Prestipino – intervista

Di Vittorio Zincone

Michele Prestipino: “Altro che infiltrazione. La ‘ndrangheta ormai è radicata al Nord” – Intervista al procuratore aggiunto dell’Antimafia di Reggio Calabria
  I quattro uomini della scorta non riescono a trattenere un sorriso mentre illustrano il percorso a ostacoli: «Dotto’, non è uno scherzo». Per raggiungere l’ufficio di Michele Prestipino, procuratore aggiunto dell’Antimafia di Reggio Calabria, bisogna attraversare due bagni. L’edificio è un incubo di sgarrupatezza. Incontro Prestipino nella sua stanza. Appeso alle pareti c’è un bel pezzo della lotta alla malavita dell’ultimo decennio. Ecco la sua foto con Piero Grasso, ora capo supremo dell’Antimafia, e con Renato Cortese, capo della mobile reggina: «Lì siamo a Marsiglia. Quando abbiamo prelevato il campione del dna di Provenzano. E in quell’altra sono con i miei collaboratori palermitani: stavamo brindando alla cattura dello stesso boss».
Ecco uno scatto a tavola con Giuseppe Pignatone, con altri pm e con qualche carabiniere: «Avevamo appena concluso il processo a Totò Cuffaro».
E il tovagliolo incorniciato? «È un cimelio. Me lo hanno regalato i militari della Guardia di Finanza. Viene da un ristorante romano sequestrato in un’indagine di ’ndrangheta».
Prestipino, 53 anni, scandisce ogni parola con un lieve accento siculo-romano. Ogni tanto blocca le risposte per digitare un sms.
Ha un Leitmotiv, che recita prima di ogni racconto: catture e processi sono frutto di un lavoro di gruppo. Niente trionfalismi personali: «Provenzano non l’ho preso io, lo ha preso lo Stato».
Sarà. Ma da quando Pignatone, il Capo della Procura, e Prestipino si sono trasferiti da Palermo a Reggio Calabria la ’ndrangheta ha cominciato a subire bastonate durissime: arresti di massa, sequestri, confische.
L’anno scorso con l’Operazione Crimine, la Dda reggina, in collaborazione con quella milanese, ha pure incrinato il potere delle cosche in Lombardia.
Pochi giorni fa l’Operazione Minotauro ha inchiodato la rete ’ndranghetista piemontese: 150 arresti e molti politici coinvolti. Le infiltrazioni mafiose nel Nord sono sempre più preoccupanti.
«Vogliamo dirlo una volta per tutte? Parlare di infiltrazioni è riduttivo. L’infiltrazione sembra un fenomeno temporaneo».
E invece?
«In Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Liguria le cellule criminali ’ndranghetiste si sono stabilizzate sul territorio: ci sono proprio le locali».
Che cosa sono «le locali»?
«Strutture organizzative con almeno 49 affiliati. Nella riunione dei boss lombardi filmata dai carabinieri a Paderno Dugnano, che si svolse nel centro intitolato a Falcone e Borsellino, c’erano 25 capi di locali».
Gli amministratori lombardi non amano ricordare questa emergenza.
«Non è vero per tutti. L’importante è non giocare con le parole ed evitare le strumentalizzazioni».
Formigoni si è imbufalito quando Vendola gli ha ricordato che le Asl lombarde hanno avuto guai con la ’ndrangheta.
«Guardi, sono appena stato a Lodi, dove la giunta ha creato una commissione d’indagine sulla presenza della criminalità organizzata. Il rischio più grande è che la ’ndrangheta riproponga al Nord tutto il suo modello sociale: il controllo del territorio, il circuito di relazioni…».
Ma è vero che tutte le decisioni vengono prese ancora a Reggio Calabria?
«C’è un sistema di comando fluido e sofisticato che prevede l’intervento di Reggio Calabria per le decisioni strategiche. Stiamo studiando il meccanismo di governo della periferia. Le indagini servono anche a capire e far capire di quale fenomeno stiamo parlando».
Qual è la cosa principale da cui cominciare parlando della ’ndrangheta?
«La densità criminale in Calabria: la quantità di affiliati e simpatizzanti rispetto al totale della cittadinanza raggiunge spesso percentuali a due cifre».
Chi è l’ultimo grande boss latitante che avete acchiappato?
«Giovanni Tegano».
Sbaglio o per le strade di Reggio Calabria i cittadini non hanno festeggiato un granché? Di fronte alla Questura si sono presentate centinaia di persone per protestare.
«Erano i parenti. Molti, ma non centinaia. Un’altra cosa da capire dei clan calabresi è che i capostipiti dei “casati di ’ndrangheta” spesso hanno generato decine di figli. Non esagero. Nino Lo Giudice, boss ora pentito, ha 15 tra fratelli e sorelle».
Torniamo al non-festeggiamento per la cattura del boss.
«È vero, i cittadini hanno vissuto l’arresto da spettatori. Qui la gente troppo spesso chiede allo Stato un intervento, ma non si sente parte di quello stesso Stato. Due giorni fa c’è stata la festa dei Carabinieri con sfilate e fanfare. Be’, sui balconi che si affacciavano sul piazzale della parata non si è visto nessuno. Questo dà la misura del distacco».
E anche del vostro isolamento?
«È un segno di difficoltà. Da una parte c’è una struttura ferrea e unitaria, dall’altra ci sono tantissime persone perbene che non riescono a farsi sentire. Non riescono a fare rete».
Come nella Sicilia pre-1992. Ma poi…
«Lì le stragi mafiose hanno mosso le coscienze».
Hanno creato un mito fondativo. In Campania, contro i Casalesi, il mito fondativo è “Gomorra”, il romanzo di Roberto Saviano. In Calabria…
«A me piacerebbe vedere il riscatto di un territorio senza bisogno di miti. Anzi, sono convinto che esaltare un manipolo di eroi sia sbagliato culturalmente e dannoso per il contrasto alla criminalità».
Brecht: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi».
«Appunto. Le consiglio la lettura del libro di Franco Cassano, L’umiltà del male. Si parte da una rilettura della Leggenda del Grande Inquisitore presente nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij».
E dove si arriva?
«Alle difficoltà del bene, rispetto al male. Bisogna diffidare dai grandi inquisitori e dai grandi imbonitori che trasformano i cittadini in fanciulli. E i cittadini devono smettere di affidare ad altri la propria libertà e la propria dignità. Alla lotta contro la mafia servono poliziotti o magistrati che facciano al meglio il loro lavoro, ma serve soprattutto il protagonismo dei cittadini lì dove la mafia comanda».
Lei quando è entrato in magistratura?
«Nel 1984. Sono nato a Roma da genitori siciliani. Mio padre insegnava Filosofia teoretica a Macerata. Io avrei voluto studiare filosofia, ma poi mi iscrissi a Giurisprudenza».
Era all’Università alla fine degli anni Settanta. Ha fatto politica in qualche gruppetto?
«Ma le pare che le dico una cosa simile? Ricorda Pertini? I magistrati devono essere indipendenti e anche apparirlo».
Molti magistrati dichiarano le loro passioni politiche e militano nei partiti.
«È una scelta che non critico, ma non la condivido».
Torniamo al suo ingresso in magistratura.
«Primo incarico nella Pretura di Avezzano. Avevo studiato per anni diritto civile e invece dopo un po’ mi trovai a occuparmi soprattutto di penale».
Il primo processo?
«Non si scorda mai. Un furtarello. Dopo sette anni ad Avezzano, andai all’Aquila come magistrato di sorveglianza. Un’esperienza forte nelle carceri».
Quanto ci è rimasto?
«Tre anni. Lì ho capito veramente che cosa è la privazione della libertà e come la detenzione cambia le persone».
A Palermo quando ci è arrivato?
«Ho chiesto io il trasferimento in quella Procura nel 1995. Diciamo che non c’era la fila».
Il suo successo più grande è stato la cattura di Provenzano.
«Provenzano è stato catturato grazie al lavoro di moltissime persone».
Un lavoro durato anni.
«Un lavoro duro, silenzioso, rigoroso. Stando attenti ai tranelli del boss».
Quali tranelli?
«Provenzano era un grande illusionista. Faceva credere a tutto il mondo di essere sempre in un posto in cui non era».
Alla fine lo avete beccato seguendo un pacco di biancheria. Provenzano nei pizzini faceva continuo riferimento alla protezione ricevuta dal suo “Adorato Gesù Cristo”.
«Non si è ancora capito se fosse una singola persona o il nome con cui indicava il suo sistema di protezione».
Anche nelle cosche calabresi i riferimenti religiosi sono molto frequenti: riti, benedizioni…
«In Sicilia alcuni killer mafiosi si facevano il segno della croce prima di andare ad ammazzare qualcuno. E nel covo di un boss della ’ndrangheta abbiamo trovato la scritta: “Dio, proteggi questo bunker”».
Che senso ha questa liaison tra crimine e religiosità?
«A volte i riferimenti religiosi servono per lanciare segnali verso l’esterno. Più spesso si deve pensare che nella cultura meridionale la religione è spesso superstizione».
A Palermo lei ha fatto arrestare Massimo Ciancimino. E poi anche la talpa mafiosa Ciuro…
«Ciuro era nello stesso processo che ha portato alla condanna di Totò Cuffaro».
I più intransigenti la criticarono perché con Cuffaro chiese la condanna per favoreggiamento aggravato e non per concorso esterno in associazione mafiosa.
«La Corte d’Appello e la Cassazione hanno confermato la nostra linea».
A cena col nemico?
«Non ceno coi nemici. Quello del cibo è un momento importante».
Ha un clan di amici?
«Ho pochi amici. Solidi».
Che cosa guarda in tv?
«Non guardo la tv».
Per snobberia?
«No. Preferisco la lettura».
Il libro preferito?
«Scelta difficile: diciamo Le affinità elettive di Goethe».
La canzone?
«Amo Franco Battiato. Tutto».
Il film?
«Tra gli ultimi che ho visto Il concerto di Radu Mihaileanu. Ironia, musica, storie».
Quando nei film o nelle fiction si rappresenta la malavita scoppia sempre qualche polemica. “Il capo dei capi”…
«…a me è piaciuto».
C’è chi dice che quella fiction esalti troppo il boss.
«Solo chi è predisposto riesce a mitizzare un criminale. Considero più grave fare una fiction e spacciarla per documentario. O scrivere un romanzo e farlo passare per un saggio. Lo sa quale è stato uno spettacolo che ha spiegato al pubblico la natura di Cosa Nostra?».
Quale?
«I sette minuti a Sanremo di Ficarra e Picone sull’omicidio di padre Puglisi. Lo hanno visto 12 milioni di persone. Prima tutti a ridere. Poi è arrivato il pugno nello stomaco collettivo».

Calabria Notizie 17 giugno 2011