Provammo i telecomandi per l’autobomba di Via D’Amelio

 

 

Audio udienze ai processsi – GIOVAN BATTISTA FERRANTE – pentito – Borsellino Bis, Appello Borsellino Bis, Borsellino Ter, Prinzivalli, Omicidio Lima, Omicidi Cassará/Montana, Orsa Maggiore, Fallito attentato Addaura, Corrado Carnevale, Omicidio Pio La Torre, Capaci, Capaci Bis

 

 Ferrante: “Provammo noi i telecomandi per l’attentato di Borsellino”

Al quater il racconto del pentito, ascoltato assieme a Sinacori, Drago e Grigoli

“Facemmo delle simulazioni per provare i telecomandi che dovevano azionare l’autobomba circa 15 giorni prima della strage di via D’Amelio. Li provammo vicino viale Regione Siciliana. Allora non sapevo ancora che l’obiettivo era il giudice Borsellino”. Ha ribadito il proprio ruolo nell’eccidio di via D’Amelio il collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante, ex uomo d’onore di San Lorenzo, fortemente legato a Salvatore Biondino, ascoltato quest’oggi presso l’aula bunker di Rebibbia nell’ambito del processo Borsellino quater.
Ascoltato in qualità di teste assistito, dopo che la Corte d’Assise di Caltanissetta ha acquisito i vari verbali di deposizione ed interrogatori, il pentito ha parlato anche del compito che ha svolto nel giorno dell’attentato ovvero quello di telefonare a un numero di cellulare per segnalare l’arrivo in via D’Amelio del corteo delle auto di scorta del giudice Borsellino. “Eravamo io, Salvatore Biondino e Giuseppe Graviano – ha detto in aula – quest’ultimo mi lasciò un bigliettino con scritto un numero di telefono. Il giorno della strage io mi trovavo a pattugliare via Belgio e dovevo avvisare del passaggio delle auto. Diversi anni dopo, quando eravamo entrambi arrestati, Giuseppe Graviano mi disse che se mi chiedevano della telefonata fatta in via D’Amelio dovevo dire che avevo parlato con una donna. Ma la voce all’altro lato del telefono era quella di un uomo”.

Insomma anche i capimafia di Brancaccio non volevano in alcun modo che si venisse a sapere del proprio coinvolgimento nella strage. Ferrante ha ribadito come in quell’incontro nei sotterranei del tribunale di Palermo i Graviano fossero “sicuri di sé al punto di dire che ‘tra un paio d’anni andremo tutti a casa e che le cose sarebbero cambiate'”.

Rispondendo alle domande di pm ed avvocati l’ex boss di San Lorenzo non è riuscito a chiarire i motivi che lo portarono a fare ben quattro telefonate a quel numero che gli diede il capomafia di Brancaccio (dalle indagini è emerso che apparteneva ad un altro boss, Fifetto Cannella ndr), una dopo la mezzanotte (“probabilmente per segnarmi il numero sul cellulare”, ha detto Ferrante), due al mattino (alle 7.36 ed alle 9.46), e l’ultima al pomeriggio alle 16.52, dalla durata di sette secondi. Fu proprio quest’ultima, con ogni probabilità, la telefonata fatta per avvisare del passaggio della vettura del dottor Borsellino. Altro fatto “anomalo” è anche l’utilizzo di una cabina telefonica, sempre in via Belgio, per compiere un’ulteriore telefonata. “Non ero sicuro di aver trasmesso l’ordine – ha raccontato Ferrante – e così chiamai dalla cabina”.

La pista sbagliata su via D’Amelio
Parlando delle indagini sulla strage il pentito ha aggiunto: “Parlammo con Salvatore Biondo e Salvatore Biondino delle stragi e dell’arresto di questo Pietro Scotto. Si commentò che si stava prendendo una direzione sbagliata nelle indagini sulla 126. Si parlava di questo collaboratore che raccontava cavolate sulla 126. A me dissero che erano presenti dei fusti di calce con dentro l’esplosivo. Quando parlai di queste cose all’autorità giudiziaria? Lo dissi da subito ma la Palma mi disse che la pista della 126 era corretta”.
Quindi ha riferito di un altro dialogo con Filippo Graviano: “Con lui mi trovavo al carcere dell’Asinara. Si parlava di Salvatore Vitale. Mi disse che non c’entrava niente con la fase deliberativa della strage. Poi seppi che abitava proprio dove stava Borsellino. Così compresi che Filippo Graviano sapeva della strage”.
Un altro particolare importante, raccontato oggi in dibattimento, riguarda poi il riferimento alla possibile caduta di un muro nei pressi di via D’Amelio a causa dello scoppio. “Biondino mi disse che con lo scoppio questo sarebbe potuto cadere addosso a chi avrebbe premuto il telecomando”. Del muro aveva riferito anche il collaboratore di giustizia Tranchina parlando di un’affermazione di Giuseppe Graviano durante un sopralluogo in via D’Amelio: “Graviano disse ‘Va bene, mi accomodo nel giardino'” che si trova proprio coperto da un muretto nelle vicinanze del luogo della strage.

Le dichiarazioni di Sinacori
E’ stata quindi la volta dell’audizione di Vincenzo Sinacori. L’ex boss trapanese ha ricordato in particolare una riunione a Castelvetrano in cui si deliberarono gli attentati a Falcone, Martelli e Costanzo da effettuare in continente, a Roma. “C’erano Riina, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Mariano Agate ed altri – ha detto il pentito – Fu in quel momento che Riina diede l’incarico di partire per Roma e fare questi attentati. Venne creato proprio un gruppo speciale che obbediva solo a Riina. Andammo a Roma portando armi ed esplosivo e iniziammo gli appostamenti. Parteciparono anche i napoletani. Quando capimmo che l’unico fattibile nell’immediato era l’attentato a Costanzo io tornai in Sicilia e incontrai Riina che mi disse di far rientrare tutti perché ci avrebbero pensato loro. E poi ci fu Capaci”. Sulle stragi del 1993 ha aggiunto: “C’era chi si opponeva che venissero fatte in Sicilia come Provenzano, Raffaele Ganci e Brusca. Avevano paura che il cerchio si potesse stringere troppo e così andammo in continente”.
Anche Sinacori ha parlato di Scarantino. “Tutti sapevamo che non era uomo d’onore – ha detto – Da una parte si diceva che poteva essere un bene che parlasse perché così screditava i pentiti. Ma ce ne sono stati tanti così. Per esempio c’era un certo Scamuzzo che diceva che io mi chiamavo Aladino, o poi ancora un altro di Castelvetrano, Calcara, che si autoaccusava dell’omicidio Lipari quando l’omicidio Lipari l’ho fatto io con altri”. Quindi, nel pomeriggio, sono stati sentiti Drago e Salvatore Grigoli. Entrambi utili per ricostruire le dinamiche all’interno della famiglia di Brancaccio e dare manforte alle dichiarazioni già rese dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. In particolare la testimonianza di Grigoli ha un certo peso in merito alla vicenda dei contatti tra i Graviano e Marcello Dell’Utri. Il collaboratore di giustizia ha infatti raccontato che nel periodo tra il ’93 e il ’94, il boss Nino Mangano gli ha detto “che i Graviano avevano in mano un personaggio”. Poi precisa: “All’epoca quel nome non mi diceva nulla, ma oggi mi dice qualcosa: Dell’Utri”. Ha quindi ricordato un altro episodio in cui tra i mafiosi del mandamento di Brancaccio emerse il nome di Marcello Dell’Utri. “Mi ricordo che all’epoca – ha affermato Grigoli – si parlava tra di noi di un ragazzino che giocava a calcio, tale D’Agostino. Venni a sapere che i Graviano si interessarono per farlo giocare nel Milan, e così, in quest’altra occasione, venne fuori ancora una volta il nome di Dell’Utri”. Lo stesso Dell’Utri a cui, raccontano i pentiti, “i Graviano segnalarono il giovane calciatore D’Agostino perchè andasse al Milan”.

Grigoli ha anche parlato di una serie di contatti tra mafia e Stato nel tentativo di limitare il 41 bis e per altre richieste. E le autobombe di Milano, Roma e Firenze sarebbero dovute servire a far capire allo Stato che doveva cedere. “Nino Mangano – ha detto Grigoli – mi disse che c’erano contatti con lo Stato per trattare, ma non so chi fossero gli intermediari, né chi decidesse gli obiettivi delle stragi. Sicuramente percepivo che Cosa Nostra aveva contatti con settori di vario tipo”.
Rispondendo alla domanda se avesse mai sentito parlare della Falange Armata ha detto: “Sì. Fu Francesco Giuliano a rivendicare a nome della Falange Armata le stragi. L’indicazione veniva da Giuseppe Graviano ma non so di più”.
Durante la deposizione il collaboratore di giustizia ha anche dato l’impressione di emozionarsi un istante quando ha parlato dell’omicidio Puglisi. “Ho ucciso un santo – ha detto – ricordo perfettamente l’attimo prima di sparare. Lui mi guardò sorridendo e dicendomi ‘me l’aspettavo’. Non posso mai scordarlo e chissà che anche lui ci ha messo una mano per farmi essere oggi qui a parlare. Seppi solo dopo che lo uccisi nel giorno del compleanno”.
Il processo è stato quindi rinviato a domani mattina, sempre presso l’aula bunker di Rebibbia, quando verrano sentiti i pentiti Fontana, Di Matteo e Messina.   ANTIMAFIA DUEMILA Aaron Pettinari – 27 maggio 2014 – 

Borsellino, l’uomo del telecomando e le telefonate alla madre: i buchi neri nella fase esecutiva della strage di via d’Amelio

Estratto del libro La Repubblica delle Stragi, edito da Paper First, e a cura di Salvatore Borsellino   di F. Q. | 19 LUGLIO 2018

Nel giorno del ventiseiesimo anniversario della strage di via d’Amelio pubblichiamo un estratto del libro La Repubblica delle Stragi, edito da Paper First, e a cura di Salvatore Borsellino. Il paragrafo proposto è intitolato I pezzi mancanti nella fase esecutiva della strage. “Un’opera preziosissima, a metà strada fra la memoria e lo scavo, fra gli archivi giudiziari e quelli giornalistici, per dissotterrare le verità indicibili. Una controstoria d’Italia senza inutili dietrologie né complottismi d’accatto: solo fatti documentati e raccontati, per la prima volta, con uno sguardo d’insieme che rende il quadro ancor più impressionante”, l’ha definita nella prefazione il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Il libro sarà presentato il pomeriggio del 19 luglio alle ore 18 in via d’Amelio.  Per l’occasione interverranno oltre a Salvatore Borsellino, i magistrati Roberto Scarpinato e Giovanni Spinosa, il vicedirettore del Fatto Marco Lillo, l’avvocato Fabio Repici  e il giornalista Giuseppe Lo Bianco.

I pezzi mancanti nella fase esecutiva della strage
Dopo venticinque anni di indagini e processi (fino alla sentenza del Borsellino Quater del 20 aprile 2017) sulla strage di via D’Amelio, rimangono ancora molti vuoti che impediscono di dare un volto a tutti i responsabili. Le lacune riguardano soprattutto i “mandanti esterni” all’organizzazione Cosa nostra ma anche alcune fasi esecutive della strage. E forse non è un caso che, malgrado l’apporto di importanti collaboratori di giustizia, queste fasi siano rimaste oscure. Un aspetto mai del tutto chiarito riguarda l’identità di chi azionò il telecomando che fece esplodere l’autobomba. Per la strage di Capaci, almeno nella ricostruzione processuale, il quadro fu subito chiaro grazie alla collaborazione prima di Santino Di Matteo e poi di Giovanni Brusca.
Dal luglio 1992 a oggi si sono pentiti decine di mafiosi che, in un modo o nell’altro, ebbero un ruolo nella deliberazione e nella pianificazione della strage di via D’Amelio, eppure, ancora non si è riusciti a individuare con certezza chi azionò l’ordigno.

Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Fabio Tranchina e Giovan Battista Ferrante, che hanno portato la Procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari a sostenere, ma solo in via deduttiva, che fu Giuseppe Graviano ad azionare la carica dal giardino-agrumeto che delimita via D’Amelio, non assicurano certezze. È ragionevole che gli stragisti abbiano
corso il rischio che qualche condomino potesse accorgersi degli atteggiamenti sospetti di una persona (o addirittura di più persone) che si aggirava dalla mattina nel giardino? Ancora: è ragionevole che gli attentatori si siano esposti all’onda d’urto generata dalla deflagrazione, che ha provocato danni devastanti ai palazzi circostanti?

A corroborare queste perplessità, ricorre un altro elemento: a ridosso del giardino-agrumeto era situato un palazzo di dodici piani, appena edificato dalla ditta dei fratelli Graziano. Due agenti della Criminalpol di Catania tornarono per un sopralluogo nel palazzo la mattina del 20 luglio 1992 e si imbatterono in due dei fratelli Graziano, che scoprirono
essere schedati come mafiosi. Avevano appena deciso di fermarli per identificarli formalmente quando arrivò una squadra della Criminalpol di Palermo che li sollevò dall’incarico. I due, tornati in Questura, stilarono una relazione di servizio dettagliata ma il giorno dopo ricevettero l’ordine di rientrare alla sede d’origine e il loro rapporto sparì dalla Questura di Palermo. I fratelli Graziano e le loro imprese fanno parte della storia di Cosa nostra palermitana, fino a epoca recente, per i loro legami con le famiglie Madonia e Galatolo. A intorbidare le acque sul palazzo dei Graziano si aggiunsero le dichiarazioni degli operatori delle forze dell’ordine intervenuti sul luogo, discordanti rispetto a quanto accertato dai rilievi e dalle foto allora scattate sul posto. I pubblici ministeri di Caltanissetta il 26 marzo 2012 dichiararono alla Commissione antimafia che «quella pista, che appariva concreta all’epoca, venne poi inspiegabilmente abbandonata».

Dichiarazioni inquietanti – e ancora tutte da riscontrare – sulla possibile identità della persona che utilizzò il telecomando in via D’Amelio sono state in tempi più recenti rilasciate dal pentito ’ndranghetista Nino Lo Giudice, la cui collaborazione con la giustizia si è sviluppata tra alti e bassi: secondo Lo Giudice, a premere il pulsante fu il poliziotto in congedo Giovanni Aiello, “faccia da mostro”, indicato da più fonti come presente su alcuni dei luoghi dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra.

Altra identità rimasta sconosciuta è quella delle persone che, dal garage, portarono la Fiat 126 imbottita d’esplosivo in via D’Amelio, parcheggiandola sotto casa di Rita Borsellino. Nessun collaboratore di giustizia si è dichiarato a conoscenza di alcun dettaglio. L’ultimo grande buco nero, infine, riguarda le modalità attraverso cui Cosa nostra conobbe gli spostamenti di Paolo Borsellino quella domenica. Il motivo per cui fu scelto il luogo della strage non è difficile da comprendere, vista l’assenza di protezione e addirittura di una zona rimozione davanti al palazzo di via D’Amelio 19. Nonostante gli uomini delle scorte avessero ripetutamente chiesto che venissero approntate adeguate misure di sicurezza in quel sito e nonostante il 2 giugno precedente la madre di Borsellino avesse denunciato movimenti sospetti nel giardino-agrumeto, nessuna iniziativa fu presa dalle autorità per mettere via D’Amelio in sicurezza.

Mentre la pista dell’intercettazione abusiva ha tenuto banco nei primi processi sulla strage di via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta che si sono occupati delle indagini nate dalle dichiarazioni di Spatuzza hanno portato avanti un’ipotesi totalmente diversa: Cosa nostra avrebbe studiato le abitudini del giudice e individuato quella a loro favorevole, le settimanali visite alla madre, sempre di domenica mattina. L’arrivo di Paolo Borsellino a via D’Amelio nel pomeriggio, però, fu un’anomalia rispetto alle precedenti settimane ed è davvero difficile ipotizzare che gli stragisti abbiano operato senza conoscere nulla degli accordi (stabiliti tutti per telefono) fra Paolo Borsellino e la madre.

 

Come si prepara una strage  Con specifico riferimento alla strage per cui è processo, che il collaboratore ha collocato tra la fine di luglio e l’agosto del 1983 anche grazie al ricordo che in quell’anno si era recato in Brasile per vedere il carnevale, il collaboratore ha dichiarato quanto segue. A quell’epoca svolgeva l’attività di autotrasportatore e guidava personalmente il suo camion. Aveva già commesso omicidi per conto di “cosa nostra” su incarico di Pippo Gambino anche perchè suo padre gli aveva detto di fare tutto quello che gli veniva richiesto da quest’ultimo, con il quale aveva assidua frequentazione, incontrandolo almeno due volte la settimana presso l’abitazione di Salvatore Buffa ovvero presso un magazzino nella disponibilità di Mario Troia, ubicato sotto l’abitazione del fratello, Enzo Troia, vicino all’ospedale “Cervello”. Ha riferito che il suo coinvolgimento nella strage di Via Pipitone Federico risaliva al giorno precedente all’evento- forse la sera o il pomeriggio del giorno prima – allorchè il Gambino gli disse che l’indomani mattina “avevano(mo) da fare una cosa, quindi c’era da fare”, locuzione, questa, che nel gergo di “cosa nostra” “chiaramente significa sempre affari illeciti”. Il Gambino non gli aveva detto cosa si dovesse fare, ma solo che l’indomani mattina doveva farsi trovare di buon’ora – intorno alle ore sette – in un certo posto sito “nelle vicinanze di un parcheggio che si trovava ….in via Regione Siciliana, .. all’altezza del Motel Agip, e quindi, andando … in direzione da Palermo verso Punta Raisi sul lato destro”. Riferiva di non ricordare il nome della piazza o della via, ma per consentirne l’individuazione precisava che a quel tempo nelle vicinanze c’era l’esercizio commerciale “Pavan Elettronica”; si trattava di un piazzale abbastanza ampio con un parcheggio, forse anche custodito, di camion e autocarri, che conosceva bene perché vi si era recato qualche volta per accompagnare il Pippo Gambino a qualche appuntamento con Raffaele Ganci.A specifica domanda chiariva che, conformemente alla prassi comportamentale degli uomini d’onore, non aveva chiesto al Gambino cosa si dovesse fare, anche perché questi nulla gli aveva detto al riguardo e quindi non poteva essere lui a chiedere.Recatosi all’appuntamento con la Golf GTI di colore metallizzato di cui disponeva si era incontrato con il Gambino, intorno alle ore sette del mattino e comunque “di buon mattino”, il quale gli disse che avrebbe dovuto seguirlo alla guida di un camion a bordo del quale ad un certo punto del percorso sarebbe salito Nino Madonia, raccomandandogli di fare tutto quello che quest’ultimo gli avrebbe detto.

Non ricordava se il camion fosse all’interno del “recinto, quindi del posteggio o fuori”; era certo però che le chiavi erano appese per cui dopo avere posteggiato l’autovettura aveva seguito il Gambino.
Riferiva che il Gambino si era presentato in quel posto da solo a bordo di una Renault 5 TX, di cui possedeva tre esemplari di colore diverso – tutte acquistate presso la concessionaria “Indomar” nei pressi del Motel AGIP ed intestate a persone defunte – oltre ad una Mercedes; ricordava il modello particolare perchè diverse volte aveva guidato quelle  autovetture ed era l’unica della serie che aveva il servosterzo, ma non era in grado di precisare se fosse quella verde o l’altra, forse, amaranto, mentre non ricordava il colore della terza.
Il camion era del tipo “Leoncino” ribaltabile e sul cassone posteriore vi erano dei fusti in lamiera da duecento litri che si usano per trasportare la calce e delle tavole, tipica attrezzatura per l’edilizia, già usate.
Descriveva la struttura del camion, precisando che era composto da una cabina ed un cassone ribaltabile sul quale c’era “ …un arco in ferro con la rete metallica che è chiamato, appunto, paracabina e serve proprio a salvaguardare la parte posteriore della cabina, fornita di un grosso oblò o due oblò che servono a guardare nella parte posteriore” ed attraverso i quali si “vede perfettamente cosa c’è nel cassone”.
Il Ferrante ha inoltre riferito di avere notevole dimestichezza con i camions e che pur essendo abituato a condurre automezzi ben più grossi di quello non aveva avuto alcun problema a guidare quel Leoncino.
A specifica domanda ha dichiarato di non essere in grado di precisare per quanto tempo si trattennero in quel posto, ma certamente si era trattato di pochi minuti.
Quanto all’itinerario seguito, il collaboratore ha dichiarato di poter indicare come punto di riferimento villa Sperlinga, nel senso che erano transitati nelle vicinanze di detta villa dirigendosi verso il centro della città, ma non era in grado di precisare quali strade avessero percorso, essendo quasi tutte simili; era certo però che proprio nei pressi di villa Sperlinga, si era fermato per fare salire a bordo il Madonia, il quale si era fatto trovare a piedi “all’angolo” e dopo avere scambiato qualche parola con il Gambino – colloquio che non aveva avuto la possibilità di percepire – aveva preso posto nella cabina.
Non sapeva con quale mezzo e con chi il Madonia fosse giunto in quel posto, avendolo egli trovato a piedi da solo sul marciapiede ad aspettarli. Dichiarava di non essere in grado di quantificare i minuti impiegati per raggiungere il luogo di incontro con il Madonia, riferendo tuttavia che a quell’ora non c’era traffico anche perchè si era in piena estate.
Il Ferrante ha dichiarato che allora conosceva già da tempo Nino Madonia anche perché in precedenza insieme a lui ed al fratello Salvo Madonia avevano collocato una bomba all’ippodromo sotto una scala.
Pur non essendo in grado di collocare nel tempo l’episodio criminoso, ribadiva comunque di conoscere il Nino Madonia fin da ragazzo.
Ha inoltre riferito che quella mattina l’abbigliamento del Madonia era insolito perchè indossava “dei jeans e una maglietta praticamente sporchi di calce. Era… era praticamente vestito …come un muratore”, precisando che in quelle condizioni non lo aveva mai visto “nè prima nè dopo”.
A specifica domanda non era in grado di precisare se indossasse dei pantaloni lunghi o corti, ma era certo che fossero molto consumati, sporchi e del tipo jeans; si trattava, cioè, di un tipico abbigliamento da lavoro del tutto insolito per il Madonia.(f.116,ud.26/3).
Il Madonia teneva in mano un sacchetto di plastica – “ tipo questi della spesa che si fanno nei vari supermercati” – ed appena salito sulla cabina gli aveva riferito “dove dovevano(mo) andare”; il Gambino frattanto si era allontanato e lo aveva rivisto successivamente nella zona dell’attentato, così come altre persone tra le quali Ganci Raffaele, Brusca Giovanni e Francesco Paolo Anzelmo.
Con specifico riferimento a quest’ultimo, in sede di controesame, ha precisato di averlo visto insieme a Pippo Gambino, mentre il Ganci Raffaele ricordava di averlo notato da solo; non escludeva, però, di avere visto anche quest’ultimo, una volta, con il Gambino.(f.112,ud.26/3).
Non ricordava, invece, di avere notato la presenza di Ganci Calogero.
Nel ricostruire l’itinerario seguito, il Ferrante, dopo avere precisato di non conoscere bene i nomi delle vie, perché in quella zona “sembrano tutte uguali”, ha testualmente riferito:
“… in quel punto sembrano tutte uguali, a partire, diciamo, da via Notarbartolo ad arrivare a villa Sperlinga. Cioè, non riesco a quantificare quante traverse ci sono. Comunque posso dirle che praticamente noi siamo andati in direzione da via Libertà in direzione nord, quindi, diciamo, da Monte Pellegrino in direzione nord. Seguivamo questa strada. Poi ho appreso chiaramente quando ci siamo fermati che si trattava di via Pipitone Federico, ma io, cioè, sino ad allora non sapevo come si chiamava quella strada…..Era il Madonia che praticamente mi ha indicato che strada dovevamo fare e dove praticamente dovevamo fermarci. Difatti da quando l’ho preso sino al posto dove ci siamo fermati, praticamente diciamo che era molto… molto vicino. Ricordo soltanto che il senso di marcia era quello, diciamo, a salire proprio dalla via Libertà, anche se noi non siamo andati, diciamo, in via Libertà per arrivare proprio in quel posto. Quel posto che poi, chiaramente, adesso posso… posso indicare con precisione perchè si trattava del palazzo, quindi della portineria dove poi c’è stata l’esplosione. E posso dirle con certezza che noi ci siamo fermati… praticamente c’è il portone, quindi dell’ingresso dove poi è scoppiata la bomba, una traversa che ricordo che non si poteva girare sulla destra e quindi ancora prima, praticamente, ci siamo fermati noi. Credo che in linea d’aria, diciamo, da lì a dove è successo il fatto potevano esserci, non lo so, trenta – quaranta metri, ma non… non di più.”
A specifica domanda ha quantificato in circa un chilometro la distanza percorsa dal luogo dell’incontro con il Madonia e quello dell’attentato, precisando inoltre di non avere visto inizialmente cosa contenesse quel sacchetto.
Ha inoltre riferito che durante il tragitto, prima di posteggiare il camion, il Madonia gli aveva detto che dopo “il botto” avrebbero dovuto allontanarsi immediatamente da quel posto.
Il Ferrante ha tuttavia precisato che l’attrezzatura presente sul cassone del camion lo aveva indotto a ritenere che l’attentato sarebbe stato eseguito con altre modalità in quanto aveva pensato che i bidoni potessero contenere “un fucile o un lanciamissili o qualcosa del genere”, aggiungendo che lo stesso Madonia, durante la sosta in quel posto, gli aveva riferito “che già era da una settimana che spostavano macchine e che mettevano praticamente delle macchine, sempre le stesse… cioè, sempre lo stesso tipo di macchina per non fare allarmare nessuno”, ma che non gli “aveva assolutamente preannunciato nient’altro”, né spiegato le finalità di quelle sostituzioni di autovetture, ipotizzando, al riguardo, che il Madonia forse riteneva che Pippo Gambino lo avesse informato del piano esecutivo.
Quanto alla posizione del camion durante la sosta nella via Pipitone Federico, il collaboratore ha precisato che il mezzo era posteggiato “nello stesso lato della portineria” con “direzione che va da via Libertà verso il viale Michelangelo, quindi verso nord” con “le spalle al mare… e quindi anche a via Libertà”, aggiungendo testualmente: “..senza nessun tipo di precauzione, anche perchè poi dovevamo… cioè, appena ci sarebbe stato il botto praticamente dovevamo andare via subito e credo che sia stato lasciato addirittura in… in doppia fila, ma ripeto, non c’era problema di traffico, quindi non abbiamo trovato nessun tipo di problema a lasciarlo in quel modo lì”.
Nel corso dell’esame condotto dal presidente il Ferrante non ha escluso che il camion fosse stato posteggiato sul lato sinistro, dichiarando testualmente (f.99, ud.26/3): “ Poi… poi per la verità, se è stato sul lato sinistro, cioè se poi era sul lato sinistro, diciamo, della portineria io onestamente non lo so, perchè, ripeto, da lì non ci sono mai più passato”.
Ha inoltre precisato di avere posteggiato in quel posto in base alle indicazioni del Madonia e che “la visibilità era praticamente totale, perchè ……dal camion che generalmente è più alto di un’autovettura si riesce a vedere chiaramente meglio, quindi si vedeva perfettamente tutta la strada che c’era davanti”.
Con riferimento ai minuti successivi alla sosta con il camion nel posto sopra descritto ed alle persone notate nella zona dell’attentato, il Ferrante ha riferito di avere notato “un movimento di macchine” ed il Brusca posteggiare un’autovettura, di cui non ha saputo precisare il tipo – “proprio vicino alla portineria dove il Nino Madonia guardava continuamente e diceva che, praticamente, era quello lì il posto….” – dopo di che si era diretto a piedi “dalla parte della portineria” verso il camion (“verso di noi”) senza tuttavia raggiungerlo (“ma non è venuto direttamente lì da noi”), in quanto aveva imboccato una traversa, sulla destra, forse a senso unico.
Nel corso dell’esame condotto dal presidente, il Ferrante, richiesto di precisare se il riferimento alla svolta a destra operata dal Brusca mentre procedeva a piedi verso il camion dovesse essere inteso rispetto al punto di osservazione dello stesso dichiarante ovvero rispetto alla stessa direzione di marcia del Brusca, ha precisato quanto segue (ff.102-3, ud.26/3): “Perchè praticamente, cioè, l’ho visto scendere a piedi e poi, praticamente, se… se ne è andato, diciamo, da una traversa che era a senso unico, quindi ha gi… a destra….Allora, il Brusca mi veniva di fronte, perché scendeva, quindi, alla mia destra….Ricordo che non potevo girare sulla destra……Allora praticamente scendendo il Brusca girò alla sua sinistra”.
È chiaro pertanto che il Ferrante aveva inizialmente fatto riferimento al proprio punto di osservazione e che la traversa in questione era a senso unico e con divieto di svolta a destra rispetto alla propria direzione di marcia.
Continuando nella sua narrazione delle fasi successive,  il collaboratore ha dichiarato che appena giunse un’Alfetta blindata Nino Madonia scese dalla cabina del camion e salì sul cassone, portando con sé il sacchetto.
Trascorsi pochi minuti si era verificata l’esplosione, descritta dal Ferrante come un momento in cui “si è oscurato tutto, cioè praticamente non si vedeva più niente…..”, dopodichè il Nino Madonia aveva cominciato a bussare alla cabina del camion, ed egli, voltatosi indietro, aveva notato il predetto che “era intento….. a richiudere l’antenna del telecomando e metterla nel sacchetto”.
Nino Madonia era quindi risalito nella cabina ed egli aveva messo in moto il camion.
Il Ferrante ha ipotizzato che in quel frangente dovette essersi verificato un malinteso perchè egli aveva ritenuto che il Nino Madonia dovesse prendere posto sulla cabina per poi andare via, “invece forse lui intendeva che dovevamo andare via praticamente immediatamente dopo il botto, quindi lui sarebbe rimasto sul cassone del camion”, e ciò aveva desunto dal fatto che il Madonia, dopo avere richiuso l’antenna, aveva cominciato “a dare pugni sulla cabina del camion”.

Sulla struttura e sulle dimensioni del telecomando il Ferrante ha dichiarato di poter fornire “indicazioni molto generiche”, precisando che l’antenna “era di quella tipo a stilo, quindi quella che si richiude su se stessa. Il telecomando…. era di colore nero, piuttosto voluminoso”, precisando che aveva avuto modo di rilevarne le dimensioni “dal sacchetto” vedendolo solo per qualche istante.( “questo è quello che ho… ho visto così, in un attimo”).
A specifica domanda circa l’itinerario e la direzione seguiti per allontanarsi subito dopo l’esplosione, il Ferrante ha dichiarato:
“ Quando ci siamo allontanati ricordo che praticamente abbiamo fatto una strada, appunto, che girava sul lato sinistro, quindi nuovamente a sinistra e praticamente siamo ripassati da via Pipitone Federico, la traversa più in giù;….. abbiamo attraversato … di nuovo la via Pipitone Federico non dal posto dov’eravamo, diciamo dalla traversa più vicina a via Libertà, ecco, per intenderci”.
Su indicazioni dello stesso Madonia si era quindi diretto verso Villa Sperlinga nei pressi della quale il predetto era sceso dal camion portando con sé il sacchetto; precisava di avere lasciato il Madonia grosso modo là dove lo aveva prelevato prima, di non avere avuto “né il tempo né l’occasione” di notare in quel posto la presenza di altre persone conosciute ad attenderlo né di una autovettura precedentemente lasciata in sosta dallo stesso Madonia.
Frattanto era sopraggiunto anche il Gambino il quale gli aveva “battuto la strada” fino al posteggio in cui avevano precedentemente prelevato il camion, dirigendosi poi, su indicazione del primo, ciascuno con la propria autovettura, a casa di Mario Troia.
Escludeva di essere passato da Piazza Leoni e dalla “Statua” di Piazza Vittorio Veneto.
Rettificando quanto in precedenza dichiarato, il Ferrante ha riferito quanto segue:
FERRANTE : – “Adesso devo fare alcune precisazioni che forse non avevo fatto precedentemente, perchè quando siamo arrivati a casa di Mario Troia praticamente siamo… siamo rimasti lì, non so, qualche… sicuramente qualche… qualche ora.
P.M. : – “Siamo rimasti” chi? Chi eravate?
FERRANTE : – Eh, siamo rimasti, appunto, io e Pippo Gambino e il Mario Troia era lì. Mentre prima avevo detto che il Mario Troia non era presente praticamente a quando avevamo parlato e a quello che si era detto, la cosa non risponde a realtà. La realtà è, praticamente, che Mario Troia ho capito perfettamente che era a conoscenza del fatto anche se Mario Troia lì non c’era. Ma quando siamo ritornati, praticamente, Mario Troia era a conoscenza, diciamo, di quello che era successo o quello che doveva succedere. Questo… questo glielo devo dire, perchè credo che precedentemente non… non ne avevo parlato.
P.M.: – Ma signor Ferrante, non ne aveva parlato perchè era un’omissione frutto di una dimenticanza o per altre ragioni?
FERRANTE : – No, a dire il vero all’inizio non ricordavo effettivamente i discorsi che c’erano stati con Pippo Gambino e il Mario Troia. Poi c’era il fatto, chiaramente, che non è una scusante, ma c’era il fatto che praticamente il Mario Troia era una persona ancora libera, anzi era latitante e avevo, diciamo, approfi… no approfittato del fatto che io non ne avevo parlato; avevo approfittato del fatto che non avevo ricordato veramente questi… questi particolari.
PRESIDENTE: – Lo vuole chiarire meglio, scusi?
FERRANTE : – Sì. E allora, io a Mario Troia… anche perchè successivamente Mario Troia l’avevo chiamato in causa per altri fatti di sangue. E questo, diciamo, che precedentemente quando ne avevo parlato, avevo dimenticato la presenza e alcuni discorsi che c’erano stati con Mario Troia. Quindi diciamo che è stato questo il fatto che… diciamo, ne avevo approfittato del fatto che non ne avevo parlato, ma… adesso, chiaramente, il discorso devo dirlo in modo completo.
P.M. : – Cioè, lei quando lo ha ricordato che Mario Troia, parlando con voi, si dimostrava perfettamente a conoscenza di quello che era successo?
FERRANTE : – L’ho ricordato successivamente per alcuni particolari. Per alcuni particolari e perchè il Mario Troia, praticamente, poi doveva mandare qualcuno a riprendere il camioncino che era rimasto praticamente lì, quindi nel parcheggio.
P.M. : – Ecco, lo ha ricordato dopo. Io volevo capire, anche per comprendere bene il senso di queste sue dichiarazioni: lei è stato interrogato sul punto, sull’omicidio, sulla strage del dottor Chinnici, dei Carabinieri e della sua scorta, il 16 luglio del ’96, quindi nella prima fase della sua collaborazione. Lei questo particolare della conoscenza di Mariano Troia, di Mario Troia, lo ha ricordato dopo il luglio ’96 o già lo ricordava a quel momento e non lo ha voluto indicare perchè il Troia era latitante?
FERRANTE : – No, forse non… non sono stato molto chiaro. Io quando ho parlato di questo fatto, non ricordavo la presenza… non la presenza, perchè, ripeto, la presenza lì, il Mario Troia, non… non la ricordo perchè non c’è stato. Ho ricordato successivamente  alcuni…  cioè, il particolare soprattutto del fatto che il camion lo doveva andare a… cioè, lo doveva mandare a riprendere il Mario Troia. E chiaramente questo… da questo capisco che il Mario Troia, praticamente, era a conoscenza del… di quello che era successo. E diciamo che mi andava bene soprattutto per il fatto che il Mario Troia era latitante, e quindi avrebbe potuto in ogni caso creare… avrebbe potuto fare qualcosa, diciamo, nei confronti forse della mia famiglia. Anche perchè, ripeto, i miei vivono ancora a Palermo. Ma già, precedentemente, il…
FERRANTE (dopo una breve interruzione del collegamento) – Sì, volevo aggiungere che… cioè, il fatto che lo abbia dimenticato in precedenza è reale, anche perchè, ripeto, poi il Mario Troia l’ho chiamato in causa per altri fatti sicuramente non… non meno gravi di questo. Quindi, ripeto, è stato questo il fatto. Ma ripeto, poi, avendo ricordato alcuni particolari, è chiaro che adesso questa è la sede per… per dire tutto quello che… che ricordo.
PRESIDENTE: – Il Pubblico Ministero però le aveva chiesto se alla data in cui aveva reso un certo interrogatorio, mi pare nel luglio del ’96, lei in quella sede era già consapevole del fatto di… Aveva già ricordato meglio o a quella data effettivamente i suoi ricordi non erano ancora certi?
FERRANTE : – No, no.
PRESIDENTE: – E se ne ricordò dopo.
FERRANTE : – No, a quella data non ricordavo la presenza di… di Mario Troia. Difatti non ricordavo… cioè, alcune delle cose che credo di avere ricordato in più rispetto a quella data, anche perchè credo che a parte quell’interrogatorio non… non ce ne siano stati altri su questo… su questo fatto. Alcuni particolari ricordo che… che ho detto adesso in più, credo che siano il fatto che il Nino Madonia mi abbia detto che già da qualche settimana spostavano i mezzi, e dal fatto che, ripeto, Mario  Troia sapeva… cioè, doveva andare praticamente… doveva andare a fare… a prendere il mezzo che era rimasto lì. Quindi, questi sono i particolari che… che ho ricordato e che ho detto in questa sede, perchè è chiaro che questa è la sede che… dove avrei dovuto aggiungere questi particolari. Perchè prima non credo che ci sia stata altra occasione a parte quella del novan… del luglio ’96, mi pare.
P.M.: – Quindi, per chiudere sul punto e per capirci bene definitivamente, lei quando dice: “Ho approfittato”, intende riferirsi al fatto che noi non siamo venuti più ad interrogarla sul punto e quindi lei non… non ci ha mandato a dire che voleva rendere ulteriori dichiarazioni. In questo senso ne ha approfittato?
FERRANTE : – E… sapendo che ero imputato in questo processo è chiaro che in questa sede avrei potuto, praticamente… dire gli altri ricordi che avevo, appunto, ricordato.
P.M. : – L’unica circostanza… o meglio, la circostanza che le fa capire che il Troia fosse già a conoscenza di quello che era successo, è soltanto quella del fatto che doveva mandare a recuperare il camion oppure dal contesto del discorso lei capisce che il Mario Troia era a conoscenza di quello che era successo, dell’obiettivo che era stato eliminato?
FERRANTE : – No, il particolare, diciamo, con precisione che mi fa ricordare con esattezza, diciamo, che il Mario Troia sapeva qualcosa è… scaturisce proprio dal fatto che lui doveva mandare qualcuno a ritirare quel mezzo lì. Poi qualche altro particolare, diciamo, che mi fa ricordare, ma quello è avvenuto, praticamente, credo proprio quando c’è stato… mi pare l’edizione del giornale “L’Ora”, che era nel primo pomeriggio. Allora, mi pare, che il giornale “L’Ora” la prima edizione usciva… cioè l’edizione usciva credo alle 14.00, alle 15.00 del pomeriggio, e parlando, diciamo, di quello che era successo, il Pippo Gambino e il Mario… ma più che altro il Pippo Gambino veramente, perchè io ho rappresentato il fatto che cioè in quell’occasione, praticamente, era morto anche il portiere che, secondo me, non c’entrava assolutamente niente. E il Pippo Gambino, praticamente, mi ha detto che era tutto calcolato, perchè il portiere era un carabiniere. Non so se era realmente un ex carabiniere o carabiniere nel modo in cui si comportava.
P.M. : – Lo disse Gambino questo, ha detto?
FERRANTE : – Sì, è stato un discorso che, praticamente, disse Gambino, ma Mario Troia era lì. Ma questo è stato nel pomeriggio. Cioè, praticamente, quando è uscita l’edizione del giornale”.

Il collaboratore ha spiegato anche le ragioni per le quali la scelta era caduta sulla sua persona per svolgere quel compito, precisando che nessun altro della “famiglia” sapeva guidare mezzi pesanti, ed in particolare Salvatore Biondino che, a quanto pare, avrebbe dovuto essere incaricato, mentre il Gambino, che pur sapeva condurre mezzi pesanti, già all’epoca soffriva di dolori alle ginocchia e molto spesso aveva delle difficoltà pure a scendere dall’autovettura, sicchè, era presumibile, ad avviso del Ferrante, che per tale ragione fosse stato ritenuto inidoneo a fronteggiare eventuali situazioni di emergenza ed esigenze di fuga.
Quanto al tipo di esplosivo il collaboratore non ha saputo fornire alcuna indicazione, mentre in ordine al telecomando ha precisato che lo stesso era fornito di qualche leva che aveva intravisto, perché sporgente, quando si era girato verso il cassone sul quale si era posizionato il Madonia.
Il collaboratore è stato inoltre esaminato su altri specifici punti.
Innanzitutto ha fornito ulteriori conferme in ordine alla funzione di base logistica ed operativa del fondo Pipitone, sito nel quartiere dell’Acquasanta vicino la “manifattura tabacchi”, dove abitava Galatolo Vincenzo, uomo d’onore del mandamento di Resuttana nel cui territorio era ubicato quell’immobile (detto “‘u bagghiceddu”), più volte utilizzato in occasione di fatti criminosi fra i quali l’omicidio Puccio e la strage di via Croce Rossa, nonché per riunioni, quantomeno a far data dai primi del 1983 e cioè da quando il gGmbino era stata nominato capomandamento (“quando si diceva: “Hammu a ghiri a ‘u bagghiceddu” si intendeva proprio casa di Enzo Galatolo”).
Riferiva di avere più volte visto il Madonia Nino in quel fondo dalla fine del 1982-inizio 1983 in occasione degli anzidetti episodi criminosi per la cui esecuzione erano partiti da quel posto.
Sul ruolo di quest’ultimo in occasione dell’attentato dinamitardo all’ippodromo, sopra ricordato, il Ferrante ha riferito innanzitutto che si era trattato chiaramente di un attentato a scopo di estorsione nei confronti della società che gestiva l’ippodromo ed inoltre che il suo coinvolgimento insieme al Madonia andava ricollegato alla contiguità territoriale dei rispettivi mandamenti e delle famiglie corrispondenti (San Lorenzo e Resuttana), nella cui area di influenza ricadevano alcune zone limitrofe come, ad esempio, la Favorita e una parte della via Belgio.
In occasione di quell’attentato era stato usato un ordigno esplosivo preparato dai Madonia, collocato sotto una scala, e la miccia era stata attivata dallo stesso Madonia.
Ha inoltre riferito che con quest’ultimo aveva commesso numerosi reati tra i quali il sequestro di Claudio Fiorentino.
[…]
A specifica domanda ha dichiarato che nulla gli constava circa la presenza del Madonia nello stabile del dr.Chinnici per eseguire un eventuale sopralluogo prima della strage, né di ciò aveva sentito parlare tramite organi di informazione.
Nel corso dell’esame condotto dal presidente il collaboratore ha dichiarato di non sapere che l’obiettivo dell’attentato fosse il consigliere Istruttore Rocco Chinnici, né che le modalità esecutive sarebbero state quelle sopra descritte, assumendo di aver appreso l’identità della vittima solo dai giornali e che, pur nella piena consapevolezza di partecipare ad una azione criminosa di tipo omicidiario, in realtà si rese conto che si trattava di un attentato con ordigno esplosivo quando vide il  telecomando in mano al Madonia e si verificò la devastante deflagrazione.
Sul punto appare opportuno riportare il seguente brano:
PRESIDENTE: – ….quando lei apprende del progetto di eliminare il dottore Chinnici? O se preferisce, quando lei si rende conto che l’obiettivo è il dottore Chinnici?
FERRANTE : – No, io del dottore Chinnici, cioè quindi della persona, cioè proprio della persona fisica e del nome del dottore Chinnici io lo apprendo quando, praticamente, vedo nel giornale che si trattava del dottore Chinnici, ma io neanche il nome avevo mai sentito. Cioè, a parte che non mi è stato detto, quindi dalla mattina a quando è successo il… l’attentato, ma non… onestamente non lo avevo mai sentito dire neanche prima il… diciamo, il nome del dottore Chinnici, quindi… non lo conoscevo neanche di nome.
PRESIDENTE: – Quindi, in sostanza, mentre lei era al volante del camion e aveva accanto Nino Madonia, lei non gli chiese: “Ma che cosa ci stiamo a fare qui? Chi è l’obiettivo del nostro… del nostro progetto criminoso?” Lei neanche in quel momento sapeva che l’obiettivo era il Consigliere Istruttore Chinnici.
FERRANTE : – No, assolutamente. Ripeto, io ho semplicemente eseguito… anche perchè a Nino Madonia, essendo una persona… anche se la conoscevo… la conoscevo bene, ma essendo una persona estranea alla nostra famiglia io non avrei avuto neanche il diritto di chiedere: “Ma che stiamo andando a fare?” Perchè… perchè la persona che me lo avrebbe dovuto dire, in ogni caso, non era Nino Madonia, ma mi avrebbe dovuto informare Pippo Gambino, cosa che non ha fatto; non ha fatto perchè abitualmente non… si faceva così. Ma ripeto, io la persona del dottore Chinnici non… cioè, prima non lo avevo mai sentito dire.
PRESIDENTE: – Quindi, in sostanza, le si è reso conto di avere partecipato alla strage in cui perse la vita il dottore Chinnici soltanto quando lo seppe dai giornali, in sostanza.
FERRANTE : – Mi sono reso conto di avere partecipato alla strage quando, praticamente, è saltato tutto in aria.
PRESIDENTE: – Che la vittima fosse il dottore Chinnici lo ha saputo dopo.
FERRANTE : – L’ho appreso dopo.
PRESIDENTE: – Senta, per quanto riguarda invece le modalità esecutive, lei si rese conto che si trattava di una carica esplosiva che sarebbe stata attivata con un telecomando soltanto quando vide il Madonia con il telecomando in mano o già prima si era reso conto di qualcosa del genere?
FERRANTE : – No, io mi sono reso conto quando contestualmente ho visto… ho visto esplodere praticamente, diciamo, la… la bomba e poi mi sono reso conto, è chiaro che… cioè, era… era matematico per me, quando ho visto il… diciamo, il telecomando, avere capito che si trattava di una… di una bomba a distanza. Ma ripeto, io sino a quel momento potevo pure immaginare che si trattava anche di un… di un lanciamissili o… o di sparare dal… diciamo, dal… da sopra il camion con… con qualche fucile. Anche perchè, ripeto, già di fucili mitragliatori, tipo kalashnikov o altre armi, tipo lanciarazzi, cioè quelle lì le… le avevamo quelle… quelle armi, e tra l’altro… No, però, va bè, questo diciamo della prova del lanciarazzi che ha fatto proprio Nino Madonia è stata… è stata, diciamo, sicuramente dopo, ma già i kalashnikov praticamente li avevamo, quindi potevo immaginare che si sarebbe usata un’arma del genere. Cioè, il fatto dell’autobomba a distanza non lo immaginavo, ecco.
PRESIDENTE: – …..mentre il Madonia le stava seduto accanto nella cabina, prima che scendesse, prima che lei vedesse in mano al Madonia il telecomando quando… vide anche l’antenna, mi pare che lei ha detto. Prima di quel momento si era…… reso conto che il Madonia aveva un incarico specifico, di carattere strettamente esecutivo o non ancora ebbe consapevolezza di questo?
FERRANTE : – No… va bè, avevo capito che… che poteva essere lui quello che materialmente avrebbe… avrebbe dovuto… dovuto sparare, ma ripeto, quello lì io… sì, quello lo pensavo, ma di altro no.
PRESIDENTE: – Quindi lei, voglio dire, in sostanza, in quel preciso momento poteva anche pensare che si potesse trattare di un’azione omicidiaria con armi tradizionali? O si rese conto…… che comunque si trattava di modalità particolarmente, diciamo… che avrebbero potuto mettere in pericolo l’incolumità pubblica o poteva anche ritenere che si trattasse di un omicidio di tipo tradizionale, con fucili di precisione, con armi da fuoco corte? Ecco, quale fu la sua… la consapevolezza che lei ebbe in quel momento?
FERRANTE : – Io dal fatto che il Pippo Gambino mi aveva battuto la… la strada sino a… diciamo, a quando Nino Madonia è salito e dal fatto che poi, diciamo, li… lo avevo visto girare e avevo visto altre persone, quello che esclusivamente pensavo era che si potevano usare soltanto delle armi. Cioè, allora non si spiegava altrimenti perchè il bidone, cioè i bidoni alti se non quello di nascondere delle armi lunghe. Cioè, quello era… quello immaginavo io, almeno quella era la mia convinzione sino a quel momento”. […]. LA REPUBBLICA 23.7.2020

 

FERRANTE Giovambattista Militava dal 1980 nella famiglia” di COSA NOSTRA di San Lorenzo, il cui mandamento, dopo luccisione di RICCOBONO Rosario, che lo dirigeva al momento dellingresso dellimputato nellorganizzazione mafiosa, venne retto prima da GAMBINO Giacomo Giuseppe e dopo larresto di questi da BIONDINO Salvatore, e cioè da due delle persone più vicine al RIINA, che si affidava al BIONDINO per raggiungere i luoghi in cui si incontrava con gli altri associati e per il compimento di tutte le attività criminose più delicate di COSA NOSTRA.

Ciò spiega il coinvolgimento del FERRANTE in entrambe le stragi commesse nel corso del 1992, nonché la sua partecipazione ad altri omicidi eccellenti”, come quelli di via Pipitone Federico in Palermo, del Commissario della P.S. CASSARA, del Capitano dei Carabinieri DALEO e delleuroparlamentare LIMA.

Arrestato nel novembre del 1993 per la strage di Capaci, a seguito delle dichiarazioni rese dal DI MATTEO, dal CANCEMI e dal LA BARBERA, il FERRANTE ha iniziato a collaborare nel corso del 1996, quando già era da tempo iniziata listruttoria dibattimentale di quel processo, fornendo tra laltro un contributo rilevante per lindividuazione di alcuni dei più importanti arsenali di armi di cui disponeva COSA NOSTRA, sito in terreno di proprietà del cugino BIONDO Giuseppe.

Benché intervenuta quando sussistevano già a carico del FERRANTE gravi indizi di colpevolezza in particolare per la strage di Capaci e, sia pure in misura minore, anche per quella di via DAmelio, in cui vi erano a carico dellimputato le dichiarazioni accusatorie del CANCEMI, che però le attribuiva in quella fase ad una sua conoscenza de relato”, la collaborazione dellimputato presenta innegabili caratteri di autonomia, avendo egli reso dichiarazioni circostanziate e dettagliate, inequivocabilmente derivanti da una personale conoscenza dei fatti riferiti, che hanno trovato significativi riscontri, anche in ordine ad episodi che non erano ancora compiutamente emersi dalle precedenti indagini, data la ripartizione dei compiti affidati ai vari componenti dei gruppi incaricati dellesecuzione dei delitti.

Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal FERRANTE nelludienza del 24.10.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci ed il suo contributo è stato rilevante per la conoscenza dei componenti di uno dei mandamenti maggiormente operativi nellattuazione della strategia stragista; del telecomando utilizzato per lesecuzione della strage di via DAmelio; delle prove esperite per verificarne il funzionamento, nonché per la ricostruzione di alcuni momenti fondamentali della fase di appostamento, necessaria per allertare tempestivamente il commando” presente in via DAmelio nellimminenza dellarrivo sul posto di Paolo BORSELLINO. E, tuttavia, come si dirà specificamente in sede di trattazione della fase esecutiva della strage, sono emersi alcuni elementi oggettivi che dimostrano in modo inequivocabile che il FERRANTE non ha riferito tutti i dati conoscitivi in suo possesso circa il momento esecutivo della strage ed i partecipanti, primo elemento tra tutti quello scaturente dallanalisi del traffico telefonico della sua utenza cellulare e di quella di CANNELLA Cristofaro, che si pone in antitesi con le indicazioni fornite dallimputato circa il numero delle chiamate effettuate a questultima utenza e la sua asserita mancata conoscenza dellutilizzatore della medesima. Tale emergenza non comporta il discredito delle altre dichiarazioni rese dal FERRANTE sul momento esecutivo della strage e sui nominativi dei partecipanti dallo stesso indicati, dichiarazioni queste peraltro pienamente riscontrate, atteso che tale atteggiamento deve unicamente ricondursi allintento del collaborante di limitare le proprie accuse nei confronti dei soli esecutori appartenenti al suo stesso mandamento, e che quindi egli non poteva negare di conoscere, nonché a quelle altre persone con le quali era stato in quelloccasione in diretto contatto visivo, sicché unomessa indicazione in tal senso avrebbe potuto essere smentita dallaltro collaboratore presente a tale fase, e cioè il CANCEMI. Tali reticenze dimostrano che la scelta collaborativa del FERRANTE è da ricondursi a motivi prettamente utilitaristici, come tali certamente di per sé non riprovevoli, ma che tuttavia hanno indotto limputato non già a limitare le proprie responsabilità – cosa che le altrui chiamate di correo non gli consentivano di fare e che tra laltro egli doveva ritenere pericolosa per la propria credibilità e, quindi, per il conseguimento dei benefici premiali che dovevano alleviare il suo trattamento sanzionatorio – bensì a coinvolgere nelle indagini giudiziarie solo quelle persone che non poteva fare a meno di indicare senza compromettere la propria affidabilità, a ciò indotto verosimilmente dallintento di esporsi in misura minore al sempre temibile risentimento dei propri ex consociati, maggiormente bersagliati da altre meno caute e reticenti propalazioni accusatorie. Corte assise Caltanissetta 26 settembre 1997

 

Giovanbattista Ferrante

La testimonianza di Giovanbattista Ferrante, uomo d’onore di San Lorenzo, legato a Salvatore Biondino da un rapporto molto stretto, è stata costellata da diverse contestazioni (mosse dalla Procura e da alcuni legali degli imputati) relative a parziali difformità con le sue precedenti dichiarazioni rese nel 1998 in veste di imputato (oggi è stato invece ascoltato in qualità di teste assistito). Attraverso un excursus storico si è arrivati fino al suo ruolo nella strage di via D’Amelio. “Facemmo delle simulazioni – ha specificato Ferrante – per provare i telecomandi che dovevano azionare l’autobomba circa 15 giorni prima della strage di via D’Amelio. Li provammo vicino viale Regione Siciliana. Allora non sapevo ancora che l’obiettivo era il giudice Borsellino”. Un tassello importante ha riguardato sicuramente il traffico telefonico che ha visto protagonista lo stesso Ferrante il 19 luglio 1992. Quel giorno i tabulati telefonici di Fifetto Cannella, uomo d’onore di Brancaccio agli ordini di Giuseppe Graviano, hanno registrato quattro telefonate da Giovanbattista Ferrante, ma è l’ultima della giornata quella di maggiore interesse investigativo. Di fatto Ferrante era stato incaricato da Salvatore Biondino di telefonare a un numero di cellulare trascritto su un bigliettino per segnalare l’arrivo in via D’Amelio del corteo delle auto di scorta del giudice Borsellino. Secondo quanto riportato nei tabulati alle ore 16,52 di quella domenica di luglio il cellulare in uso a Fifetto Cannella aveva ricevuto una telefonata della durata di 7 secondi proprio dal cellulare in uso a Giovanbattista Ferrante. 

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a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco