Fiammetta Borsellino:”Il depistaggio ha ucciso mio padre una seconda volta”

 ARTICOLO

«Mio padre diceva sempre che la mafia l’avrebbe ucciso solo quando altri glielo avrebbero permesso».
Fiammetta Borsellino, la figlia più giovane del magistrato siciliano ucciso nella strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, nelle scorse ore è stata intervistata, nella sua casa di Palermo, da Mario Rapisarda, giornalista e direttore di Espansione Tv e del Corriere di Como.
La scorsa notte, in carcere a Parma dove era detenuto, è morto il “boss dei boss”, o forse è meglio dire “la belva” Totò Riina. Non c’è dunque cosa più opportuna, in queste ore, che lasciar voce ai giusti e non, appunto, alle belve.
Anche se il percorso di memoria in cui ci ha condotto Fiammetta Borsellino nell’oltre mezz’ora di intervista è stato doloroso.
Non solo, purtroppo, per il ricordo del padre, ma anche per l’incapacità dimostrata dalle istituzioni e dallo Stato italiano di dare giustizia a chi la chiedeva: ai parenti delle vittime della strage di via D’Amelio che proprio la scorsa primavera hanno dovuto udire la parola «prescrizione» – dopo 25 anni – per il pentito che con le sue dichiarazioni depistò le indagini.
Chi volle però questo depistaggio? E perché gli inquirenti, o quantomeno una buona parte di essi, continuarono a seguire la strada della menzogna del pentito nonostante fosse sempre più chiaro che altro non era che un vicolo a fondo cieco?
«Ancora oggi non si è giunti a una verità chiara – ha detto Fiammetta Borsellino – Le anomalie che ci sono state sono evidenti e sono negli atti del processo di cui stiamo ancora attendendo le motivazioni della sentenza. La strage di via D’Amelio è stato ed è uno dei più grandi depistaggi del secolo, uno dei più grandi errori giudiziari della nazione. L’ennesimo scempio al cadavere di mio padre. Chiediamo alle istituzioni di fare luce su questo depistaggio, perché i responsabili di quanto avvenuto spieghino o almeno provino a giustificare il loro comportamento».
mandanti occulti
Fu una strage di Stato? «Non ho competenze per un giudizio del genere, ma rilevo che a livello istituzionale si è fatto ben poco per arrivare alla verità. Se ci sono colpe, dolo o coinvolgimenti più alti non devo essere io a stabilirlo. Le anomalie nella condotta di chi gestiva le indagini sono però state funzionali a uno dei più grandi depistaggi che la storia ricordi. Mandanti occulti? Mio padre diceva: la mafia mi ucciderà quando qualcuno glielo permetterà. Dopo 25 anni la ricerca della verità è una impresa impossibile, strettamente connessa alle ragioni di chi quella verità doveva trovarla. Ma noi questo appello dobbiamo farlo: chiediamo alle istituzioni un contributo di onestà, che si attivino per fare luce su quanto accaduto».
Un uomo lasciato solo
«Mio padre fu lasciato solo anche prima della strage, nei suoi ultimi 57 giorni. Si parlava, si sussurrava all’orecchio del tritolo arrivato in Sicilia per Paolo Borsellino, ma nessuno prese provvedimenti per salvaguardare lui, la sua scorta e i suoi familiari. Mio padre in quei giorni chiese più volte di essere sentito dalla Procura di Caltanissetta, ma gli fu negata questa possibilità. C’erano dissidi con l’allora procuratore capo che non voleva delegargli le indagini su Palermo. Lo fece solo il 19 luglio, con una insolita telefonata alle 7 della mattina».
L’agenda rossa
«L’agenda di mio padre era contenuta in una borsa che fu trovata intatta sul luogo della strage. La borsa ci fu riconsegnata nel novembre del 1992 ma l’agenda non c’era. Sarebbe stata utile per conoscere gli appuntamenti di mio padre i giorni prima della strage. La borsa fu lasciata per giorni sul divano della questura. Non le fu nemmeno fatto l’esame del Dna».
L’amicizia con Falcone
«Questi 25 anni senza mio padre sono stati difficili. Difficile costruire una vita normale dopo quello che abbiamo vissuto. Ci siamo posti come obiettivo, io e i miei fratelli (Fiammetta aveva 19 anni quando morì Paolo Borsellino, ndr), di porre le basi per costruirci sopra delle vite sane e oneste. Tra mio padre e Giovanni Falcone c’era un legame molto forte. Erano persone diverse, ma assieme si bilanciavano. Erano nati nello stesso quartiere e avevano percorso la stressa strada. La loro però era un’amicizia che non lasciava spazio alla spensieratezza. L’unico attimo di serenità che mi ricordo fu all’Asinara, in quella vacanza forzata in cui tornarono bambini».
L’Italia
«La nostra è una terra strana. C’è un contrasto evidente tra uno dei più alti livelli di corruzione e gli uomini da lei partoriti che danno la vita per i loro ideali. E non parlo solo di mio padre e di Falcone. Vi racconto un aneddoto: mio padre voleva farsi la barba solo con il rasoio a mano e non con quello elettrico. Quando gli chiedevo il perché mi diceva che gli piaceva di più, perché lo costringeva a guardarsi ogni mattina allo specchio».
La mafia al nord
Paolo Borsellino capì subito i tentativi della mafia di infiltrarsi al nord per far fruttare i proventi illeciti. «Differenze? La mafia del Sud che investe al Nord non è diversa, sono due facce della stessa medaglia. A mio padre stava a cuore il tema mafia e appalti, a cui dedicò anche un apposito dossier che guarda caso fu velocemente archiviato dopo la sua morte».
Il sacrificio è servito? Poche settimane prima di morire, in una intervista, Borsellino disse «siamo cadaveri che camminano». Il sacrificio è servito? «È servito nella misura in cui oggi ci sono giovani che vivono e che sono cresciuti nei loro insegnamenti. Quei barbari eccidi hanno smosso le coscienze e creato movimenti che portano le scuole a parlare degli ideali di questi uomini».