Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del Borsellino quater vengono evidenziate anche le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore».cLe conclusioni della Corte d’Assise hanno condotto il Collegio a disporre la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, come è ormai ampiamente noto, sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna all’ergastolo sette persone.Le sentenza conferma che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte» : furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri». Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui la Corte richiama l’attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura»; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo il richiamo alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello. Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.