Nel 1983 resta ferito nell’attentato a Chinnici

Nel 1983 resta ferito nell’attentato a Chinnici. E il 23 maggio ’92 scampa a quello in autostrada. Venticinque anni dopo, Giovanni Paparcuri ricorda la stagione delle Strage

Nella vita di Giovanni i numeri hanno sempre avuto una certa importanza. Ogni tanto ne parla con Giuseppe, un altro superstite delle guerre di Palermo. Giovanni è saltato in aria nove anni dopo di lui, si è sposato nove anni dopo di lui, è nato nove anni dopo di lui nello stesso mese e nello stesso giorno. Il 14 marzo, nel 1956 uno e nel 1947 l’altro. Le loro mogli sono nate invece lo stesso giorno, lo stesso mese e anche lo stesso anno. «Quando penso a queste corrispondenze del tempo mi manca il respiro» dice Giovanni mentre apre la porta blindata di quello che trentacinque anni fa era il bunker del pool antimafia, l’ufficio istruzione del Tribunale dove si è ideato e costruito il maxi processo a Cosa Nostra.

Giovanni Paparcuri era l’autista di Falcone nei primi anni ‘80 e Giuseppe Costanza ha preso il suo posto il 29 luglio 1983, quando Giovanni è rimasto ferito nell’attentato contro il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Poi Giuseppe è riuscito a non morire il 23 maggio 1992, nell’inferno dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi arriva sino a Palermo. Convergenze e coincidenze, destini che si inseguono. Come raccontare i morti e i vivi di una città mattatoio, se non partendo dai numeri che ossessionano Giovanni Paparcuri ancora dopo tanto tempo e dopo tante stragi?

Giovanni è ormai in pensione ma, in questa primavera che si prepara a ricordare il venticinquesimo anniversario della carica d’esplosivo che ha fatto tremare l’Italia, ogni mattina apre ancora quella porta blindata. Dietro ci sono le stanze di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, luoghi che – come è scritto su una targa d’ottone – sono diventati un piccolo museo visitato dai palermitani e da studenti provenienti da ogni regione. Tutto è rimasto come allora. La pesante cassaforte di ferro sotto la finestra della stanza di Falcone, il fascicolo su Filippo Marchese detto Milinciana nell’armadio di Borsellino, le papere di legno sulla scrivania di Falcone, il rapporto sul covo di via Pecori Giraldi in uno schedario di Borsellino, alcuni faldoni del maxi uno, del bis, del ter e del quater nel piccolo archivio che si affaccia nel corridoio.

Giovanni Paparcuri inizia dal principio: «Ero in ferrovia ma volevo fare altro, così ho presentato domanda per diventare autista giudiziario, guadagnavo più di 600 mila lire e il mio primo stipendo in tribunale era esattamente la metà. Dopo un primo incarico in Corte di Appello, per punizione un giorno mi hanno spedito dove non voleva andare nessuno: assegnato al giudice Falcone». Il giudice è famoso, ha già fatto capire a Palermo che per combattere i mafiosi non si possono più fare le inchieste e i processi senza riscontri e senza prove. Le indagini sugli Spatola e sugli Inzerillo, la scoperta dell’eroina che parte per l’America e soldi che tornano nelle banche siciliane, la morfina base che i mafiosi vanno a prendere nel Sudest asiatico.

Nell’estate del 1983 Falcone è in Thailandia per interrogatore Koh Bak Kin, un cinese di Singapore che ha deciso di “cantare”. Il giudice è dall’altra parte del mondo e l’autista Paparcuri, da qualche giorno, ha il compito di prelevare a casa il consigliere Chinnici. Anche la mattina del 29 luglio. Un’autobomba. Muore Chinnici, muore il maresciallo Mario Trapassi, muore l’appuntato Salvatore Bartolotta, muore il portiere dello stabile di via Pipitone, Federico Stefano Li Sacchi. Un tuffo al cuore: «E io resto vivo, dopo il boato prima vedo una luce bianca, poi una luce rossa e poi una luce nera, sento come un benessere che mi solleva in alto, sempre più in alto. E, alla fine, mi risveglio in ospedale». Giovanni ha appeso su una parete del bunker la foto dell’Alfetta blindata devastata dall’autobomba. «Vedi quelle due grandi chiazze sull’asfalto: sono il mio sangue».

Torna in servizio un anno e mezzo dopo. Due dita della mano destra riattaccate, schegge conficcate nelle tempie, il gomito disintegrato, timpani perforati, un fischio che non l’avrebbe mai più abbandonato. Ha finito con la guida e con le blindate. Ma ci prova lo stesso, all’ospedale militare gli dicono però che non è “idoneo”. L’amministrazione giudiziaria lo declassa a commess e lo destina all’ufficio “procedimenti contro ignoti”, un buco.

A Palermo arrivano i primi computer dal ministero di Grazia e Giustizia, sono ancora tutti accatastati in un magazzino, imballati nei cartoni. Nessuno li usa perché nessuno li sa usare. Giovanni Paparcuri ne prende uno e comincia a studiarlo, dopo un paio di settimane – grazie a un Olivetti – riesce a smaltire con gran velocità le pratiche accumulate. Falcone e Borsellino lo convocano e gli chiedono: «Ma come hai fatto? Saresti in grado di informatizzare anche i nostri atti del maxi processo?». Per Giovanni Paparcuri comincia un’altra esistenza. Tutti i segreti del bunker sono custoditi nella sua stanza. Anche la password del computer di Giovanni Falcone: “Avanti”. È la stessa del data-bank che il giudice avrà sempre nelle mani qualche anno dopo.

È il 1985. E Giovanni Paparcuri diventa un personaggio chiave in quel pool che farà storia. C’è Falcone, c’è Borsellino, c’è il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che ha sostituito Rocco Chinnici, ci sono i giudici Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. E c’è lui.  Palermo intanto ingoia altri uomini. Come Ninni Cassarà, il poliziotto che più di altri è vicino a Falcone. «Veniva qui quasi ogni giorno, portava le ultime notizie dalla sua sezione investigativa della squadra mobile…». Ricordi che si rincorrono. Anche i più lontani. Nel piccolo museo dentro il tribunale di Palermo c’è la scrivania dove lavorava Falcone, quella che era sempre coperta da montagne di assegni attraverso i quali il giudice ricostruiva le alleanze fra le “famiglie”. Giovanni l’ha ritrovata fra vecchi arredi ammucchiati nell’ala del registro generale civile. «Ce n’erano due o tre tutte uguali, l’ho riconosciuta da questo segno». Una rigatura sul legno chiaro, provocata dalle manette di un imputato. Gaetano Fidanzati, un mafioso dell’Acquasanta. «Era nella stanza di Falcone quando il giudice l’ha provocato. Gli ha detto: “ho intuito che lei sarebbe intenzionato a collaborare con noi”,  quello è diventato pazzo e ha cominciato a picchiare le mani sulla scrivania e i ferri delle manette hanno intaccato il legno».

La seconda stanza a destra, quella di Falcone, una macchina per scrivere, una relazione sul ruolo del giudice nella lotta alla mafia («Questa l’ha corretta sua moglie Francesca. La dottoressa all’ora di pranzo scendeva nel bunker quasi sempre»), la terza stanza – sempre a destra – quella di Paolo Borsellino. Sul muro, appeso a un chiodo, un impermeabile blu. Giovanni lo mostra e spiega: «C’è una cerniera sul bavero. Qui si attaccava la blindatura. Sì, era un impermeabile blindato che il giudice Borsellino non ha mai usato per due ragioni. La prima è che era troppo lungo per lui, l’altra – più importante – è che quando i poliziotti della sua scorta hanno provato la resistenza esplodendogli contro alcuni colpi di pistola, la blindatura è andata in frantumi». Giovanni Paparcuri ritorna sulla sua Palermo, sui giudici e sui poliziotti che non ci sono più. Su Giuseppe, sulle bombe e sui numeri che hanno accompagnato le loro vite.  – La Repubblica di Attilio Bolzoni  maggio 2017