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Le origini della mafia calabrese, un tempo sconosciuta e impunita
1869. Quell’anno gli elettori della città di Reggio Calabria furono chiamati a votare per due volte. Le elezioni amministrative erano state annullate e si dovettero rifare. L’attiva presenza in campagna elettorale e durante le votazioni di elementi mafiosi aveva alterato il risultato della competizione. In quelle giornate si erano registrati anche fatti di sangue. Tra le altre persone colpite, anche un medico, sfregiato al volto in pieno giorno.
Il fatto, per quei tempi era enorme e aveva suscitato scalpore e scandalo nell’opinione pubblica. Il prefetto di Reggio Calabria, che si era recato personalmente dalla vittima per verificare le circostanze dell’accaduto, era convinto, come scrisse in una relazione, che “lo sfregio” fosse stato fatto “per grane elettorali”. I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero “obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”.
Siamo nel lontanissimo 1869, potremmo essere ai nostri giorni. Uno dei lati meno conosciuti della ‘ndrangheta è proprio il suo rapporto con la politica che, com’è accaduto per Cosa nostra e la camorra, è molto antico anche se è stato meno visibile e a lungo ritenuto inesistente o sottovalutato nella sua dimensione ed importanza.
Essa si è inserita nelle litigiosissime lotte per il potere che in Calabria per un lunghissimo periodo storico – dalla metà dell’Ottocento in poi – si sono caratterizzate come uno scontro furibondo tra famiglie contrapposte che si contendevano i voti usando tutti i mezzi, non esclusi i metodi violenti e mafiosi. Ad inizio decennio, nel 1861, il prefetto di Reggio Calabria aveva notato un’attività di camorristi. Chiamava così i delinquenti dell’epoca non avendo altro nome per definirli.
La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata.
Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa che le ha consentito di agire indisturbata senza subire le attenzioni riservate storicamente da parte degli inquirenti alla mafia siciliana. Per anni e anni essa è stata considerata un’organizzazione criminale secondaria, una mafia minore, una mafia di serie B.
Non a caso tutte le proposte fatte a partire dagli anni sessanta da parlamentari calabresi, da sindaci, da varie organizzazioni di estendere la competenza della commissione parlamentare antimafia anche in Calabria oltre che in Sicilia sono sempre cadute nel nulla.
Si arrivò ad estendere la competenza superando il vincolo territoriale che la relegava alla Sicilia molto tardi, nella X Legislatura con la Commissione antimafia presieduta dal senatore Gerardo Chiaromonte.
Molti ritenevano che il fenomeno mafioso calabrese fosse espressione degli ultimi decenni e fosse nato durante il boom economico degli anni ’60 che aveva portato grandi cambiamenti anche in Calabria determinando un’accelerazione anche dei processi criminali e mafiosi. Era un grosso abbaglio.
Quello che allora apparve a molti come un fenomeno nuovo e originale era in realtà la manifestazione più recente e più evidente di un fenomeno molto antico. La ‘ndrangheta, insomma, non era nata negli anni sessanta del secolo scorso, come molti scrissero e dissero.
Nata nell’Ottocento
La sua nascita avviene sotto forma di società segreta e non è dubbio che il modello di società segreta più vicino, più simile, più aderente alla realtà, ai valori, alle esigenze della delinquenza organizzata, fosse rappresentato dalla massoneria e dalle società segrete che fiorirono nella prima metà dell’Ottocento, importate in Calabria dai francesi di Gioacchino Murat, con programmi anticlericali, giacobini e pre-risorgimentali.
Tale caratteristica è molto importante per la comprensione del fenomeno e della sua evoluzione sino ai nostri giorni. Essa aveva sicuramente una duplice funzione: la prima, difensiva, per assicurare invisibilità rispetto al potere ufficiale, alla repressione poliziesca e giudiziaria; la seconda, offensiva, per meglio realizzare l’inserimento nei circuiti del potere, nella società e nello stato.
Una siffatta caratteristica, mutuata dalla massoneria del tempo, conservò intatta la sua forza coesiva e il suo vincolo omertoso, rendendola unica, pur nelle sue continue trasformazioni, nel panorama delle organizzazioni criminali.
La ‘ndrangheta – “picciotteria” è il termine usato fino all’inizio del nuovo secolo – è già presente in molti comuni della Calabria post-unitaria, ma lo Stato di allora non ne coglie l’importanza e la pericolosità. Molti, però, non si accorsero della sua attività solo perché non ne era conosciuto il nome, mentre le azioni che segnavano il suo progredire venivano attribuite a formazioni criminali di varia denominazione che non venivano ricomprese in un’associazione riconoscibile con un nome, un’identità, un’organizzazione comune.
Erano in pochi a vedere come invece quei fatti potevano essere attribuiti a un fenomeno che stava prendendo sempre più piede e andava radicandosi. Si estendeva anche grazie ad un sapiente uso dei codici e dei rituali, di modalità simboliche e immaginifiche che avevano il potere di affascinare i giovani, di attrarli nell’orbita ‘ndranghetista, di educarli alla legge dell’omertà e alla convinzione che ci fossero altre leggi più importanti di quelle dello Stato e che tutto ciò fosse appannaggio di una società speciale, composta da “veri” uomini: gli uomini d’onore.
Sorgono così le ‘ndrine a carattere familiare e si diffondono nelle città e nei villaggi più sperduti. Ogni ‘ndrina comanda in forma monopolistica nel suo territorio ed è autonoma dalle altre ‘ndrine operanti nei territori vicini. Il modello organizzativo della ‘ndrangheta si fonda sul “locale”, presente sul territorio laddove esiste un aggregato di almeno 40 uomini d’onore, con un’ organizzazione gerarchica che affida il ruolo di “capo società” a chi possiede il grado di “sgarrista”, regolando la vita interna su rigide e vincolanti regole: assoluta fedeltà e assoluta omertà.
Il mondo esterno, separato da quello della ‘ndrina, era composto da soggetti definiti “contrasti”, categoria inferiore destinataria di disprezzo e dagli uomini dello Stato, gratificati dal giudizio “d’infamità”.
Nella ‘ndrangheta sono sempre esistiti accordi tra famiglie di diversi comuni ed è anche capitato che “capobastone” influenti e prestigiosi estendessero la loro influenza nei territori vicini a quello dov’era insediata la propria famiglia, ma non si è mai arrivati ad un centro di comando unico. Per trovare qualcosa di simile dobbiamo arrivare agli accordi successivi alla guerra di mafia tra il 1985 e il 1991.
Il modello organizzativo ‘ndranghetista
Il modello organizzativo è profondamente differente dalle altre organizzazioni mafiose: si basa sulla forza dei vincoli familiari e sull’affidabilità garantita da questi legami, un formidabile cemento che unisce e vincola gli ‘ndranghetisti uno all’altro e ne impedisce defezioni e delazioni.
Lo si vede quando esplose il fenomeno dei collaboratori di giustizia. La ‘ndrangheta ha avuto sicuramente un numero meno rilevante di collaboratori e fra essi nessuno era un capo famiglia.
Né ci sono mai stati collaboratori dello spessore criminale di quelli siciliani o campani. La struttura familiare e i suoi codici morali hanno impedito a molti ‘ndranghetisti di parlare. Tra l’altro, il fatto che le ‘ndrine fossero autonome l’una dalle altre ha fatto sì che le poche collaborazioni colpissero la famiglia di appartenenza lasciando intatte le altre, anche le più vicine al loro territorio.
Su questo aspetto è utile un approfondimento. Le collaborazioni di un certo spessore degli anni ’90 sono rimaste in linea di massima casi isolati. Tuttavia le ultime audizioni effettuate in Commissione colgono i segni di una possibile inversione di tendenza. Secondo Mario Spagnuolo, procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, «negli ultimi 4 anni, si è riscontrato un aumento esponenziale (qualitativamente appagante) di collaboratori di giustizia e questo non solo nelle zone in cui tradizionalmente si collabora (il cosentino) ma anche nel crotonese, qualche buon collaboratore di giustizia nel vibonese, ma, soprattutto, sono aumentati i testimoni di giustizia».
E questa rappresenta una novità che incide favorevolmente sul rapporto tra lo Stato e colui che mette la propria vita nelle mani della giustizia. Appare inoltre significativo quanto affermato dal direttore della Direzione Anticrimine Centrale della Polizia di Stato, Franco Gratteri: «per quanto riguarda i collaboratori, posso dire che esponenti organici a famiglie del crotonese, persone importanti che hanno commesso azioni illecite, violente e di una certa gravità, hanno scelto o stanno scegliendo di collaborare. Si tratta di un fatto importante, ma da prendere per quello che è e non saprei dove possa portare in futuro».
Dalle parole del direttore emerge però tutta la complessità del rapporto tra i collaboratori della ‘ndrangheta e la giustizia e la difficoltà nel trasformare il fenomeno della collaborazione in un dato acquisito e costante dell’azione di contrasto.
I dati ci indicano comunque che dal 1994 al 2007, i collaboratori di giustizia in Calabria, pongono la ‘ndrangheta al terzo posto per collaborazioni dopo la camorra e Cosa nostra. Su un totale complessivo di 794 collaboratori di giustizia solo 100 provengono dalla ‘ndrangheta (il 12,6 per cento), mentre 243 dalla mafia siciliana, 251 dalla camorra, 85 dalla Scu, 115 da altre organizzazioni. In controtendenza invece, risulta essere il dato relativo ai testimoni di giustizia. In particolare, su un totale di 71 testimoni, quelli che hanno reso dichiarazioni su fatti di ‘ndrangheta sono 19 (circa il 27 per cento); su fatti di camorra 26, sulla mafia siciliana 12 (e qui emerge altro dato significativo), 2 sulla Sacra Corona Unita e infine 12 su altre organizzazioni 14 aprile 2022 DOMANI
Così le amministrazioni pubbliche si piegano alla ‘Ndrangheta
Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano così un dato costante che spesso assume le forme di una gestione parallela dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle Asl, dalle Asi alle società miste per la gestione dei servizi.
Fondamentale, per la natura stessa della ‘ndrangheta, è il controllo delle istituzioni al livello più immediato del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Ancora il dott. Scuderi, nella relazione inviata alla Commissione, illustra la costituzione di società “miste” caratterizzate dalla partecipazione dell’amministrazione pubblica e di imprese private a diretta copertura mafiosa, creando una vera e propria compenetrazione delle istituzioni locali con il potere criminale egemone sul territorio. È il caso di molti Comuni.
Un esempio emblematico è rappresentato dal Comune di San Gregorio d’Ippona. Nell’operazione “Rima” sono stati arrestati tre consiglieri comunali di opposizione, tra i quali l’ex sindaco. L’inchiesta ha evidenziato la capacità della cosca “Fiarè”, satellite dei Mancuso, di penetrare nella pubblica amministrazione.
La vicenda di Seminara
Ancora più inquietante è la vicenda del Comune di Seminara, situato tra la piana di Gioia Tauro e le falde dell’Aspromonte. Alla vigilia delle elezioni amministrative del 27 maggio 2007 si tiene un incontro tra Rocco Gioffrè, capo della ‘ndrina di Seminara e Antonio Pasquale Marafioti, Sindaco uscente del paese e dubbioso sulla sua ricandidatura: “tu ti devi candidare – dice Gioffrè – perché qui decido io e la tua elezione è sicura. Possiamo contare su mille e cinquanta voti e sono più che sufficienti per vincere”.
La previsione si rivela esatta con una precisione da fare invidia alle migliori società di sondaggi: la lista del sindaco Marafioti, una lista civica di centro-destra, vince con mille e cinquantotto voti. I due non sanno che la conversazione è intercettata dai carabinieri e questo dialogo insieme a tanti altri elementi investigativi, il 17 novembre del 2007 porterà in carcere i due interlocutori e il vice sindaco, Mariano Battaglia, l’ex sindaco al tempo del primo scioglimento del comune nel 1991, Carmelo Buggè e l’assessore Adriano Gioffrè, nipote del boss.
L’inchiesta coordinata dalla D.D.A. di Reggio Calabria ha svelato il controllo completo da parte della cosca Gioffrè sul comune: dalle attività economiche gestite a livello locale alle concessioni comunali, dagli appalti ai progetti di finanziamento con fondi regionali ed europei. Come se non bastasse il “sistema” si estende oltre i confini del comune. Il sindaco Marafioti è anche il Presidente del Pit 19 della Calabria (Consorzio di 10 comuni tutti più grandi di Seminara, amministrati dai più diversi schieramenti politici, dal centro-destra al centro-sinistra) e dispone di fondi per 20 milioni di euro.
Il vice sindaco Battaglia, invece, è il Presidente del Consorzio intercomunale “Impegno giovani” che avrebbe il compito della diffusione della cultura della legalità nelle scuole, con un fondo di 850 mila euro tratti dal Pon – Sicurezza del Ministero dell’Interno.
I clan, secondo i magistrati, non possono perdere occasioni così ghiotte per ingrossare le proprie tasche: alle elezioni del 2007 avvicinano uno ad uno gli elettori, pagano il viaggio degli emigrati per il voto, scelgono il Segretario della I° Sezione elettorale che ha il compito del riepilogo delle preferenze.
E che dire del Comune di Filandari dove il controllo del territorio arriva “al punto da imporre le tasse sui mezzi di trasporto che ne attraversano le strade”. Sono solo alcuni esempi di una situazione molto più diffusa, di quanto si possa immaginare e di quanto gli stessi media non raccontino.
Il caso Piromalli
Ma in Calabria si arriva anche al paradosso. Il rampollo della famiglia mafiosa più importante della Piana, (sentenza del Tribunale civile di Palmi, del 4 luglio 2007) Gioacchino Piromalli, di 38 anni, è condannato al risarcimento di 10 milioni di euro a favore delle amministrazioni comunali di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando di Rosarno.
È una sentenza storica frutto della costituzione di parte civile di queste amministrazioni al momento di avvio del processo “Porto”.
Dopo la condanna Piromalli, che è avvocato, dichiara di essere nulla tenente e di poter procedere al risarcimento solo attraverso prestazioni professionali.
Il tribunale di sorveglianza, come se nulla fosse e come se non conoscesse la reale identità del soggetto, gira la richiesta alle amministrazioni comunali interessate che concordano di accettare il risarcimento come proposto dal Piromalli, rimettendo comunque ogni decisione al tribunale.
La vicenda è ora al vaglio della Procura di Reggio Calabria che ha inquisito i tre sindaci e il vice sindaco di Gioia Tauro per associazione mafiosa “per aver compiuto un atto non di loro competenza per un tipo di risarcimento non previsto dalla legge”.
Al di là delle responsabilità penali resta da chiedere come sia stato possibile che tutti i soggetti, Tribunale di sorveglianza e amministrazioni comunali, abbiano considerato tutto ciò normale, rendendosi protagonisti di una vicenda che ha piegato le istituzioni all’arroganza della ‘ndrangheta. 22 aprile 2022 • DOMANI
‘Ndranghetisti e massoni, il giuramento su Garibaldi, Mazzini e La Marmora
In quegli anni si salda anche il tanto analizzato e indagato rapporto con la massoneria, storicamente radicata nella società calabrese. Scrivono a questo proposito i magistrati della Dda di Reggio Calabria: «Si tratta dell’ingresso dei vertici della ‘ndrangheta nella massoneria, che non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella ‘cultura’ e nella politica’ della ‘ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, ad un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all’interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all’economia, alle istituzioni.
L’ingresso nelle logge massoniche esistenti o in quelle costituite allo scopo doveva dunque costituire il tramite per quel collegamento con quei ceti sociali che tradizionalmente aderivano alla massoneria, vale a dire professionisti (medici, avvocati, notai), imprenditori, uomini politici, rappresentanti delle istituzioni, tra cui magistrati e dirigenti delle forze dell’ordine. Attraverso tale collegamento la ‘ndrangheta riusciva a trovare non soltanto nuove occasioni per i propri investimenti economici, ma sbocchi politici impensati e soprattutto quella copertura, realizzata in vario modo e a vari livelli (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti di processi, etc.), cui è conseguita per molti anni quella sostanziale impunità, che ha caratterizzato tale organizzazione criminale, rendendola quasi “invisibile” alle istituzioni, tanto che solo da un paio di anni essa è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e degli organi investigativi più qualificati.
Naturalmente l’inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato ad esponenti di vertice della ‘ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società.
Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi.
Persino l’attività di confidente, un tempo simbolo dell’infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori. E più oltre: «Esigenze razionalizzatrici dunque che in qualche modo anticipavano e preparavano quei nuovi assetti della ‘ndrangheta che hanno formato oggetto della presente indagine, ma che rispondevano anche alla necessità di ‘segretazione’ dei livelli più elevati del potere mafioso, al fine di sottrarli alla curiosità degli apparati investigativi ed alle confidenze dei livelli bassi dell’organizzazione».
Un lungo filo rosso
Un lungo filo rosso unisce dunque ‘ndrangheta e massoneria, anche se, stando alle pacifiche conclusioni alle quali sono pervenute indagini giudiziarie e storiche, la reciproca compenetrazione delle due società segrete si consolidò a partire dalla seconda metà degli anni ’70, in singolare e non certo casuale consonanza con quanto avveniva dentro Cosa Nostra, come ebbe a riferire il collaboratore di giustizia Leonardo Messina davanti alla Commissione parlamentare antimafia: «Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».
Rimane dunque aperto il tema di come rendere efficace il livello giudiziario e penale quando emerge una dimensione occulta del potere e la sua doppiezza. Le conclusioni sin qui riferite trovano riscontro in alcuni dei documenti “interni” della ‘ndrangheta.
In essi si fa riferimento alle formule di iniziazione alla “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.
Due sono gli elementi che appaiono decisivi. Il primo è costituito dall’impegno assunto dai santisti di “rinnegare la società di sgarro”. Dunque le vecchie regole, ancora valide per tutti i “comuni” mafiosi, non valgono più per la nuova èlite della ‘ndrangheta.
I santisti possono entrare in contatto con politici, amministratori, imprenditori, notai, persino magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, se questo può essere utile per l’aggiustamento dei processi, per lo sviamento delle indagini, per stabilire rapporti sotterranei di confidenza e di reciproco scambio di favori.
L’infamità non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare. Il secondo importante elemento è costituito dalla “terna” dei personaggi di riferimento prescelti per l’organizzazione della “Santa”.
Non più gli Arcangeli della società di sgarro – Osso, Mastrosso e Carcagnosso, giunti dalla Spagna in Italia dopo 29 anni vissuti nelle grotte di Favignana- ma personaggi storici, ben noti nella tradizione culturale e politica italiana: Garibaldi, Lamarmora, Mazzini. I primi due, generali dell’esercito italiano, un tempo, in quanto portatori di divisa al servizio dello Stato, sarebbero stati considerati “infami” per definizione, per eccellenza.
Come va spiegato allora un richiamo così solenne ed esplicito a tali personaggi? Qual è il messaggio che attraverso tale indicazione si vuole mandare al popolo della ‘ndrangheta? La risposta è chiara se si osserva come Garibaldi, Lamarmora, Mazzini erano tutti e tre appartenenti a logge massoniche, per di più in posizioni di vertice (Garibaldi fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 24 maggio all’8 ottobre del 1864).
L’ingresso nella società civile
La ‘ndrangheta, insomma, da corpo separato, si trasforma in componente della società civile, in potente lobby economica, imprenditoriale, politica, elettorale. Da allora diventa l’interlocutore imprescindibile, il convitato di pietra, di ogni affare, investimento, programma di opere pubbliche avviato sia a livello regionale che centrale, ma anche di ogni consultazione elettorale, amministrativa e politica.
Per arrivare a questo risultato, tuttavia, i santisti non potevano entrare in contatto “diretto” con gli esponenti delle istituzioni e del potere economico, almeno all’epoca. Oggi, probabilmente, tutto questo è possibile senza mediazioni, ma in quella fase storica era necessario passare attraverso camere di compensazione, che consentissero a quei contatti la necessaria dose di riservatezza, affidabilità, sicurezza. Furono le logge massoniche ad offrire una tale possibilità. Non tutte certo. Alcune di quelle già esistenti diedero la propria disponibilità, altre furono create per l’occasione, ma sicuramente il sistema massonico-mafioso costituì il formidabile strumento di integrazione delle mafie nel sistema di potere dominante e di captazione nella borghesia degli affari.
Da allora in avanti, il fenomeno ‘ndrangheta appare sempre più con i caratteri di componente strutturale della società meridionale, e non solo, di “istituzione tra le istituzioni”, di attore diretto e principale delle politiche di sviluppo, di investimento, realizzate in quelle aree da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali.
Per questo è verosimile che il ruolo della massoneria, accertato e necessario in altre fasi, sia in gran parte superato, almeno nelle forme finora conosciute.
È però necessario abbandonare alcune categorie di lettura fortemente radicate nella cultura dell’antimafia, categorie che appaiono oggi superate e addirittura di ostacolo ad una lettura idonea a fornire strumenti di analisi e soprattutto di contrasto in grado di avere una qualche possibile efficacia. La prima categoria è quella dell’emergenza.
Se la ‘ndrangheta vive ed opera dall’Unità d’Italia e se essa, con il passare di oltre un secolo e mezzo, ha conservato intatte fisionomia e presenza, accrescendo la sua forza economica e il potere di condizionamento politico, allora di emergenziale nella sua presenza vi è davvero poco.
È piuttosto un fenomeno dinamico, funzionale all’attuale assetto economico-sociale e quindi non contrastabile solo con i consueti interventi repressivi di carattere giudiziario. La definizione della mafia come “antistato”, poi, è di quelle che appaiono suggestive ed accattivanti ma legate all’immagine di una criminalità simile al fenomeno terroristico, intenzionata cioè ad abbattere lo Stato di diritto per sostituirsi ad esso.
Di fronte ad un fenomeno storico di tale portata, non solo non vi è mai stata una seria, duratura, coerente, volontà politica di condurre un’azione di contrasto decisa e irremovibile ma, al contrario, si è registrata, da sempre, una linea ambigua e contraddittoria.
Alle debolezze istituzionali ed ai ritardi culturali si è aggiunto un vero e proprio sistema di collusioni e mediazioni sociali ed economiche, fino a determinare un livello di organicità degli interessi mafiosi alle dinamiche della società determinando il relativo degrado della politica e delle istituzioni. Si è reso così sempre più labile, in intere aree della Calabria il confine tra lo Stato e gli interessi della ‘ndrangheta.
Con questa forza la ‘ndrangheta ha sempre cercato, quando ne ha avuto l’opportunità, di valicare l’area del proprio insediamento.
Il suo essere “locale” – non a caso auto-definizione della sua struttura organizzata centrale – non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori –geografici, economici e sociali- nei quali stabilire relazioni in cui sviluppare nuove attività criminali. 15 aprile 2022 • DOMANI
Il porto di Gioia Tauro, regno di traffici gestiti da una “supercosca”
Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.
Nonostante l’impegno politico e finanziario profuso nei decenni – dalla Cassa per il Mezzogiorno a tutta la politica degli interventi straordinari – uno sviluppo armonico della realtà calabrese continua a rimanere una chimera, un obiettivo il cui conseguimento spesso si allontana di pari passo con l’avanzare di programmi e progetti di investimento, inesorabilmente frenati anche dalla presa che la ‘ndrangheta mantiene sull’intera economia della regione.
A fronte della fragilità e permeabilità dell’apparato politico amministrativo e della lentezza con cui procedono gli interventi volti ad una sua razionalizzazione e ad un miglioramento della sua efficienza, la ‘ndrangheta ha manifestato, al contrario, una rapida capacità di adeguarsi alle trasformazioni intervenute nel contesto economico e sociale.
Forte del suo atavico radicamento territoriale, mantenuto costante nel tempo, ed irrobustita da disponibilità finanziarie sempre maggiori, ha acquisito una sempre maggiore capacità di condizionamento ed inquinamento degli organi ed apparati amministrativi e politici calabresi.
Esempi emblematici rimangono i casi del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, grandi, strategiche ed eternamente incompiute infrastrutture, su cui le cosche hanno esteso nel tempo i loro tentacoli sovrastando in alcune fasi il tentativo di contrasto, che pure negli anni ha ottenuto significativi risultati.
In entrambi i casi risulta essersi perpetuato il perverso paradigma in base al quale le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e subappalti per la realizzazione delle grandi infrastrutture con quanto ne consegue in termini di dispersione delle risorse e di qualità delle realizzazioni sono state favorite nel corso dei decenni dagli accordi stretti, e spesso raggiunti in via preventiva, tra le grandi imprese nazionali e i capi delle più importanti famiglie mafiose dei territori interessati dai lavori.
Tali patti non si sarebbero potuti stringere in assenza di un sistema di connivenze con gli apparati politico amministrativi. Le indagini svolte e i diversi processi celebrati nell’ultimo decennio hanno messo a nudo un diffuso atteggiamento di pressoché totale assenza di collaborazione da parte degli imprenditori con le forze dell’ordine e la magistratura, oltreché una piena sudditanza alle varie pratiche estorsive: dal pagamento del pizzo, all’imposizione delle forniture e della manodopera, all’accettazione dell’estromissione da gare di appalto e lavori in favore di imprese riconducibili alle famiglie mafiose.
Su tale costume non ha inciso negli ultimi tempi neanche la posizione assunta da Confindustria Sicilia, che ha finalmente approvato un codice deontologico che prevede l’espulsione delle imprese che non denunciano la loro condizione di assoggettamento a Cosa nostra, né la presa di posizione dei vertici nazionali dell’organizzazione, che hanno invitato i loro iscritti a recidere i rapporti con le organizzazioni mafiose.
È significativa la circostanza, certamente non casuale, che proprio Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata. Ma indagini e processi, come sottolineato dalla Direzione Nazionale Antimafia, hanno evidenziato anche il persistere di un grave problema di infiltrazioni e collusioni tra famiglie mafiose e pubbliche amministrazioni locali.
Così spiega il meccanismo un’ordinanza del gip di Catanzaro del 13/9/2006, emessa nei confronti di appartenenti al clan Mancuso: «La struttura in esame, inoltre, secondo quanto emerso dalle indagini, è riuscita ad infiltrarsi anche nel settore della pubblica amministrazione, pilota l’assegnazione di gare ed appalti pubblici e quindi beneficia, in modo diretto o indiretto, delle notevoli risorse finanziarie a tal fine stanziate. Dalle indagini è emerso dunque uno spaccato desolante delle attività economiche pubbliche o private svolte nel contesto territoriale sopraindicato: tutte le più significative ed importanti realtà produttive e commerciali appaiono dominate dal potere mafioso che annienta la libertà d’iniziativa economica privata, inquina la gestione della cosa pubblica, in una parola impedisce il reale sviluppo del territorio le cui risorse naturali, lungi dall’essere patrimonio della collettività, in realtà diventano strumento di arricchimento e consolidamento dei componenti del gruppo per cui si procede» ed ancora «I Mancuso erano soliti infiltrarsi ad ogni livello sia economico che politico operando unitamente alle famiglie Piromalli e Pesce sulla zona della Piana di Gioia Tauro. In particolare i Mancuso controllavano tutto il vibonese….».
La Commissione Antimafia della XV Legislatura per la sua prima missione in Calabria ha scelto simbolicamente di cominciare il suo lavoro d’inchiesta nel porto di Gioia Tauro. Si sono svolte lì le prime audizioni. Gioia Tauro ed il suo porto rappresentano la metafora di un processo di modernizzazione senza sviluppo che ha segnato il corso della storia della Calabria da decenni.
È alla fine degli anni ’60, infatti, nel vivo di una straordinaria stagione politica e culturale che animò il dibattito meridionalista che ebbe proprio in Calabria importanti protagonisti, che si afferma la prima grande idea di programmazione degli interventi pubblici. Da allora tanto tempo è passato ma forse quella, al di là delle diverse opinioni, rimane l’ultima grande idea organica di sviluppo della Calabria.
Da quel momento sono cambiate le politiche di intervento verso il Sud al fine di accorciare il divario dal resto del Paese. Rimane però un dato: la Calabria si colloca agli ultimi posti in tutti gli indicatori di sviluppo, economici e sociali. Una storia di illusioni e disincanto che ha animato scontri politici e lotte sociali, dibattiti parlamentari e interessi materiali, grandi inchieste giornalistiche ed azioni giudiziarie.
Una storia complessa con tanti protagonisti e un convitato di pietra: la ‘ndrangheta. II porto, progettato negli anni ‘60 come porto industriale al servizio del mai realizzato V° Centro Siderurgico, venne inaugurato solo nel 1992 e la sua definitiva destinazione fu quella di terminal-hub per containers, sulla base di un progetto dell’imprenditore Angelo Ravano, legale rappresentante della multinazionale Contship Italia, che mirava a farne il principale scalo di transhipment di containers del Mediterraneo.
Il progetto fu condiviso dal Governo dell’epoca, che siglò con il Ravano un apposito “Protocollo di Intesa”. Ed in effetti l’attività avviata dalla Contship e dalla sua filiazione Medcenter Containers Terminal (MCT) si è sviluppata a ritmo elevato, fino a far assumere allo scalo, nel 1995, il ruolo leader nel settore del transhipment nell’area mediterranea.
Le indagini condotte tra il 1996 ed il 1998 dalla Squadra Mobile e dalla Dia di Reggio Calabria, confluite nel processo denominato “Porto”, e conclusosi con la condanna di numerosi imputati, dimostrano come l’interesse e la volontà della ‘ndrangheta di mettere le mani sulla straordinaria occasione di arricchimento costituita dal Porto si fossero manifestate ancor prima che il concessionario iniziasse la sua attività.
Contestualmente, già nella fase ideativa del progetto, si era manifestata la subalternità alla ’ndrangheta della Contship Italia e del suo leader e fondatore Angelo Ravano, con l’obiettivo di realizzare senza ostacoli ed interferenze il suo progetto imprenditoriale.
Ravano mostrava così di considerare l’organizzazione mafiosa non un nemico della libera iniziativa economica, da contrastare e denunciare, ma un interlocutore affidabile e necessario a tutela e garanzia della realizzazione del proprio progetto imprenditoriale.
Il processo, conclusosi nel 2000, ha dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica-industriale mai pensato per il Sud, era stato preceduto da un preventivo accordo tra la multinazionale diretta dall’imprenditore Angelo Ravano e le cosche Piromalli – Molè di Gioia Tauro e Bellocco – Pesce di Rosarno, allora come oggi dominanti nella Piana di Gioia Tauro, unite in un unico cartello e unitariamente rappresentate nelle trattative dal boss Piromalli.
La circostanza, peraltro, non può suscitare meraviglia, poiché da numerose indagini è emerso come le cosche del reggino, a differenza di quelle radicate in altre realtà territoriali, dopo la fine della guerra fratricida, agli inizi degli anni novanta, avevano dato vita ad una sorta di rete federale ai cui vertici sedevano i capi delle maggiori famiglie, con l’obiettivo di gestire e ripartire tra loro gli affari e dirimere eventuali controversie.
L’accordo prevedeva il pagamento di una sorta di “tassa” fissa di un dollaro e mezzo su ogni container trattato in cambio della “sicurezza” complessiva dell’area portuale. La cifra potrebbe apparire irrisoria ma va rapportata al numero complessivo di containers trattati annualmente, quasi 3 milioni oggi e circa 60mila all’epoca, per capire quanto essa rappresenti un’enorme fonte di liquidità.
Per gestire l’affare miliardario dell’estorsione alla Contship, secondo i giudici del Tribunale di Palmi, le cosche della Piana, sia le più importanti che le minori, si erano federate in una sorta di “supercosca”. Il progetto non riguardava solo il pagamento della “tassa sulla sicurezza”, crescente proporzionalmente allo sviluppo delle attività delle società portuale, ma anche quello di ottenere il controllo delle attività legate al porto, dell’assunzione della manodopera e i rapporti con i rappresentanti dei sindacati e delle istituzioni locali.
La ‘ndrangheta, quindi, coglieva l’occasione che le consentiva di uscire dalla sua condizione di arretratezza per divenire protagonista dinamico della “modernizzazione” della Calabria. Il progetto, nonostante l’azione della magistratura, è stato in parte realizzato: esso ha portato, infatti, al sostanziale dissolvimento di qualunque legittima concorrenza da parte di imprese non mafiose o non soggette alla mafia, estromesse dai lavori, dalle forniture, dai servizi e dalle assunzioni di manodopera ed ha introdotto elementi di scarsa trasparenza nei comportamenti di enti ed istituzioni locali.
Tra questi enti spicca il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale che, nei primi anni, era l’unico organo competente in materia di approvazione di progetti, assegnazione di aree, spesa dei finanziamenti etc.
Negli anni a seguire a ciò si sono aggiunti sia la confusione di poteri e competenze tra il Consorzio e la costituita Autorità portuale sia i conseguenti conflitti tra i due Enti aggravati dall’assenza di controlli e di coordinamento da parte della regione e degli altri enti locali.
Dagli elementi raccolti da questa Commissione i problemi evidenziati sono ancora oggi irrisolti. Perdura il controllo diretto o indiretto da parte della ‘ndrangheta su buona parte delle attività economiche riconducibili all’area interessata e la capacità delle cosche di utilizzare le strutture portuali per traffici illeciti, e anche leciti, di varia natura.
Permangono ugualmente scelte e comportamenti di poca trasparenza degli enti titolari di competenze sull’area portuale e sull’adiacente area di sviluppo industriale.
Tale situazione, se non vi si pone rimedio, è inevitabilmente destinata ad aggravarsi in relazione agli ingenti investimenti che nei prossimi anni interesseranno l’intera area di Gioia Tauro e lo sviluppo dello Scalo: – costruzione dell’impianto per la rigassificazione del gas naturale liquefatto, cui si accompagnerebbe la cosiddetta “piastra del freddo”, con l’insediamento di aziende manifatturiere e logistiche legate all’utilizzo del freddo, sottoprodotto dell’impianto principale; – piattaforma logistica intermodale, destinata a sfruttare le grandi aree disponibili per l’allestimento di molteplici servizi collegati allo scalo merci, che verrebbe collegato a differenziate reti di trasporto; – hub automobilistico, destinato ad accogliere i veicoli esportati in Europa dalle industrie dell’Estremo Oriente, con relativo adeguamento di tutte le strutture oggi esistenti. 17 aprile 2022 • DOMANI –
La mafia calabrese alla conquista del mondo
È una strage quella che svela all’Europa la potenza della ‘Ndrangheta. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2007, sei ragazzi sono stati uccisi davanti al ristorante “Da Bruno” a Duisburg, nel cuore della Germania.
Sono tutti calabresi, uno di loro ha in tasca un “santino” bruciato, il segno del battesimo nel crimine che conta. Il massacro ha come movente la vendetta dei clan Nirta-Strangio contro i clan Pelle-Vottari. Una faida antica. Ma la mattanza non è avvenuta a San Luca, è avvenuta in Westfalia. A migliaia di chilometri dall’Aspromonte.
Così si scopre, all’improvviso, che oltre alla Cosa Nostra siciliana e alla Camorra napoletana c’è anche la ‘Ndrangheta calabrese. Nonostante la mafia di Reggio o della costa ionica o di quella tirrenica avesse già conquistato pezzi d’Italia, nonostante due guerre che avevano lasciato a terra centinaia di cadaveri, nonostante magistrati e carabinieri uccisi laggiù nel silenzio più cupo.
E, proprio grazie all’indifferenza e alle complicità, anno dopo anno la ‘Ndrangheta si è presa territori e comprato amici. A Milano, a Torino, in Emilia Romagna, a Roma. E in Olanda, in Lussemburgo, in Belgio, in Canada e anche in Australia.
Dai sequestri di persona ai grandi traffici internazionali di stupefacenti, la cocaina acquistata direttamente dai narcos sudamenticani e distribuita in tutta Europa, affari sporchi e affari puliti, corrieri e infiltrati dentro gli apparati dello stato.
Una forza eversiva dove l’arcaico si mescola con il futuro, leggende e giuramenti, colletti bianchi e fiumi di soldi che inondano e inquinano l’economia legale. Con il quartiere generale che è sempre là, fra l’Aspromonte e la Sila.
Da oggi e per circa quindici giorni sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XV° legislatura – presidente Francesco Forgione – che per prima ha dedicato un’inchiesta interamente sulla ‘Ndrangheta. Sulle sue origini, sulla sua struttura, sul suo esercito, sui suoi legami con la politica e con le logge segrete. E poi sulle sue sterminate ricchezze. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta 12 aprile 2022
La strage di Duisburg, così si scopre la potenza della ‘Ndrangheta
Nel giro di pochi secondi vengono esplosi ben 54 colpi da esecutori spietati e lucidi. Lo testimoniano, fra l’altro le rosate strette sulle fiancate delle macchine, il fatto che, ad azione in corso, i due esecutori abbiano addirittura cambiato i caricatori delle pistole, e il colpo di grazia inflitto con calma e determinazione a tutte le vittime. Gli assassini scompaiono dopo aver completato il lavoro con i colpi di grazia.
Nelle due macchine rimangono i cadaveri di Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi (minorenne), Tommaso Venturi (che proprio quella sera aveva festeggiato i diciotto anni), Francesco e Marco Pergola (20 e 22 anni, fratelli, figli di un ex poliziotto del commissariato di Siderno) e Marco Marmo, principale obiettivo dell’inaudita azione di fuoco perché sospettato di essere stato il custode delle armi utilizzate per uccidere, a San Luca il precedente Natale, Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta.
Le vittime fanno in vario modo riferimento al clan Pelle-Vottari, in lotta da oltre quindici anni con il clan Nirta-Strangio (non induca in errore il nome del cuoco che, pur chiamandosi Strangio, fa riferimento al clan Pelle Vottari).
Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l’immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l’età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell’Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato – indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale – trovato in tasca a uno dei giovani assassinati.
Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l’opinione pubblica e per le autorità tedesche. In realtà, però, i segni premonitori c’erano già tutti da tempo e la strage di Ferragosto è un indicatore tragico e quasi metaforico della sottovalutazione da parte delle autorità tedesche della ‘ndrangheta e del suo grado di penetrazione e radicamento in quel paese, oltre che in Europa e nel resto del mondo.
La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni settanta e ottanta (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane. Già nel 2001 l’indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca’s aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante “Da Bruno” davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese.
La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l’atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro.
La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. Se nel sottosuolo della civilizzazione europea circolano certi fluidi ribollenti e miasmatici, prima o poi questi fluidi salteranno fuori, non appena si produca una crepa nella superficie.
La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.
Tutto nasce a San Luca
Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell’attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi familiari dell’aristocrazia mafiosa calabrese. I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, ‘Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del ‘91), dall’altro.
La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L’offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni novanta vengono segnati da un’impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l’una, ora l’altra parte in conflitto.
La faida culmina nell’omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (il comportamento, tipico di quella zona, di uomini che, pur non avendo pendenze giudiziarie, si danno a latitanze di fatto, si nascondono per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto.
Come si diceva, vari elementi di questo inaudito episodio colpiscono l’immaginario collettivo e l’intelligenza degli investigatori. Non sfugge, a questi ultimi: – Il ritrovamento, accanto alla sala del ristorante “Da Bruno”, di un locale chiaramente destinato alle pratiche di affiliazione, con tutte le necessarie dotazioni iconografiche. – Il ritrovamento, nel portafogli di una delle vittime, Tommaso Venturi, di un santino di San Michele parzialmente bruciato; chiaro indizio di un’affiliazione celebrata poco prima.
Non sarà inutile al proposito ricordare che qualche ora prima, il 14 agosto, il giovane Venturi aveva festeggiato il diciottesimo compleanno potendosi da ciò desumere che l’ingresso formale nella consorteria mafiosa era stato fatto coincidere (secondo una tradizionale attenzione ai dettagli simbolici) con il passaggio alla maggiore età. – La circostanza che la strage avveniva (come altri episodi topici della faida di San Luca), sempre in prospettiva simbolica e rituale, in un giorno di festa. – Il fatto che gli attentatori parlino il tedesco, come risulta pacificamente da una delle testimonianze raccolte nell’immediatezza del fatto e che dunque appartengano all’immigrazione criminale di seconda generazione o comunque evoluta, poliglotta e dunque più pericolosa.
Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l’ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta–Strangio, e personaggio chiave dell’eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio.
Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull’asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell’attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d’Italia e d’Europa per la partecipazione ad un’azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un’idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca.
Non vi è dubbio che gli appartenenti alla cosca Nirta Strangio fossero consapevoli che il trasferimento della faida dalla Calabria in Germania avrebbe avuto l’effetto di accendere i riflettori sulla ‘ndrangheta generando un’accelerazione investigativa da parte italiana e una presa di coscienza della gravità del fenomeno da parte tedesca. È quanto emerge anche dal contenuto degli incontri tenuti in Germania, da una delegazione della Commissione parlamentare, nella missione preparatoria di questa relazione.
Chi aveva progettato quella strage con modalità così paurosamente spettacolari ne era ben consapevole, sapeva di dover pagare un prezzo e ha deciso di pagarlo pur di affermare la propria supremazia e il proprio progetto di potere criminale. È così che una sanguinosa faida d’Aspromonte (peraltro inserita nella lista delle dieci priorità criminali, stilata nel 2007 dal capo della D.D.A. di Reggio Calabria, Salvatore Boemi) porta all’attenzione dell’Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.
L’origine della parola ‘Ndrangheta
Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.
L’andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari.
La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste.
In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.
Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.
Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona.
A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.
Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori – nell’immaginario collettivo – quasi una dimensione di extraterritorialità. L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso. 12 aprile 2022 • DOMANI
Comuni sciolti per mafia, quando è lo Stato che cerca di “infiltrarsi”
Osservando le dimensioni dei comuni sciolti, Lamezia Terme, con i suoi 70 mila abitanti, è l’unico di dimensioni elevate e dopo due scioglimenti (30 settembre 1991 e 5 novembre 2002) ha intrapreso la strada di una difficile ricostruzione del tessuto democratico. Seguono altri 2 comuni con una popolazione inferiore ai 20 mila abitanti, Melito Porto Salvo (30 settembre 1991 e 28 febbraio 1996) e Roccaforte del Greco (10 febbraio 1996 e 27 ottobre 2003), tutti in provincia di Reggio Calabria. Gli altri scioglimenti hanno riguardato comuni non superiori a 5 mila abitanti quando non di piccolissime dimensioni come Marcedusa, Calanna e Camini, inferiori ai mille abitanti. A conferma della gravissima situazione esistente in alcune realtà il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso, nell’audizione del 7 febbraio 2007, ha affermato: «In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi», sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al governo e al controllo delle istituzioni repubblicane.
Quanto ciò incida non solo sul sistema dei diritti e sul bene comune ma anche sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini ha «segni evidenti e tipici del governo del territorio da parte di amministratori organici alla mafia o collusi e dunque caratteristiche comuni alle amministrazioni sotto il controllo mafioso sono costituiti inoltre dall’assenza di piani regolatori, dell’assoluta inefficienza dei servizi di polizia municipali, da gravi disservizi nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, dal dilagante e distruttivo abusivismo edilizio, da gravi carenze nella manutenzione di infrastrutture primarie (strade, scuole, asili), da assunzioni clientelari di personale, da anomalie nell’affidamento di appalti e servizi pubblici, ma, soprattutto, dalle drammatiche condizioni di dissesto finanziario».