gente? Non lo dice un pentito, lo dice Mori. Poi vedremo perché in quel momento, fra virgolette, se lo lascia scappare. Il 27 gennaio 98 in una Corte di Assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano, davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti. “Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Gli disse lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e RESTAMMO D’ACCORDO CHE VOLEVAMO SVILUPPARE QUESTA TRATTATIVA” La trattativa non esiste, la trattativa è il frutto avvelenato di giudici politicizzati…la presunta trattativa, la pseudo trattativa…la bufala della trattativa, la patacca della trattativa…  MORI IL 27 GENNAIO 1998 (la Corte si sbaglierà -dopo leggo alcuni passi della sentenza- dicendo che di quella trattativa ha parlato solo De Donno) DI TRATTATIVA HA PARLATO MORI E NON SOLO IN QUESTO PASSAGGIO, NE LEGGERO’ ALTRI, E LEGGERO’ ANCHE SCRITTI IN CUI MORI DEFINISCE QUESTA COSA UNA TRATTATIVA. C’è un altro passaggio molto importante che Mori sottolinea che i giudici della Corte di Assise annotano: la richiesta di Ciancimino di avere un passaporto. Testuali parole del Colonnello Mori.  QUANDO PARLA DEL PASSAPORTO MORI DICE “CE LO CHIESE PER SEGUIRE ALCUNE FASI DELLA TRATTATIVA ALL’ESTERO.“  CAPITANO DE DONNO, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio 98 “GLI PROPONEMMO DI FARSI TRAMITE PER NOSTRO CONTO DI UNA PRESA DI CONTATTO CON GLI ESPONENTI DELL’ORGANIZZAZIONE MAFIOSA COSA NOSTRA AL FINE DI TROVARE UN PUNTO DI INCONTRO, UN PUNTO DI DIALOGO finalizzato -De Donno è ancora più esplicito- alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato.”  Troviamo un punto di dialogo, finitela con questo contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, si capovolgono i termini della questione.  Signori giudici popolari, questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa? O questo significa, come qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra? Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno “Successivamente Ciancimino ci fece sapere che VOLEVA INCONTRARCI E CI DISSE CHE L’INTERLOCUTORE, E CIOE’ LA PERSONA CHE FACEVA DA MEDIATORE FRA LUI E SALVATORE RIINA (quindi sapevano già tutto, sapevano che Ciancimino parlava con Riina) VOLEVA UNA DIMOSTRAZIONE, UNA PROVA CONCRETA DELLA NOSTRA CAPACITA’ DI INTERVENTO. QUESTA PROVA CONSISTEVA NELLA SISTEMAZIONE DELLE VICENDE GIURIDICHE PENDENTI DEL CIANCIMINO E NELLA CONSEGUENTE CONCESSIONE DI PASSAPORTO AL CIANCIMINO.“  Quindi De Donno dice ai giudici della Corte di Assise di Firenze che, avendo parlato con Riina, per capire fino a che punto fossero affidabili interlocutori istituzionali, affidabili dal punto di vista mafioso, Riina chiese “vediamo fino a che punto si spingono: dategli un passaporto a Ciancimino”. Ciancimino a sua volta aveva detto “mi può essere utile per proseguire la trattativa all’estero, perché poi nel frattempo, aveva spiegato bene Vito Ciancimino che il suo interlocutore principale era Provenzano e che forse poteva essere utile anche qualche incontro all’estero. Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che, veramente, i primi a spiegare cosa fosse la trattativa, e che quella che loro hanno fatto è stata una trattativa con i vertici della mafia, sono stati proprio Mori e De Donno il 27 gennaio 1998. Io mi permetto di leggere solo alcuni passaggi della sentenza definitiva del 6 giugno 1998, quindi non c’era ancora praticamente nulla su quello che è il quadro probatorio oggi gravante nei confronti degli imputati carabinieri  Alcuni passaggi delle valutazioni della Corte di Assise di Firenze: L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto fra i Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo alle parti maggiormente significative. Vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche L’iniziativa del Ros, perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del reparto, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questo è scritto in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte di Assise in nome del popolo italiano.  Sotto questi profili, proseguono i giudici, non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di trattativa, dialogo, ha espressamente parlato il capitano De Donno, ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulate, di contattare i vertici di Cosa Nostra PER CAPIRE COSA VOLESSERO IN CAMBIO DELLA CESSAZIONE DELLE STRAGI. Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.  Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi, soccorrono assolutamente logiche, tempestive, congruenti le dichiarazioni di Brusca, poi ci torneremo. Intanto la conclusione. IL CONVINCIMENTO DI UNO STATO CHE VA A CERCARE, VA IN GINOCCHIO A DIRE “CHE COSA VOLETE PER FINIRE LE STRAGI?” rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento che al di là delle intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.  Si deve dire quindi che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi giacché metodo ed oggetto così come le finalità erano già presenti con sufficiente precisione alla mente di coloro che muovevano le fila di Cosa Nostra. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela già pronta e confezionata.  E allora, altro che processo fondato sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, altro che presunta trattativa, altro che teoremi accusatori di magistrati mossi da intenti politici. L’elemento di base, la piattaforma conoscitiva sulle quali si innesteranno le numerose successive acquisizioni per affermare che trattativa ci fu, è costituito proprio da quello che SOLO QUANDO DOPO LE PRIME DICHIARAZIONI DI GIOVANNI BRUSCA, GLI UFFICIALI VENNERO CHIAMATI AL PROCESSO DI FIRENZE, ESSI STESSI IN QUELLA SEDE AFFERMARONO , IN UN MOMENTO IN CUI CON LA TRACOTANZA CHE CON DIVERSI ASPETTI E’ CARATTERISTICA DI ENTRAMBI, ERANO CONVINTI DELLA LORO ASSOLUTA IMPUNITA’. E avevano anche in quel momento una giustificazione, avevano ragione in quel momento a sentirsi intoccabili, non a sentirsi rispettosi della legge e delle prerogative di un ufficiale giudiziario, ma SENTIRSI INTOCCABILI.

Quella convinzione trovava ragione d’essere nella incredibile inerzia della magistratura fronte a quello di cui quelle persone, Mori in particolare, si era già reso protagonista con la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina e con l’inganno alla Procura di Palermo circa la prosecuzione del servizio di osservazione sull’abitazione del Riina, con l’incredibile vicenda della mancata cattura di Nitto Santapaola a Barcellona, con il tragico epilogo della vicenda Ilardo dopo che il confidente aveva portato con mano il Ros alla possibilità non sfruttata di catturare Bernardo Provenzano… Quando il 27 gennaio 1998 Mori e De Donno si siedono davanti alla Corte di Assise di Firenze sono forti di tutto questo.  Sono forti della vicenda che non era successo niente nei loro confronti sostanzialmente, neppure all’emergere della doppia refutazione sulla questione mafia-appalti.  E in quel momento, forti di quel convincimento di impunità, seppur ovviamente omettendo il particolare decisivo della ricezione della trasmissione dell’elenco delle richieste di Riina, Mori e De Donno in quel momento forti del loro convincimento avevano parlato di trattativa per porre fine alle stragi e al muro contro muro tra lo Stato e la mafia. La verità è che in quel momento con l’instaurarsi dell’interlocuzione con Ciancimino si è venuta a determinare una situazione che dal punto di vista mafioso viene plasticamente descritta da ciò che Provenzano riferisce a Nino Giuffrè: Vito Ciancimino è in missione per conto di Cosa Nostra. Dal punto di vista chiamiamolo istituzionale, Mori e De Donno con l’avvallo e la copertura decisiva del comandante del Ros generale Subranni erano a loro volta in missione segreta per conto non del Governo, non dello Stato, ma di quella parte del potere rappresentato anche da uomini che rivestivano incarichi istituzionali, che deviando dagli interessi e dai comportamenti istituzionali VOLEVA ABBANDONARE LA LINEA DELLA CONTRAPPOSIZIONE FRONTALE SENZA SE E SENZA MA CON COSA NOSTRA PER ABBRACCIARNE UNA DI SEGRETA MEDIAZIONE.  Erano in missione in funzione di porre fine o comunque ammorbidire quella strategia di Cosa Nostra che proprio la parte trattatista dello Stato aveva fatto finta di non comprendere quando il ministro Scotti era andato a riferire in Parlamento.

E QUELLA SEGRETA E INDECENTE MEDIAZIONE VENNA AUSPICATA, IDEATA, ORGANIZZATA E IN CONCRETO COLTIVATA DIETRO LE QUINTE SFRUTTANDO LA SPREGIUDICATEZZA DI UN UFFICIALE, COME IL COLONNELLO MORI, DA SEMPRE ABITUATO A MUOVERSI PIU’ NELL’OTTICA DI ESPONENTE SENZA SCRUPOLI DEI SERVIZI DI SICUREZZA ED IN SOSTANZIALE DISPREZZO DI QUEI PRINCIPI DI OSSERVANZA DELLA LEGGE, DEI CODICI, DI SUBORDINAZIONE FUNZIONALE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA IL CUI RISPETTO INCOMBE o dovrebbe incombere su ogni ufficiale di polizia giudiziaria. Mori dopo avere lasciato il servizio, da ufficiale dei Carabinieri ha continuato a muoversi in quell’ottica propria del periodo in cui era ai servizi. L’ufficiale di polizia giudiziaria è un’altra cosa. Non si comporta a prescindere dall’autorità giudiziaria, nascondendo le cose all’autorità giudiziaria, ingannando l’autorità giudiziaria. C’è un episodio emblematico. Una frase riferita dal Dottor Canali in quest’aula. Il dottor Canali dopo la sparatoria del 6 aprile 93 aveva necessità di avere un colloquio con i superiori di quegli ufficiali, Sergio De Caprio e De Donno, che avevano esploso i colpi di pistola giusto giusto il giorno dopo si era avuta la notizia della presenza di Santapaola. Canali aveva chiesto un incontro tramite il maresciallo Scibilia con il colonnello Mori per cercare di capire meglio la situazione. Dopo più rifiuti Scibilia gli riferisce che Mori gli ha risposto dicendo che non ha tempo da perdere per parlare con il magistrato. Il totale disprezzo, la totale ritenuta indifferenza, rispetto delle regole. Lì c’era stata una sparatoria, c’era un procedimento per tentato omicidio nei confronti di Imbesi Salvatore.

L’INTOCCABILITA’. IL MUOVERSI AL DI SOPRA E AL DI FUORI DELLA LEGGE PER SCOPI POLITICI QUALI ERANO QUELLI DI PORRE FINE AL MURO CONTRO MURO FRA LO STATO E LA MAFIA.

Una conferma indiretta ma ulteriormente significativa del fatto che il rapporto con Ciancimino non fosse finalizzato ad acquisire notizie bensì a trattare con la mafia, è costituito dalle risultanze dell’acquisizione che nel 2009 scaturì dall’ordine di esibizione che congiuntamente noi PM di Palermo e di Caltanissetta nello stesso giorno notificammo senza preavviso ai servizi. Andammo direttamente al Ros dei Carabinieri. Noi chiedevamo di consultare con quell’ordine di esibizione da una parte tutto quanto fosse contenuto negli archivi, rispettivamente dei servizi e del Ros sulla persona di Vito Ciancimino dei suoi stretti congiunti, e dall’altra parte sulla strage di Via D’Amelio. Ogni tipo di documentazione.

Un passo indietro.

Della sentenza Tagliavia sulle stragi di Firenze, Roma e Milano, più recente, un’altra Corte, un altra istruzione dibattimentale, altri Pubblici Ministeri, voglio leggervi questo passaggio “Una trattativa ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des -si mettano il cuore in pace coloro che continuano a parlare sempre di pseudo trattativa, potranno continuare a farlo legittimamente però avessero almeno l’onestà concettuale di dire che una sentenza definitiva afferma che una trattativa ci fu e venne inizialmente impostata su un do ut des- L’iniziativa fu presa dai rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. l’obiettivo era trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi.  Vito Ciancimino corleonese amico di gioventù di Riina e Provenzano fu ritenuta la persona più adatta a far giungere il messaggio alla cupola. La trattativa si interruppe con l’attentato di Via D’Amelio di fronte al persistere del programma stragista. Proprio per queste ragioni l’uccisione di Borsellino è nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala. Per tutto il resto del ’92 Cosa Nostra restò in attesa di riaprire i canali di comunicazione e sospese l’iniziativa offensiva per stimolare la riapertura dei contatti e dare prova di determinazione anche per reazione contro l’arresto di Riina. DAL ’93 SU DECISIONE DELL’ALA OLTRANZISTA RAPPRESENTATA DA BAGARELLA, GRAVIANO, MESSINA DENARO, FU AVVIATA LA STAGIONE DEGLI ATTENTATI. ESSENDOSI ORAMI ATTESO TROPPO TEMPO PER DARE ULTERIORE SMOSSA, SI PENSO’ DI DARE IL COLPO DI GRAZIA SECONDO L’IDEA DI GIUSEPPE GRAVIANO RIPORTATA NEL PROCESSO DA SPATUZZA. LA SCELTA DI COLPIRE DEI CARABINIERI ORIGINO’ ANCHE DAL RANCORE PER L’ABBANDONO DEL NEGOZIATO INTAVOLATO DAI CARABINIERI MORI E DE DONNO, INIZIATIVA ACCOLTA ENTUSIASTICAMENTE DA RIINA. TRATTATIVA, NEGOZIATO, INIZIATIVA DEI CARABINIERI E NON DI RIINA, TERMINI UTILIZZATI E CONSACRATI DA UNA SENTENZA DEFINITIVA. Per quello che qui ci interessa di più, siamo andati al Ros centrale a Roma. e ci è stato messo a disposizione tutto quanto c’era agli atti del Ros su Vito Ciancimino. E anche quello che in gergo viene definito fascicolo P, dove P sta per personale, fascicolo che non riguarda una vicenda processuale in particolare ma riguarda e raccoglie tutto quello che su un determinato soggetto è archiviato dalla struttura investigativa. Nella nostra esperienza abbiamo apprezzato la meticolosità estrema che ogni reparto dei Carabinieri mette nell’archiviare le notizie, anche quelle apparentemente più inutili. Qualsiasi cosa viene molto diligentemente, normalmente, conservata e archiviata nel fascicolo personale, soprattutto se quel fascicolo si riferisce ad una persona che, come Vito Ciancimino, nel ’92, era già una persona assolutamente nota, con una proiezione politica importante ma più volte arrestato e sotto processo per fatti di mafia.  L’esame della documentazione è importante nella misura in cui consente di verificare ciò che non esiste.  Ciò che era talmente segreto e fuorilegge da non potere essere nemmeno consacrato in un riservato appunto interno da contrarre agli atti quantomeno per lasciare una traccia di ciò che era stato fatto.  Non c’è nulla. Una riga. Un’annotazione. Una relazione di servizio. Nulla che si riferisce ai rapporti, agli incontri fra mori, De Donno e Ciancimino nel 1992 a Roma. Vedremo che c’è un’annotazione postuma, si capisce fatta da Mori, anche se non è firmata, ma è postuma perché fa già riferimento agli interrogatori di Ciancimino resi nel ’93 all’autorità giudiziaria, che è una ricostruzione postuma, che si capisce perfettamente essere di molto successiva e probabilmente postuma rispetto alle dichiarazioni di Brusca nel ’97 al processo di Firenze. Ma nel ’92 quando per loro stessa ammissione si incontravano a casa di Vito Ciancimino dopo averlo intercettato per vedere di far venire meno il muro contro muro tra la mafia e lo Stato i carabinieri non lasciano nulla, non lasciano una traccia di quegli incontri.  Di quegli incontri andavano a dire non certo ai magistrati, non certo alla DIA, non ai carabinieri. Andavano a dire a politici come Ferraro, Fernanda Contri, Luciano Violante e quant’altro.   Ed è un dato che dobbiamo valutare appieno nella sua significatività volta a tutelare la segretezza di un rapporto illecito, alla luce delle prassi antitetiche normalmente seguite dal Ros. Il silenzio, il non lasciare traccia scritta, lo possiamo interpretare solo ed esclusivamente nell’ottica di una vicenda di cui non doveva restare alcuna traccia né in quel momento né per il futuro. E ciò proprio nella consapevolezza di una condotta, quella di trattare con il nemico, completamente estranea e contraria alla legge. Confrontate per cortesia il silenzio sul ’92 con la restante parte del fascicolo di Ciancimino con quello che è annotato rispetto agli anni 91, rispetto al periodo dal gennaio 93 in poi fino a quando Vito Ciancimino il 18 dicembre 92 torna in carcere. Vedrete che prima e dopo il 92 vengono conservate, archiviate anche le notizie più insignificanti. Tutto. Nel ’92 agli atti del Ros Vito Ciancimino non esiste. Veramente sembra rievocare quello che in quest’aula quel coraggioso e valoroso ufficiale, il colonnello Giraudo, ci ha detto circa il cosiddetto protocollo fantasma. C’è un appunto di Mori oggetto contatti con Vito Ciancimino fascicolo P che si capisce essere assolutamente postumo. Anche in quello che c’è, c’è qualcosa di interessante. Cosa scrive Mori riferendosi ai tempi passati. Ciancimino disse che i suoi interlocutori avevano accettato il dialogo che si sarebbe dovuto sviluppare con la sua mediazione partendo dalle seguenti irrinunciabili condizioni: trattativa da tenersi all’estero e quindi restituzione al Ciancimino che ne era stato privato, del passaporto.  Mori, come dicevo, non solo ha parlato di trattativa ma lo ha anche scritto.  Ci sono altri atti allegati dai quali si evince l’importanza del canale Ghiron. Con l’avvenuto arresto (Ciancimino venne arrestato per ordine della Corte di Assise di Palermo il 19 dicembre 92) ritenni che il dialogo con Ciancimino si fosse definitivamente interrotto. Invece nel gennaio 93, non ricordo se prima o dopo la cattura di Riina, ecco fui contattato dall’avvocato Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. Abbiamo ancora degli allegati, importanti perché testimoniano che questo contatto Ciancimino Vito-Carabinieri, a prescindere dall’autorità giudiziaria di Palermo che invece nel febbraio 93 aveva iniziato gli interrogatori, si protrae nel tempo. Nel 95 Vito Ciancimino manda un telegramma al colonnello Mario Mori “urge incontrare lei insieme al capitano De Donno possibilmente in presenza procuratore Caselli oppure soli”. Con l’annotazione di Mori “informato l’avvocato Ghiron dell’intendimento dottor Caselli di incontrare il signor Ciancimino”  Ancora, per dimostrare la possibilità di accedere al carcere nel quale era detenuto Vito Ciancimino da parte di Mori e De Donno al di là e al di fuori delle occasioni degli interrogatori con i magistrati vi segnalo un allegato dell’8 marzo 1994 conservato agli atti del Ros a firma Procuratore Caselli “A seguito mia nota del 25 gennaio 94 e successiva del 18 febbraio 94, mentre confermo autorizzazione a colloqui di personale del vostro ufficio con il signor Vito Ciancimino nonché la consegna al medesimo della documentazione oggetto della nota 25 gennaio 94, prego riferire allo stato degli atti con trasmissione al mio ufficio di copia del materiale da inoltrare o già inoltrato a Vito Ciancimino”. Da qui si deduce che comunque anche, non solo prima del primo interrogatorio, il colloquio investigativo che avevano fatto, ma anche nella costanza degli interrogatori fatti alla Procura di Palermo Mori e De Donno avevano perfettamente la possibilità di interloquire con Vito Ciancimino, di consegnare a lui materiale, di farsi consegnare materiale attraverso l’autorizzazione che il Procuratore Caselli gli aveva fatto. Qualche cenno ulteriore sul contenuto degli atti acquisiti al Ros nei fascicoli stavolta concernenti la strage di Via D’Amelio. Agli atti di quel fascicolo riservato spicca la presenza di annotazioni di notizie confidenziali su un attentato ritenuto imminente a Paolo Borsellino. Spicca la presenza di annotazioni relative a segnalazioni confidenziali fatte ai Carabinieri circa il coinvolgimento nella preparazione nell’esecuzione della strage di Pietro e Gaetano Scotto. Spicca la presenta di un’annotazione concernente notizie, leggo testualmente, informalmente acquisite a Palermo circa l’andamento e le prese di posizione dei singoli sostituti nel corso della prima riunione della DDA successiva alla strage, quindi c’è di tutto, pure quello che erano riusciti ad orecchiare sul contenuto di colloqui riservati e interni tra i magistrati di Palermo dopo la strage di Via D’Amelio.

 

Agli atti del Ros c’è tutto questo. MANCA COMPLETAMENTE OGNI, ANCHE GENERICO, RIFERIMENTO ALL’INCONTRO DEL 25 GIUGNO 1992 ALLA CASERMA CARINI DI PALERMO TRA IL DOTTOR BORSELLINO, MORI E DE DONNO. 

Del quale incontro l’autorità giudiziaria e in particolare per prima quella di Caltanissetta, venne a conoscenza dall’annotazione nell’agenda grigia del giudice, quella che non è scomparsa. Allora, voglio riflettere un attimo per quello che può riguardare questo processo e quello che è stato detto in questo processo, sul significato di questa assenza. Noi riteniamo che se, come gli imputati dicono, ma lo dicono dal 1997 in poi, quell’incontro avesse avuto come oggetto l’intenzione di Paolo Borsellino di approfondire il tema delle indagini di mafia-appalti dei Carabinieri, quell’assenza non si spiega. Se realmente il 25 giugno il colloquio tra Paolo Borsellino, Mori e De Donno avesse avuto ad oggetto l’interesse del giudice all’approfondimento di quell’inchiesta, Mori e De Donno avrebbero avuto non soltanto il dovere ma anche l’interesse professionale personale di rappresentare immediatamente il dato ai magistrati che si occupavano dell’indagine sulla strage e che quindi per determinarne la causale dovevano minuziosamente ricostruire le attività del Dottor Borsellino nel periodo immediatamente precedente. Se veramente Paolo Borsellino avesse detto “voglio approfondire l’indagine mafia-appalti, per favore consentitemi di farlo perché non mi fido di quello che stanno facendo i colleghi di Palermo”, il 20 luglio di mattina i Carabinieri si dovevano presentare ai magistrati di Caltanissetta per dire: attenzione giudici che Paolo Borsellino stava facendo questo. Tanto più che loro a quell’indagine attribuivano, giustamente, importanza. Niente. Silenzio. Nonostante gli ottimi rapporti con la Procura della Repubblica di Caltanissetta, perché poi ogni tanto esce fuori ma noi siamo stati zitti perché con la Procura di Palermo non c’erano buoni rapporti o per questo o per quell’altro motivo… no qui non c’è nessun tipo di dubbio. Avrebbero potuto e dovuto presentarsi per dire questo. Stanno zitti fino a quando nel 1997 dopo che si pente Siino e viene fuori nuovamente la polemica sulla famosa consegna abusiva del rapporto mafia-appalti sul possibile coinvolgimento di magistrati di Palermo, Mori e De Donno, De Donno in particolare, alla Procura di Caltanissetta chiamato per sapere cosa ne sapeva di quella cosa dice: guardate che Paolo Borsellino il 25 giugno ci ha detto di questa cosa di mafia-appalti. Come si fa a giustificare l’assenza di un’annotazione, se fosse stato questo il vero oggetto del dialogo o il vero scopo di Paolo Borsellino ammesso che abbia potuto fare riferimento al dialogo, mafia-appalti… E’ possibile che delle cose che assumono un rilievo importante non venga lasciata traccia? Voi potete mai credere -ora sta diventando quasi una moda dire io non ho detto niente allora perché nessuno mi chiamò- ma voglio dire, il vertice del Ros con il rapporto che avevano, anche di natura stretta, almeno fino ad un certo punto, almeno alcuni, con Paolo Borsellino, è possibile che se fosse stata vera quella versione dell’oggetto del colloquio del 25 giugno non lasciano una traccia scritta e soprattutto non si presenta l’indomani ai procuratori di Caltanissetta a riferire questa cosa?

 

Allora io ribadisco. La verità è un’altra su quell’incontro del 25 giugno 1992. Che ci fu. Poi nelle ore pomeridiane Paolo Borsellino andò a Casa Professa e PROBABILMENTE SEGNO’ ULTERIORMENTE LA SUA CONDANNA DICENDO CHE SI SAREBBE RECATO ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI CHE RITENEVA GRAVI E DOVEVA RIFERIRE. SPECIFICHERA’ POI AL GIORNALISTA DAVANZO CHE LO INTERVISTAVA SU QUESTO E CHE GLI CHIEDEVA MA LEI DOTTOR BORSELLINO ANDRA’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE LA SUA VERSIONE, PER RIFERIRE COSA PENSA DELLA CAUSALE DELL’OMICIDIO DEL GIUDICE FALCONE, E BORSELLINO RISPONDERA’ “NO. IO SONO UN MAGISTRATO E SO CHE UNA PERSONA INFORMATA DEI FATTI DEVE RIFERIRE FATTI. IO ANDRO’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI DI CUI SONO VENUTO A CONOSCENZA.”

Il 25 giugno del 1992 i Carabinieri del Ros non potevano certo riferire ai PM di Caltanissetta quale era stato l’oggetto vero, l’oggetto principale dell’interlocuzione con Borsellino, perché quell’oggetto prendeva spunto dal famoso anonimo Corvo due e quindi LAMBIVA TROPPO PERICOLOSAMENTE L’ARGOMENTO DELLA TRATTATIVA CHE MORI E DE DONNO AVEVANO GIA’ INTRAPRESO CON VITO CIANCIMINO. Perché quell’anonimo in sostanza nel suo nucleo centrale PARLAVA DI UN DIALOGO E DI UNA TRATTATIVA IN CORSO TRA UN’ALA DELLA DC IN PARTICOLARE RAPPRESENTATA COME ELEMENTO DI PUNTA DA MANNINO E SALVATORE RIINA. 

Io vi prego di rileggere con attenzione le dichiarazioni, utilizzabili solo parzialmente, di uno dei testi i cui verbali sono stati prodotti, e per fortuna prodotti, anche questo signore poi è venuto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Mi riferisco a Carmelo Canale. Così come capiterà anche per Giovanni Ciancimino. Le dichiarazioni del 22 febbraio 2011, non c’è possibilità nemmeno di poter pensare che Canale sia stato suggestionato nelle sue risposte dalle domande perchè veniva chiamato come teste della difesa e rispondeva alle domande dei difensori degli imputati in quel processo. A proposito del 25 giugno Carmelo Canale dice “Un giorno eravamo al Tribunale, alla Procura. Dottor Borsellino mi chiese nella circostanza di incontrare ma molto riservatamente e all’interno non della Procura, ma della sezione anticrimine di Palermo l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, perché secondo quello che io ricordo e che mi riferì Dottor Borsellino, vi era una voce all’interno da parte dei colleghi suoi, -quindi dei magistrati, non mi ha detto il nome altrimenti lo avrei pure rivelato – una voce che dava il capitano De Donno come il compilatore di un anonimo, perché girava un anonimo. E allora io chiesi tramite un mio comandante della sezione di interpellare il colonnello Mori e di fissare un appuntamento con il Procuratore Borsellino. L’appuntamento ci fu poi Borsellino si guardò bene, né io gli chiesi, di dire di cosa avevano parlato. Ma il motivo per il quale il dottor Borsellino vuole incontrare riservatamente Mori e De Donno, non è certo il motivo dell’approfondimento dell’indagine mafia-appalti. Ma è il motivo relativo all’anonimo.

 

E’ L’ANONIMO NELLA CRUDA SOSTANZA FACEVA RIFERIMENTO AD UNA TRATTATIVA.  Questi sono fatti. Questa è una versione, parziale, per carità, perché nessuno era presente all’interlocuzione tra il dottor Borsellino e gli ufficiali Mori e De Donno, ma noi sappiamo da un teste assolutamente -di cui non si può sospettare una vicinanza alla Procura, se non altro perché era stato processato dalla Procura di Palermo- il fatto è questo; borsellino chiede a Canale di attivarsi per l’incontro riservato con Mori per cercare di capire chi avesse compilato l’anonimo. E l’anonimo aveva ad oggetto sostanzialmente i contatti assolutamente impropri, fuorilegge rappresentati in questo modo, per trovare una soluzione al problema di politici -guarda caso Mannino e la mafia.   Il 25 giugno 1992 si incontrano Mori e De Donno con Paolo Borsellino e si può ritenere sulla base di quello che dice Canale abbiano parlato anche dell’anonimo, mentre nello stesso momento, al di là dei teoremi fantasiosi dei Pubblici Ministeri, l’agenda di Contrada ci dice che Subranni e Contrada vanno a trovare il ministro Mannino nelle ore serali per discutere di Anonimo Corvo Due e situazione Sicilia

“L’’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino ha detto il falso”, esordisce il pubblico ministero Nino Di Matteo. La requisitoria del processo “Trattativa Stato-mafia” affronta uno dei capitoli più delicati.Il titolare del Viminale nel 1992 è accusato di falsa testimonianza. “Ha scelto la menzogna, l’omertà istituzionale”, accusa Di Matteo. “Le affermazioni di Nicola Mancino sull’incontro con il giudice Paolo Borsellino al Viminale nel giorno del suo insediamento sono state oscillanti e contraddittorie”. In un primo tempo, Mancino negò di aver visto il magistrato. Ma sono soprattutto le parole dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l’esponente politico. “Mi lamentai con lui del comportamento del Ros”, ha messo a verbale l’ex ministro della Giustizia. “Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino”. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. “Dice il falso”, accusa Di Matteo.  In aula, vengono lette le intercettazioni fra Mancino e Loris D’Ambrosio, allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “In quelle intercettazioni – dice Di Matteo – risulta il tentativo da parte del privato cittadino Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria e addirittura le scelte di un collegio dei giudici”. Mancino non voleva essere messo a confronto con Martelli. “Quel tentativo – prosegue Di Matteo – invece di essere stoppato, venne alimentato e assecondato dal Quirinale”. Il pubblico ministero cita l’allora presidente Napolitano: “Fu irrituale il suo suggerimento, esternato da D’Ambrosio al telefono, di fare un confronto fra Mancino e Martelli, soluzione che lo stesso Mancino scartò subito”.  Per Di Matteo, Mancino aveva “una vera e propria ossessione” e “fece un pressing costante nei confronti della presidenza della Repubblica, per ostacolare le indagini della procura di Palermo”. Dopo una lettera del segretario generale della presidenza della Repubblica, l’allora procuratore generale della Cassazione Esposito convocò il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Che dichiarò, senza mezzi termini: “Non c’è stata alcuna violazione del protocollo sul coordinamento fra le procure di Palermo e Caltanissetta (che indagavano sulla trattativa – ndr), non ci sono gli estremi per l’avocazione dell’inchiesta”. Dice oggi Di Matteo: “Il procuratore nazionale fu convocato oralmente, Grasso invece pretese di dare una risposta scritta. Il comportamento di Grasso fu intransigente e corretto”.  Nella sua risposta, Grasso mise in oggetto: relazione onorevole Mancino. “Grasso riportò tutto alla cruda realtà”, dice Di Matteo. “Qualcuno avrebbe voluto aiutare il privato cittadino Mancino. Grasso, invece, respinse al mittente ogni pressione”.” Fonte : Gruppo FB FraternoSostegno ad Agnese  Borsellino 14.11.2018 

TRATTATIVA STATO-MAFIA – PARZIALI AMMISSIONI DI MANNINO che ha rilasciato dichiarazioni spontanee durante l’udienza del 22 marzo 
Il 18 dicembre era stato notificato un decreto di citazione a De Mita a comparire come teste sulla trattativa Stato-mafia, il 21 (la notizia non era stata data dai giornali) Mannino si preoccupa di mandare Gargani da De Mita per dare la stessa versione.  
Affermazioni utili anche alla difesa di Sandra Amurri.

ORA MANNINO SI TRADISCE: “SI’, PARLAMMO DI DE MITA”TRATTATIVA, L’EX MINISTRO AMMETTE L’INCONTRO SULLA DEPOSIZIONE DELL’EX LEADER.L’incontro al bar Giolitti del 21 dicembre 2011? “Con Gargani ci scambiammo le informazioni che quella mattina erano sui giornali, che De Mita sarebbe stato sentito dai pm di Palermo, e gli dissi: ricorda a De Mita il congresso di Agrigento, quello in cui isolai Ciancimino”.  Lo aveva definito “il delirio di una mitomane”, ma giovedì scorso, nel processo di appello per lo stralcio della Trattativa in cui è imputato dopo l’assoluzione in primo grado, Calogero Mannino ha ammesso che l’incontro narrato in aula dalla giornalista del Fatto Sandra Amurri, nel quale, allarmato e preoccupato, avrebbe detto a Giuseppe Gargani “questa volta questi qui (i pm di Palermo, ndr) ci fottono”, c’è stato e che i due parlarono proprio della convocazione di De Mita come teste sulla trattativa Stato-mafia. Mannino per la prima volta ammette l’incontro, continua a negare che l’oggetto fosse la sostituzione di Scotti con Mancino al Viminale nella stagione delle stragi, ma inciampa in un ricordo sbagliato: la notizia della convocazione di De Mita, che dice di avere appreso dai giornali di quella mattina, in realtà non era stata pubblicata, come ha ricordato il pm Nino Di Matteo nella requisitoria dell’11 gennaio 2018: “Il colloquio al bar Giolitti avviene il 21 dicembre – ha detto nell’aula bunker – era stato notificato un decreto di citazione a comparire a De Mita il 18 dicembre. Il 21 Mannino sa della citazione, che non era comparsa su nessun giornale, e si preoccupa di mandare l’avellinese Gargani dall’avellinese De Mita per dare la stessa versione che conviene a noi: cioè che Scotti fu sostituito per l’incompatibilità, altrimenti i pm di Palermo ci fottono’’. L’ex ministro chiede la parola negli 11 minuti finali dell’udienza, e dopo avere rivendicato “la scelta di campo” democristiana nella lotta alla mafia (e negato di avere fatto pressioni sul vice direttore del Dap Francesco Di Maggio “che neanche conoscevo” per attenuare il 41 bis), ammette che l’incontro al bar Giolitti di Roma era finalizzato a “ricordare” a De Mita, convocato tre giorni prima dai pm di Palermo, un pezzo di storia della Dc in Sicilia. Non la sostituzione di Scotti con Mancino dell’estate delle stragi, nel ’92, come sostengono i pm, ma il congresso di Agrigento di nove anni prima, quello in cui su iniziativa dello stesso Mannino la Dc isolò per la prima volta Vito Ciancimino, divenuto troppo ingombrante e imbarazzante Le ammissioni di Mannino, sia pure parziali, si interrompono qui. Il resto, per lui, è riportato in modo “farneticante” dalla Amurri, compreso l’accenno a Ciancimino (“Massimo dice un sacco di bugie, ma su di noi ha detto la verità”), che Mannino continua a negare perché il figlio di don Vito “non ha mai parlato di me nei suoi verbali”.  E però Ciancimino jr è stato citato dal pm come teste (e ammesso) proprio per il ruolo centrale attribuito dall’accusa all’accertamento del “nesso di causalità” su cui si regge buona parte dell’accusa, e cioè il collegamento tra l’iniziativa del Ros di interloquire con Vito Ciancimino e il presunto accordo tra Mannino e Cosa nostra, “per salvarsi e attuare un programma politico favorevole ad una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stragista della mafia, le scelte del governo”. L’inedita ammissione di Mannino servirà anche alla difesa della collega Amurri, già condannata dal tribunale a pagare 15 mila euro di spese e ora impegnata nell’appello del processo in cui aveva querelato Mannino per averla definita tra l’altro “agente volontaria della Stasi o del Kgb” e “mitomane”, espressioni che il giudice di primo grado ha ritenuto “riconducibili all’esercizio del diritto di critica… proporzionate e strettamente collegate alle accuse mossegli nell’articolo”. Ritenendo quell’ascolto casuale, seduta a un bar una fredda mattina di dicembre, un’ “indebita interferenza in una conversazione privata”. Come se denunciando un fatto processualmente rilevante, ascoltato fortuitamente, la giornalista avesse invaso la privacy di Mannino e Gargani.  – di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza  Il Fatto Quotidiano | 25 marzo 2018

 

I PROCESSI  Il 19 aprile del 2017 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo  Madonia e Tutino, accusati di strage e a  a dieci anni di carcere i due pentiti minori che con le loro false dichiarazioni hanno mandato in carcere sette innocenti.  Non doversi a procedere,  invece,  per Scarantino, grazie all’attenuante di essere stato “indotto a false dichiarazioni

A distanza di oltre un anno (437 giorni per la precisione) dalla sentenza sono state rese note le motivazioni della sentenza del Borsellino Quater che confermano la gestione di una inchiesta inquinata da depistaggi.Le bugie che hanno tenuto in carcere sette innocenti per quindici anni costano dieci anni di reclusione ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci mentre la prescrizione salva incredibilmente il protagonista assoluto dei depistaggi della strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. I giudici  hanno quindi accolto una  nuova versione dell’eccidio riferita nel 2008 dal pentito Gaspare Spatuzza e hanno condannato all’ergastolo altri due mafiosi che fino ad ora erano rimasti fuori dalle indagini, Salvuccio Madonia e Vittorio Tutino, entrambi accusati di strage.  Una sentenza, quella emessa dalla corte d’Assise di Caltanissetta,  che incredibilmente riapre per l’ennesima volta la partita. Perchè Scarantino ha ottenuto  la prescrizione grazie alla concessione delle attenuanti per essere stato indotto a rendere false dichiarazioni. Ma indotto da chi? Un interrogativo ancora senza risposte visto che, l’indagine aperta a Caltanissetta sui poliziotti accusati di aver costretto il pentito a rendere false dichiarazioni è stata archiviata. Ora, però, a riprendere in mano il fascicolo potrebbe essere il nuovo procuratore Amedeo Bertone che, dopo un duro confronto con le parti civili, nella sua conclusione davanti ai giudici aveva parlato di un “comportamento scorretto” dei poliziotti.  Dopo la sentenza, Bertone commentò: ” Le indagini sulle stragi di mafia non sono ancora finite. L’impianto accusatorio ha retto, quindi sono soddisfatto per l’esito del processo. Credo che lo siano anche i familiari delle vittime, e comunque credo che sia stato un ottimo risultato, almeno dal mio punto di vista”.  Il principale protagonista di quello che è stato definito un depistaggio di Stato, dunque, è stato  salvato proprio da quei 26 anni che sono passati dalla strage ad oggi. Le sue prime dichiarazioni sono datate 1993, quando viene arrestato dall’allora capo del gruppo stragi Arnaldo La Barbera e si autoaccusa di aver rubato la 126 che, imbottita di tritolo, saltò in aria in via D’Amelio il 19 luglio 1992 all’arrivo di Paolo Borsellino. Solo undici anni dopo e dopo ben nove processi che in tutti i gradi di giudizio avevano accolto le false dichiarazioni di Scarantino, il pentimento di Gaspare Spatuzza ha acceso i riflettori sul grande depistaggio, indicando nel gruppo di fuoco di Brancaccio i veri esecutori dell’eccidio.  Quella sancita dal verdetto del processo-quater resta comunque una verità monca perchè nulla dice di chi volle questo depistaggio e delle responsabilità di chi, tra investigatori e magistrati di allora, accreditò quella versione da subito sbugiardata da altri ben più solidi pentiti. In precedenza, il procedimento a carico di tre poliziotti del gruppo stragi accusati di aver costretto Scarantino a fare quelle dichiarazioni sotto minaccia e di aver suggerito le versioni da dare, si è concluso con un’archiviazione.  Nessuna trattativa o depistaggio per l’Avvocatura dello Stato.  Come vigorosamente denunciato da Fiammetta, terzogenita di Paolo Borsellino, neanche questo verdetto riesce a sciogliere i tanti buchi neri di questa inchiesta infinita. Il CSM, dal canto suo,  a seguito delle sollecitazioni  della  famiglia Borsellino, aquisirà le suddette motivazioni per valutare se dar corso o meno alla procedura di verifica sull’operato dei magistrati che si occuparono delle indagini su Via D’Amelio.    La Procura di Caltanisetta l’8 marzo 2018 ha chiuso l’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio notificando a tre poliziotti l’accusa di calunnia in concorso. Conferme, e una raffica di condanne dalla sentenza di primo grado del processo alla c.d. Trattativa Stato-mafia.

 

Le testimonianze dei figli di Borsellino sull’agenda rossa “Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, l’agenda rossa da cui non si separava mai”, ha raccontato la figlia del giudice, Lucia Borsellino, il 19 ottobre del 2015, quando è stata chiamata a testimoniare al quarto processo per la strage. Le sue parole sono state confermate dal fratello Manfredi che ha ricordato l’immagine del padre che scriveva “compulsivamente sul diario”. “Dopo la morte di Giovanni Falcone – ha detto Manfredi Borsellino ai giudici della corte d’Assise – la usava continuamente. E non per appuntare fatti personali. Era certamente un modo per segnare eventi e cose di lavoro importanti. Se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un’altra direzione”.   SKY TG24

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 A cura  di Claudio Ramaccini Resp. Ufficio Stampa e Comunicazione Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco