GIUSEPPE PIGNATONE eletto all’unanimità. Una toga antimafia alla procura di Roma. Dai killer di Capaci alla lotta alla ‘ndrangheta
Una carriera in magistratura lunga quasi 40 anni, tra Sicilia e Calabria, nel segno della lotta alla criminalità organizzata: Giuseppe Pignatone, ex procuratore generale di Reggio Calabria, diventa Procuratore della Repubblica di Roma per decisione unanime del plenum del Consiglio superiore della magistratura. Nato Palermo nel 1949, Giuseppe Pignatone entra in magistratura nel 1974. Dopo un’esperienza come Pretore a Caltanissetta, nel 1977 viene trasferito alla Procura di Palermo, dove nel 2000 è nominato Procuratore aggiunto. Qui con Piero Grasso dirige la Direzione distrettuale antimafia, e porta a termine molte indagini contro Cosa nostra. Negli anni ’80 incrimina Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo poi condannato per mafia e corruzione, e, iindaga l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, chiedendo una condanna a otto anni. Coordina le indagini che portano all’arresto di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza.Nel 2008 è nominato procuratore capo di Reggio Calabria, dove assesta numerosi colpi alla ‘ndrangheta. In concomitanza arrivano una serie di atti intimidatori. Il più clamoroso: il ritrovamento di un bazooka, indirizzato proprio a Pignatone, di fronte alla sede della Procura di Reggio nell’ottobre 2010. Nel febbraio del 2012, il Consiglio Superiore della Magistratura, all’unanimità lo nomina Procuratore capo di Roma.
Giugno 2012 – Premio Losardo a Pignatone – La decima edizione del premio intitolato a Giovanni Losardo, assessore del comune di Cetraro ucciso dalla mafia nel 1980, e’ stato consegnato a personalita’ che si sono distinte nell’impegno antimafia e per la legalita’. Sono stati premiati il criminologo francese Alain Bauer, Manuela Iati’, Natalia Augias, Guido Ruotolo, don Giacomo Panizza ed il
GIUSEPPE PIGNATONE
Da quando si è messo a combattere la ’ndrangheta centinaia di malavitosi sono finiti in carcere, sono state sequestrate tonnellate di cocaina e si è scoperchiata la pentolaccia degli affari loschi tra l’imprenditoria del Nord e il malaffare del Sud: il conto dei beni confiscati alla mafia calabrese è stellare. Le cosche, per ringraziarlo, a inizio ottobre gli hanno fatto trovare vicino all’ufficio una “sorpresa”: un bazooka. Traduzione del messaggio: «Ti colpiamo quando vogliamo». Giuseppe Pignatone, sessantuno anni, è il Procuratore capo di Reggio Calabria. Quando il conduttore televisivo Fabio Fazio gli ha chiesto come si convive con la paura, lui ha replicato candidamente: «Non è né facile, né piacevole». Lo incontro in un hotel romano, in una saletta accerchiata dagli uomini della scorta. Siamo blindati. Siciliano, parla con cadenza mediterranea e quando non vuole sbilanciarsi su un argomento alza gli occhi al cielo e tormenta la grande fede che porta all’anulare sinistro. Il processo breve? «Non mi faccia dire… la mia situazione è già abbastanza difficile». Se gli ricordi che la cattura dell’ultimo padrino, Bernardo Provenzano, è merito suo, lui si affretta a precisare che in quell’aprile 2006, a Palermo, al suo fianco c’erano anche il pm Michele Prestipino e il superpoliziotto Renato Cortese. Ora Cortese è a capo della Squadra Mobile reggina e Prestipino è Procuratore aggiunto dell’Antimafia nella stessa città. In pratica, contro la ’ndrangheta, si è ricostituito il pacchetto di mischia che ingabbiò Provenzano. Ipotizzo: lo Stato ha mandato la sua squadra migliore sul fronte calabrese? Pignatone sorride: «No, è stato solo un caso». Non ama i riflettori. Conclude un botta e risposta off the record sul rischio da parte dei pm di eccedere nell’uso del concorso esterno in associazione mafiosa, in modo lapidario: le indagini non si fanno per far scrivere un articolo di giornale. Ma poi sa che è importante parlare di ’ndrangheta. Per coinvolgere tutti gli italiani. «Una mafia è tale se oltre all’organizzazione militare ha collusioni con la cosiddetta società civile. E quindi la repressione poliziesca serve, ma non basta. Si deve impedire la collusione e colpire la “zona grigia”». Come? «Coinvolgendo la politica, l’informazione… tutti». Sulla ’ndrangheta a differenza che sulla Camorra e su Cosa Nostra, la letteratura è scarsa, il cinema si è esercitato poco e la fiction è inesistente. Anche il mondo della cultura e dello spettacolo si dovrebbe occupare di più di ’ndrangheta? «Parlare di mafia è sempre essenziale». Il premier Berlusconi ha criticato prodotti televisivi come La Piovra e Il Capo dei capi. «Si possono fare valutazioni caso per caso. Ma se l’opinione pubblica è messa al corrente di un problema, anche attraverso un film, le istituzioni poi sono più attive e vigili. L’importante è evitare sia il silenzio sia le beatificazioni. Ricordiamoci la “strategia della sommersione di Provenzano”». Ce la spieghi. «Sparire dai media per minimizzare i rischi di reazione da parte dello Stato e massimizzare i profitti criminali». Lei ha raccontato il disagio di quando è arrivato a Reggio Calabria e si è accorto che lì non c’è né una sede Rai né un ufficio dell’agenzia Ansa. «Non ci sono nemmeno i corrispondenti delle principali testate nazionali. Eppure è noto a tutti da anni che la ’ndrangheta è la mafia più potente d’Italia. Malgrado ciò siamo in un cono d’ombra informativo». Ha ipotizzato un perché? «Io non voglio fare polemiche. Ma è possibile che tutto il Paese sia concentrato su Avetrana e noi non riusciamo a far arrivare su un Tg il sequestro di 500 kg di cocaina pura?». Ad Avetrana è morta una ragazza in circostanze misteriose. «Certo. Ma se noi sequestriamo 500 kg di cocaina a Gioia Tauro, vuol dire che in quel porto ne passano tonnellate e tonnellate. Una riflessione pubblica su questo fenomeno andrebbe fatta. O no?». Ad Annozero, Michele Santoro ha invitato tutti i giornalisti calabresi minacciati dalle cosche. «Le continue intimidazioni ai cronisti sono gravissime. Ma sono anche la dimostrazione del fatto che la ’ndrangheta considera l’esposizione mediatica un pericolo». La ’ndrangheta considera un pericolo anche lei. Il bazooka… «Sul bazooka sta indagando la procura di Catanzaro». Si è fatto un’idea del perché i clan calabresi da qualche anno siano usciti così allo scoperto? L’omicidio Fortugno, la strage di Duisburg, l’attentato al Tribunale… «L’azione repressiva dello Stato e il risveglio della società civile hanno portato tensione tra le cosche. Ora c’è anche una novità». I tre pentiti Lo Giudice, Moio e Villani? «Esatto. Abbiamo appena cominciato gli interrogatori. I riscontri sono buoni». C’è chi dice: si sono pentiti per convenienza. «A me non interessa il motivo del pentimento. L’importante è che non inquinino le indagini e che dicano la verità». Sbaglio o potrebbero essere importanti anche le rivelazioni del commercialista Giovanni Zumbo? «Al momento dell’arresto Zumbo ha detto che se parla lui a Reggio Calabria crolla tutto. Per ora si è avvalso della facoltà di non rispondere». Ci sono intercettazioni in cui si sente Zumbo che informa i capi clan sulle indagini in corso. «Ascoltarle è stato deprimente». Perché significa che c’è qualche talpa nelle istituzioni? «Sì. La nostra preoccupazione immediata è stata di capire se le indagini dell’operazione Crimine erano state compromesse». Operazione Crimine… Trecento arresti. «E soprattutto una sveglia per il Nord. È l’indagine che ha scoperchiato con più evidenza la presenza della ’ndrangheta in Lombardia». È vero che alcune grandi aziende mettono in bilancio il pizzo, come investimento per la sicurezza dei cantieri? «È stato intercettato un funzionario di una grandissima impresa che lasciava intendere di aver versato il 3% del totale di un appalto ai clan». Qual è il primo cedimento di un cittadino del Nord Italia alle cosche calabresi? «Vedere e non parlare. Pagare il pizzo». Sono gli stessi cedimenti di un cittadino del meridione? «Sì, ma onestamente penso che sia più comprensibile la rassegnazione di chi vive in un paesino del Sud dove il controllo delle cosche è asfissiante. La ’ndrangheta ha un’incredibile incidenza sulla popolazione». Lei cita spesso il dato di Rosarno: 500 affiliati su 15.000 abitanti. Come fanno il vigile urbano, il maestro delle elementari, il parroco… a resistere? «Ci sono moltissime esperienze positive. Cooperative, scuole, gruppi organizzati di solidarietà…». Qualche esempio? «Non vorrei creare bersagli». È vero che nella ’ndrangheta viene deciso tutto tra Reggio Calabria e provincia? «Sì. E chi reclama autonomia, come ha provato a fare Carmelo Novella in Lombardia, viene fatto tacere». Si è sempre detto: la malavita calabrese non ha una struttura come Cosa Nostra, non ha un vertice… «Ora sappiamo che non è così. L’operazione Crimine ha svelato l’esistenza di una struttura unitaria con un organismo di vertice». E chi è il boss? «È stato arrestato Domenico Oppedisano, un ottantenne a cui i capi clan hanno attribuito l’incarico di capo di questo organismo. Ma non è certo il capo dei capi». Non è lui a comandare? «Non credo. Come nelle grandi aziende, il presidente spesso è solo espressione di una mediazione tra gli azionisti». In questo caso, espressione dei clan. «Durante il matrimonio tra Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro, figli di boss, si sono decise le nuove cariche della cupola ’ndranghetista: Oppedisano, del mandamento tirrenico, è stato nominato capocrimine; Antonino Latella di Reggio è diventato caposocietà, cioè numero due; Bruno Gioffré del mandamento jonico ha preso il ruolo di mastro generale». Una spartizione “democratica”. «Durante l’audizione in Commissione Antimafia, il presidente Pisanu ha commentato: “Sembra il manuale Cencelli”». E cioè il sistema di spartizione dei ministeri tra le correnti democristiane. «L’organigramma poi è stato ratificato al santuario di Polsi, durante le celebrazioni per la festa della Madonna». Religione e crimine. «È una cultura impastata di religiosità male intesa. Ricorda i santini di Provenzano? Comunque del matrimonio e della ratifica abbiamo filmati e intercettazioni». Intercettazioni. Che cosa ne pensa della nuova legge? «L’ultima versione, fortunatamente stoppata, era involontariamente peggio della penultima». Governo e parlamento vi ascoltano per capire come procedere? «Abbastanza. Io e il procuratore Antimafia Grasso recentemente abbiamo manifestato le nostre perplessità. Dopodiché la tutela della privacy è un’esigenza reale: molti magistrati, poliziotti e giornalisti si dovrebbero fare un esame di coscienza». Sui sequestri dei beni mafiosi si sono fatti passi avanti? «Sì. Ci sono stati due decreti importantissimi. Lo stesso ministro Alfano ha ammesso di essersi ispirato al cosiddetto pacchetto Amato. E comunque sono stati provvedimenti approvati all’unanimità». Antimafia bipartisan. Lo è pure la mafia? «Direi di sì. Da quando sono in magistratura ho visto la malavita appoggiare e appoggiarsi a chiunque gli portasse una convenienza». Lei quando è entrato in magistratura? «All’inizio degli anni Settanta». Il primo incarico? «Pretore a Caltanissetta». Ricorda i primi casi? «Mi occupavo soprattutto di costruzioni abusive, truffe e ricettazione. Allora il pretore monocratico aveva sulle sue spalle l’intero processo. Emozioni forti». Caltanissetta è anche la città dove è nato. «Sono nato lì. Ma poi ci siamo trasferiti a Palermo quando ero molto piccolo». Che studi ha fatto? «Il liceo Garibaldi. E poi Giurisprudenza». Ha mai fatto qualche altro lavoro? «Il ricercatore all’Università, prima del concorso in magistratura. Dopo l’anno presso la Pretura di Caltanissetta, nel 1974, sono rientrato a Palermo, dove vivevano mia moglie e la mia famiglia. In Procura». Di che cosa si è occupato a Palermo? «Soprattutto di reati di tipo economico e poi ho seguito i processi per i cosiddetti omicidi politici: quello di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Michele Reina, che portarono alla condanna di Totò Riina e della cosiddetta “commissione di Cosa Nostra”». È vero che si deve a lei l’unico democristiano condannato per mafia? «Si riferisce a Franz Gorgone? Se parliamo di sentenze definitive, sì». Ha contribuito anche a portare in tribunale Massimo Ciancimino. «Non si illuda che le parli di un processo in corso». Si sarà pur fatto un’idea sulla trattativa. «Non parlo dei processi degli altri». Parliamo dei suoi. Lei ha fatto condannare Totò Cuffaro per favoreggiamento. «È storia». Già, ma i “caselliani” della Procura di Palermo avrebbero preferito che Cuffaro fosse perseguito per concorso esterno in associazione mafiosa. Ha ricevuto molte critiche. «Una vicenda di cui si è discusso fin troppo». È vero che questa vicenda comincia nel 2003, quando lei arrivò al fianco di Piero Grasso come Procuratore aggiunto dell’Antimafia? «Che fa, insiste?». Sì. In quello stesso anno, lei svelò l’identità della talpa/spia della Procura. Era il maresciallo Giuseppe Ciuro. «Non voglio parlare delle polemiche interne alla Procura di Palermo. Io ora sto a Reggio Calabria». Ultra-scortato. Che cosa le pesa di più della sua vita blindata? «La lontananza dalla famiglia». A cena col nemico? «Con i miei nemici non è proprio il caso di andare a cena». Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? «Restare alla Procura di Palermo a metà anni Ottanta. Ebbi la possibilità di andarmene: non avrei vissuto in prima linea tutto quello che è successo in seguito». L’errore più grande che ha fatto? «Ne ho fatti davvero troppi». Che cosa guarda in tv? «Quello che vuole mia moglie. È largamente in credito con me». Sa qual è l’articolo 139 della Costituzione? «Quello che vieta la revisione della forma repubblicana». I confini dell’Afghanistan? «Certamente il Pakistan. Gli altri non li so». Sa quanto costa un litro di latte? «L’ultimo che ho comprato settanta centesimi». Ai clan mafiosi quanto costa comprare un voto? «Il mio non ha prezzo». La canzone preferita? «Vecchio frac di Domenico Modugno». Il libro? «Le operette morali di Giacomo Leopardi. Quelle col Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere». Anche lei, come il “venditore” leopardiano, non rivivrebbe volentieri l’ultimo anno che ha vissuto? «…». Il film? «Non sono un grande appassionato di cinema». Quand’è l’ultima volta che ci è andato? «Più di un anno fa. Problemi di sicurezza… Comunque la mia pellicola preferita è Un americano tranquillo». Si sente un italiano tranquillo? «Sono un italiano normale».
di Vittorio Zincone 7.11.2010
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