16 marzo 1990 – EMANUELE PIAZZA, il cacciatore di latitanti sciolto nell’acido

 

 


Emanuele Piazza   (Palermo8 dicembre 1960 – Capaci16 marzo 1990) agente segreto italiano assassinato nel 1990 in circostanze mai del tutto chiarite, ad opera di cosa nostra. Il corpo non venne mai ritrovato. Iniziò la sua carriera nella Polizia di Stato, presso la scuola allievi guardie Alessandria. Successivamente assegnato alla Scuola Tecnica Polizia Roma (addestramento metodico con tutte le armi in dotazione) Centro Sportivo Sezione Lotta Fiamme Oro. Dal gruppo sportivo d’ufficio, viene assegnato all’Ispettorato Quirinale servizio scorta dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini ed infine assegnato al centro Interprovinciale Criminalpol della Questura di Roma.

Successivamente, dimessosi ritorna nella propria città natale, operò come agente dei servizi segreti italiani nel SISDE, occupandosi della ricerca di soggetti latitanti. Riuscì a far arrestare il latitante mafioso Giovanni Sammarco ed in seguito ad una perquisizione furono trovate armi, autovetture e motocicli all’interno del quartiere popolare di Palermo denominato Zen. Emanuele Piazza scompare dalla propria abitazione di Palermo in località Sferracavallo, il 16 marzo 1990.

Le indagini sulla scomparsa e sul delitto   Il giorno seguente la sua scomparsa (sabato) avrebbe dovuto partecipare alla festa di compleanno del padre Giustino, ma non si presenta. Preoccupati, il padre ed il fratello Andrea si recano a casa di Emanuele riscontrando la sua assenza, notando in cucina la preparazione della pasta cotta ed una scatola di cibo per il cane un rottweiler di nome Ciad. Il giorno successivo il padre Giustino Piazza, noto avvocato, accompagnato dal fratello Andrea presenteranno denunzia di scomparsa innanzi la squadra mobile di Palermo. Nonostante le sollecitazioni del padre, da quel momento amici e referenti di Emanuele Piazza alzano un muro di silenzio sui loro rapporti, arrivando persino a negare che lavorasse per il Sisde, sin quando il Procuratore della Repubblica Aggiunto Giovanni Falcone dopo molteplici smentite acquisisce conferma ufficiale dal direttore del servizio per le informazioni e la sicurezza democratica Riccardo Malpica, che Piazza fosse stato assunto come agente in prova: era il 22 settembre del 1990. La notizia della scomparsa di Emanuele Piazza venne stata pubblicata a distanza di sei mesi, il primo articolo fu pubblicato dal giornalista del quotidiano la Repubblica Francesco Viviano. La ricostruzione dei fatti avvenne grazie alle rivelazioni di due collaboratori di giustizia (Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante), tra cui il suo stesso assassino, Francesco Onorato: quel 16 marzo Emanuele viene attirato fuori dalla sua abitazione da Onorato, ex pugile e suo vecchio compagno di palestra, con la scusa di cambiare un assegno in un negozio di mobili di Capaci (a pochi minuti di distanza da Sferracavallo). Onorato condusse Piazza in uno scantinato dove l’agente venne strangolato. In seguito il suo cadavere venne sciolto nell’acido in un casolare della campagna di Capaci, a poche centinaia di metri dal luogo dove nel 1992 troverà la morte lo stesso giudice Falcone.

Con sentenza irrevocabile in data 20 maggio 2004 sono stati condannati gli autori materiali dell’omicidio dell’agente Piazza nelle persone di: Biondino Salvatore, Battaglia Giovanni, Troia Antonino, Biondo Salvatore (classe 1955), Scalici Simone, con altra sentenza divenuta irrevocabile Biondo Salvatore ed i collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante.

Probabilmente Salvatore Biondino (braccio destro e tratto in arresto insieme a Salvatore Riina) era al corrente di chi fosse Emanuele Piazza e soprattutto che avesse il compito assegnato dai servizi segreti (altamente riservato) di ricerca dei latitanti. L’ordine dell’omicidio sarebbe stato impartito dunque perché Piazza era diventato troppo scomodo. I familiari di Emanuele Piazza hanno destinato una parte del risarcimento all’Associazione Emanuele Piazza ONLUS, operante prevalentemente all’interno del quartiere San Filippo Neri di Palermo (ZEN)

Le dichiarazioni dei pentiti di mafia Stando alle notizie raccolte da Falcone, Emanuele Piazza avrebbe collaborato ufficialmente coi servizi dal 13 novembre 1989 al 13 febbraio 1990 per la cattura dei latitanti. Le sue soffiate avevano prodotto un paio di arresti ed il reperimento di una base d’appoggio per killer mafiosi e gli sarebbe anche stata consegnata una lista di latitanti da cercare stilata su carta intestata del ministero dell’Interno, tra cui spiccava anche Salvatore RiinaSecondo il collaboratore Onorato, in una di queste occasioni, Piazza venne notato da Salvatore Biondino, della famiglia mafiosa di San Lorenzo e braccio destro di Totò Riina (con cui verrà catturato), mentre scambiava amichevolmente quattro chiacchiere con lui. Poco dopo, Biondino rimproverò Onorato dicendogli: “Che fai, ti abbracci con gli sbirri?” Nel 2009 il collaboratore di giustizia Vito Lo Forte dichiarò che Emanuele Piazza ed Antonino Agostino riuscirono ad impedire che l’attentato dell’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone si compisse, fingendosi sommozzatori e rendendo inoffensivo l’ordigno nelle ore notturne antecedenti al ritrovamento[4]. Tuttavia nel 2011 il pool di periti nominati dal gip di Caltanissetta Lirio Conti ha stabilito che il Dna delle cellule epiteliali, estratte dalla muta subacquea e dal borsone ritrovati sul luogo del fallito attentato, non erano compatibili con quelle di Agostino e Piazza, smentendo così le dichiarazioni di Lo Forte.

 

 

“Dopo l’Addaura Emanuele mi disse: in quell’attentato c’entra la polizia” Parla Gianmarco Piazza, suo fratello con un collega salvò Falcone. “Non ne ho parlato fino ad ora perché avevo paura, non mi fidavo di quelli che indagavano” Cosa le ha confidato Emanuele? “Mio fratello mi ha detto che ad organizzare il fallito attentato contro il giudice Falcone non era stata la mafia, ma era coinvolta la polizia. Ricordo ancora le sue parole: “C’entra la polizia”… “. E perché ha tenuto nascosto tutto questo per tanto tempo? “Perché avevo paura, perché quello che sapevo avrei dovuto riferirlo proprio alla polizia che indagava sul fallito attentato e sull’uccisione di mio fratello”. Nella sua bella casa di Palermo Gianmarco Piazza, avvocato civilista, quarantasei anni, uno dei quattro fratelli di Emanuele – l’agente dei servizi scomparso nel marzo del 1990 mentre cercava di scoprire cosa era accaduto all’Addaura – in quest’intervista con Repubblica svela per la prima volta un segreto su quei candelotti di dinamite piazzati nel giugno del 1989 davanti alla villa di Giovanni Falcone. Emanuele sapeva molto anche sull’uccisione di Vincenzo Agostino, il poliziotto assassinato con sua moglie Ida neanche tre mesi dopo il fallito attentato. Sia Piazza che Agostino – secondo le ultime inchieste – sarebbero stati colpiti perché avevano salvato Falcone da chi lo voleva morto. L’avvocato Gianmarco Piazza, un paio di settimane fa, ha consegnato una memoria ai procuratori di Palermo sui misteri dell’Addaura. Nei prossimi giorni sarà interrogato anche dai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi.

Avvocato, Emanuele le disse proprio quelle parole: c’entra la polizia…
“Con Emanuele avevo un rapporto molto stretto, avevamo vissuto insieme dal 1986 al 1988 in quella casa di Sferracavallo dove lui viveva quando è scomparso. Fra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1989, a Palermo si parlava tanto del fallito attentato contro Falcone, ne parlavamo naturalmente anche a casa, tra noi fratelli, con mio padre. Sulla vicenda Emanuele mi raccontò che lui era sicuro che non era stata Cosa Nostra a fare quell’attentato”.
E lei gli chiese chi era stato?
“Prima lui lasciò intendendere che quella notizia l’aveva appresa per motivi di servizio. Poi, quando gli feci la domanda, rispose secco, senza fare altri commenti: “C’entra la polizia, c’entra qualcuno della polizia…”. Io lo sapevo che Emanuele era un collaboratore del Sisde, che era a conoscenza di tante cose… “.
Non le disse altro Emanuele?
“Non mi disse altro. Io non ho mai saputo un nome o un cognome, sono vent’anni che penso a quella frase di Emanuele sulla polizia, mi arrovello, mi tormento”.
Quella confidenza non l’ha mai comunicata a nessuno, perché? Solo per paura?
“Dopo la scomparsa di Emanuele, tutti i rapporti fra noi e la polizia li ha tenuti mio padre. Dal 1990 nessuno mi ha mai chiesto niente, né sulla scomparsa di mio fratello né sull’attentato all’Addaura. Io, fin dal primo momento, non ho voluto raccontare queste cose agli inquirenti semplicemente perché non avevo fiducia in loro. Come potevo avere fiducia di un commissario – Salvatore D’Aleo – che per scoprire gli assassini di mio fratello seguiva una pista passionale? Come potevo avere fiducia quando un altro poliziotto, grande amico di mio fratello – Vincenzo Di Blasi – dopo la scomparsa di Emanuele non venne mai a trovarci. Mio fratello era legatissimo a lui, non venne a salutarci neanche una volta. A volte, per capire, bastano pochi dettagli. E quello fu un dettaglio che a me diceva tutto. L’unico di cui si fidava mio padre – e ci fidavamo tutti – era Falcone”.
Furono in molti che cominciarono a depistare, a sviare le indagini sulla morte di suo fratello?
“Cominciarono con me, qualche ora dopo la scomparsa di Emanuele. Mi accorsi che qui, vicino a casa mia, un’agente donna mi seguiva e mi stava fotografando con un teleobiettivo. Ero sconcertato. Perché seguivano me? Perché cominciavano le indagini proprio da me? Perché non cercavano invece di salvare Emanuele, che in quei giorni di marzo forse era ancora vivo? Poi, per anni, a casa nostra siamo stati tempestati di telefonate, qualcuno faceva squillare il telefono e poi non rispondeva mai. É come se ci volessero avvertire perennemente. E non erano certo mafiosi”.
Lei ha idea di cosa avesse scoperto Emanuele sul fallito attentato all’Addaura?
“Io so soltanto che dal giorno dell’Addaura mio fratello era diventato sempre più taciturno. E poi, dall’autunno del 1989, sempre più cupo. Era preoccupatissimo. Passava quasi tutti i giorni da casa di mio padre, arrivava di umore nero e di umore nero se ne andava. Poi fece due stranissimi viaggi, lui che non amava viaggiare, gli piaceva stare a Palermo. Nell’estate del 1989 partì per la Tunisia. Ritornò in Tunisia anche nel dicembre di quell’anno. Io credo che abbia fatto quei viaggi per allontanarsi da qui”.
Torniamo agli amici di Emanuele: perché quel poliziotto, così legato a suo fratello, secondo lei non venne mai a trovare voi familiari dopo la scomparsa?
“Fin dall’inizio della sua collaborazione con i servizi segreti, Emanuele naturalmente non parlava molto del suo lavoro. Si limitava a dirci con chi era in contatto. Ci parlava di un capitano dei carabinieri e di due angeli custodi, così li chiamava lui… uno era quel poliziotto, Enzo Di Blasi, con il quale erano stati compagni in palestra, facevano lotta libera a 18 anni. E poi si ritrovarono tutti e due a Roma in polizia. Mio fratello gli voleva bene, ma lui – dopo la scomparsa di Emanuele – non lo abbiamo più visto”.
Lei sostiene di non avere mai avuto fiducia negli inquirenti. Ci sono stati altri episodi che l’hanno spinta a non dire niente in tutti questi anni?
“Molti. E soprattutto uno. Dopo la scomparsa di Emanuele è sparito anche un vigile del fuoco molto amico suo, Gaetano Genova. Si vedevano sempre con Emanuele. Una sera venne a casa mia un giovanissimo poliziotto per cercare di capire cosa sapevo io del loro rapporto. Anche in quella occasione sentii di non fidarmi. Non gli dissi nulla”.
Perché oggi ha deciso di raccontare quello che sa?
“Perché stano affiorando frammenti di verità sulla morte di Emanuele e sull’Addaura. Perché, vent’anni fa, a parte la sfiducia nei confronti degli inquirenti, non potevo sapere che la morte di mio fratello potesse essere in qualche modo collegata al fallito attentato contro il giudice Falcone”
20 ottobre 2010) di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

 

Emanuele Piazza e i “pezzi mancanti” Questa storia è ambientata nella torbida Palermo di inizio anni ‘90. Racconta la vicenda di un giovane ex poliziotto, collaboratore del Sisde, coinvolto in uno dei grandi misteri italiani e barbaramente ucciso da Cosa nostra. Il suo nome è Emanuele Piazza.
Per provare a far luce sulla sua morte è necessario percorrere un labirinto fatto di depistaggi, reticenze e collusioni perché Emanuele non è un poliziotto come tanti altri.
La sua vita ha uno sliding doors il 21 giugno 1989, quando il giudice Giovanni Falcone scampa miracolosamente ad un attentato all’Addaura. 58 candelotti di esplosivo avrebbero dovuto anticipare di tre anni il macabro destino che si compirà il 23 maggio 1992 a Capaci. Ma per Cosa nostra qualcosa va storto.
Sul fallito attentato, sin da subito, si rincorrono voci e indiscrezioni e i giornali iniziano a pubblicare le prime ricostruzioni. La più accreditata rivela che Emanuele Piazza, insieme a un collega poliziotto, Nino Agostino, avrebbe salvato il giudice Falcone individuando il borsone pieno di tritolo e facendo scattare l’allarme. In realtà le certezze su quanto è realmente accaduto nel borgo a 30 chilometri da Palermo sono poche. Pochissime. Si iniziano a intrecciare depistaggi e silenzi. Notizie vere e verosimili. Dubbi, che col passare dei giorni, anziché diminuire, aumentano.
Il mistero dell’Addaura si infittisce ancor più il 5 agosto, quando Agostino viene ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio, incinta, davanti agli occhi del padre in circostanze ancora oggi misteriose.
Emanuele, nonostante il clima di terrore, è ancor più determinato nel voler far luce sul fallito attentato al giudice Falcone e sull’omicidio del collega. In qualità di collaboratore del Sisde, nome in codice Topo, intensifica la sua attività di intelligence sul territorio, in particolare nella borgata di San Lorenzo, uno dei quartieri di Palermo a più alta concentrazione di latitanti. Cerca una pista, una traccia. Tra i componenti della sua rete c’è un coetaneo e amico, si chiama Gaetano Genova. E’ un vigile del fuoco e parente alla lontana di Tommaso Buscetta. I due si vedono spesso.
Tra le strade di San Lorenzo Emanuele incontra anche una vecchia conoscenza, Francesco Onorato, conosciuto in palestra anni prima. Onorato si presenta come un imprenditore in carriera, in realtà è un mafioso di rango, reggente del mandamento di Partanna Mondello. Emanuele sa chi è ma lo frequenta, spera possa fornirgli informazioni sui latitanti della zona. Piazza e Onorato si incontrano spesso all’interno della polleria di Simone Scalici, a Sferracavallo, borgo marinaro alle porte di Palermo. Un pomeriggio ad un loro appuntamento assiste da lontano un personaggio che da quelle parti si vede spesso ma che ama restare nell’ombra. Fuma e osserva con attenzione i due ragazzi. Si chiama Salvatore Biondino, è uno che in Cosa nostra ha fatto carriera fino a diventare l’autista del Capo dei Capi, Totò Riina, oltre ad essere il capomandamento di San Lorenzo. A Biondino non piace quel dialogo e nemmeno il legame tra Onorato e Piazza. E’ insofferente, rabbioso. Non accetta di osservare uno dei suoi uomini parlare agente. Lui sa bene chi è Piazza e non ci mette molto a manifestare il suo disappunto a Onorato: “Ma sei diventato amico di uno sbirro? Fonti istituzionali mi hanno detto che quello è uno dei servizi, dà la caccia ai latitanti. E’ pericoloso. Adesso che sai, provvedi”. Non si sa se Onorato sia già un informatore o meno e comunque non ha più importanza. Le parole di Biondino suonano come una sentenza per lui e per l’amico Emanuele. Onorato sa che per risolvere la questione e salvarsi la pelle c’è una sola soluzione. Così la sera del 15 marzo 1990 si presenta a casa di Piazza e, con la scusa di dover cambiare un assegno in un negozio di mobili poco distante, gli chiede di accompagnarlo. L’auto esce da Sferracavallo, dove abita Emanuele, e imbocca la statale 113 che sale fino a Capaci. Ad attenderli nello scantinato del mobilificio ci sono sei uomini: Salvatore Biondino, Giovanni Battaglia, Antonino Troia, Salvatore Biondo, Simone Scalici e Giovan Battista Ferrante. Piazza viene strangolato da Scalici e portato nel terreno di Giovanni Battaglia, dove il suo corpo è sciolto nell’acido (ndr nel terreno di Giovanni Battaglia sarà rinvenuto anche parte dell’esplosivo utilizzato per la strage di Capaci).
Pochi giorni dopo la stessa sorte tocca a Gaetano Genova. In Cosa nostra gira voce sia un informatore e nel dubbio è meglio eliminare anche lui.
La sera del 17 marzo i familiari di Emanuele iniziano a preoccuparsi. Il ragazzo non si è fatto vedere alla festa di compleanno del padre Giustino e non è da lui. Così il padre, insieme al figlio Andrea, si reca a casa sua. Emanuele è appassionato di animali, ha una scimmia e un rottweiler di nome Ciad. E’ proprio Ciad che li accoglie all’ingresso dell’appartamento, ma di Emanuele nessuna traccia. C’è il pasto per il cane pronto per essere servito, la pasta da scolare, i suoi effetti personali, la sua pistola e anche documenti e denaro. Ma lui no. Le ore trascorrono e di Emanuele nessuna notizia. Il giorno dopo i familiari denunciano la scomparsa alla Questura di Palermo. Ad ascoltare il loro racconto è il capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, che li invita a mantenere il massimo riserbo sulla vicenda. Nel frattempo iniziano a circolare voci su una possibile pista passionale dietro la scomparsa di Emanuele, ma bastano pochi giorni per far perdere consistenza alla tesi.
I mesi passano, tutto tace e le indagini non danno esiti. Si torna a parlare di Emanuele l’11 settembre del 1990, grazie a un articolo di Francesco Viviano su Repubblica. “Aspirante 007 rapito dai clan”. Sì, aspirante, perché Emanuele non era neanche assunto, era in prova. Nel pezzo si legge “E’ un giallo sul quale indaga il giudice Giovanni Falcone. E’ avvenuto il 15 marzo scorso, ma sino a ieri, questo segreto, i servizi se lo sono tenuto ben stretto”.
“E’ stata chiara sin da subito la volontà di depistare, di non fare indagini serie e anche ai giornali la notizia venne data mesi dopo”, ci racconta Andrea Piazza, fratello di Emanuele, avvocato, che dopo 30 anni continua a cercare la verità sulla morte del fratello. E’ lo stesso Andrea ad aiutarci a ricostruire quanto accaduto in quei mesi, partendo dalle prime fasi delle indagini: “A Francesco Onorato si sarebbe potuti arrivare subito – racconta – gli uomini della Mobile erano in possesso di documentazione che portava a lui. I suoi rapporti con Emanuele erano noti, così come i suoi precedenti penali, ma quella pista non fu mai battuta. Così come non venne mai messo in relazione l’omicidio di Emanuele con quello di Gaetano Genova, avvenuto solo 15 giorni dopo. Perché? Era noto alle forze dell’ordine che entrambi erano impegnati nel fornire informazioni sui latitanti e che era stato lo stesso Genova a dare indicazioni fondamentali ad Emanuele per la cattura di Giovanni Sammarco, mafioso e latitante, come racconterà Brusca nel 1996”. Andrea prende fiato e continua il suo racconto. “Le indagini investigative sin dall’inizio furono condizionate negativamente da Arnaldo La Barbera, che disattese anche una specifica direttiva delegata dal giudice Giovanni Falcone. Falcone infatti il 23 marzo dispose di ‘sentire accuratamente tutti i funzionari che ebbero rapporti con Emanuele Piazza’, mentre La Barbera, disattendendo quanto richiesto, il 27 marzo trasmise semplici relazioni di servizio redatte dai singoli funzionari e questo condizionò negativamente le indagini. Peraltro in dibattimento una teste dichiarò, con conoscenza diretta dei fatti, che il contenuto delle relazioni di servizio furono concordate tra gli interessati”.
Insomma, di Emanuele nessuno sa nulla o chi sa tace.
Silenzio, omertà, false piste e indagini che imboccano un vicolo cieco lungo dieci anni, fino al 2000, quando sono le dichiarazioni di due pentiti a far emergere i primi spiragli di verità sulla vicenda. Uno dei due è proprio Francesco Onorato, che racconta della minaccia di Biondino, della scusa del mobilificio, dell’uccisione nello scantinato e del macabro rituale mafioso nelle campagne di Capaci.
A livello giudiziario la parola fine sull’omicidio di Emanuele viene messa nel 2001 quando la Corte d’assise di Palermo conferma le richieste dei PM Di Matteo e Ingroia condannando all’ergastolo Salvatore Biondino, Antonino Troia e Giovanni Battaglia. Trent’anni per Salvatore Biondo (il corto), Salvatore Biondo (il lungo) e Simone Scalici. Destino diverso per i due collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante, che hanno beneficiato dello sconto di pena e sono stati condannati a 12 anni. Erasmo Troia, invece, viene assolto per un vizio di forma procedurale.
Al mosaico mancano però ancora due tasselli: perché le indagini vennero depistate? E Piazza fu davvero coinvolto nell’attentato dell’Addaura?
A portare nuovi elementi sul ruolo di Emanuele quel mattino del 21 giugno 1989 arrivano, nel 1996, le parole del collaboratore di giustizia Francesco Elmo, personaggio molto ben introdotto nella massoneria siciliana e appartenente a Gladio dalla metà degli anni ’80. Nel corso di un interrogatorio Elmo sostiene che Emanuele Piazza sia stato un reclutatore di agenti per Gladio. “Gladio si sarebbe resa responsabile, o comunque compartecipe nel corso degli anni ottanta, di una serie di clamorosi episodi delittuosi avvenuti nella Sicilia occidentale – spiega Elmo – fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, uccisione dell’agente Agostino, omicidio Piersanti Mattarella, omicidio La Torre, omicidio Chinnici, strage di Pizzolungo”. Queste dichiarazioni di Elmo, riportate nella sentenza di primo grado sul delitto di Mauro Rostagno, riaccendono un luce opaca sul coinvolgimento dei gladiatori nel fallito attentato dell’Addaura, sulla figura di Emanuele Piazza e sul rapporto che lo legava a doppio filo ad Agostino e, forse, all’organizzazione paramilitare.
Ma c’è chi sostiene il contrario.
E’ il collaboratore di giustizia Vito Lo Forte, che 2009 dichiara che Piazza e Agostino salvarono il giudice Falcone fingendosi sommozzatori e lanciando l’allarme. La sua versione regge due anni, fino al 2011, quando i periti nominati dal gip di Caltanissetta, Lirio Conti, stabiliscono che il Dna delle cellule epiteliali estratte dalla muta subacquea e dal borsone ritrovati sul luogo del fallito attentato non sono compatibili con quelle di Piazza e Agostino, smentendo così Lo Forte. Quel Dna appartiene ad Angelo Galatolo, boss della famiglia palermitana dell’Acquasanta, già condannato nel primo processo per i fatti dell’Addaura, che secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia Angelo Fontana: “aveva il telecomando in mano, era dietro uno scoglio, a circa 50 metri, in un incavo tracciato dal mare”.  In questo scenario nebuloso, nel 2012, prova a mettere almeno un punto fermo Sergio Lari, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta e titolare dell’inchiesta sui fatti dell’Addaura, che durante un’udienza davanti alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui Fenomeni Mafiosi spiega: “E’ possibile pensare che gli agenti Agostino e Piazza possano aver avuto una responsabilità all’Addaura in accordo o meno con gli uomini di Cosa nostra? A tale riguardo abbiamo le dichiarazioni di Ilardo, registrate dal colonnello Riccio, in cui lui parla di un de relato di terza mano e di possibili responsabilità di Agostino e Piazza in questa vicenda. Abbiamo tuttavia altre dichiarazioni di segno diametralmente opposto, rese da Vito Lo Forte e dal collaboratore Marullo, i quali invece accreditano addirittura una pista secondo la quale Agostino e Piazza avrebbero salvato la vita a Giovanni Falcone, intervenendo vestiti da sub il giorno dell’attentato per far scappare le persone che si trovavano ad organizzare l’attentato stesso. Noi abbiamo fatto l’esame del DNA anche di Agostino e di Piazza per vedere se vi erano reperti utili nel borsone (…) ma non è risultato nulla di tutto ciò. Direi che questa è una pista che allo stato non ha dato esiti”.
Piazza dunque con l’attentato dell’Addaura pare non c’entri nulla, ma allora perché depistare le indagini sull’omicidio di un semplice cacciatore di latitanti? C’entrano forse quelle fonti istituzionali di cui Biondino parlò a Onorato? E perché coinvolgerlo nel fallito attentato dell’Addaura? “Personalmente – racconta il fratello di Emanuele, mentre sul suo volto si scorge un leggero sconforto – non ho elementi per dire se sia stato coinvolto o meno all’Addaura, non mi ha mai parlato di questo. Quel che è certo è che era un agente pienamente operativo. In casa sua venne trovata la lista dei latitanti con la relativa taglia e altro materiale inequivocabile. Era chiaro qual era il suo ruolo, altro non so, anche se fa comodo a tanti ricamare sulla sua vita e sul suo presunto coinvolgimento quel 21 giugno 1989. Serve anche questo a confondere le acque, a nascondere la verità. C’è una cosa però che fa più male di altre – dice Andrea lasciandosi andare ad un’amara riflessione – che i mafiosi uccidono lo metti in conto, è nella loro natura, ma che le istituzioni si rendano protagoniste di depistaggi come questo, no. Dalle istituzioni mi aspetterei altro, anche perché se si fosse trattato davvero solo di un delitto di mafia che bisogno ci sarebbe stato di depistare le indagini?”. Domanda legittima e al momento senza risposta.
La sensazione è che la verità sul caso di Emanuele, come quella sui tanti altri accaduti in quegli anni in Sicilia, si conoscerà solo quando lo Stato deciderà di alzare il velo sotto cui sono sepolti i segreti che partono da quel 21 giugno 1989, passano per Capaci, attraversano via D’Amelio, raggiungono Firenze, Milano e Roma e arrivano fino ai giorni nostri.
“La verità va cercata sul piano storico – si sfoga Andrea Piazza – all’interno di dinamiche di alto profilo internazionale, non attraverso verità processuali condizionate da depistaggi e tecnicamente limitate all’ambito procedurale. Una certezza però già c’è – conclude abbassando lo sguardo – Emanuele di questa tragica sceneggiatura è stato una delle tante vittime innocenti”.
13.10.2020 COSE VOSTRE di Matteo Zilocchi  (con la collaborazione di Andrea Piazza)


Emanuele Piazza il cacciatore di latitanti   Emanuele Piazza. Si fa fatica a parlare, ancora oggi, di quel ragazzo. Come se il mare avesse eroso pure la memoria. Quella villa affacciata sul porto, un piccolo golfo con acqua apparentemente cristallina, la si vede a distanza di chilometri, puntino colorato da indicare col dito, ma piano, con una certa deferenza.

Come se ci fosse paura che anche le onde potessero far vedere gesti o far udire parole ad orecchie indiscrete. Eppure è una storia di quasi trent’anni fa. Trent’anni come l’età in cui morì Emanuele. Nome d’azione “topo”. Capelli scuri – come gli occhi – portati un po’ spettinati. Alto. Di bell’aspetto. Emanuele apparteneva ad una importante famiglia della Palermo centro. I Piazza. Suo padre, Giustino, è ancora oggi un noto avvocato del foro del capoluogo siciliano.

Fin da piccolo, quindi, Emanuele assapora una certa cultura, quella del diritto e della legge, certo che la strada da seguire fosse stata quella della giustizia. E non senza legittime aspirazioni e sogni, come li ha chiunque di noi. Divenuto poliziotto, voleva di più. Lui non era solo uno sbirro.

E quella Palermo, amara e crudele, era il palcoscenico in cui allora si combatteva la guerra tra Stato e Mafia. Una guerra sporca perché i nemici – almeno per chi fosse stato dal lato onorevole della battaglia – si annidavano dentro quelle stesse Istituzioni che combattevano Cosa Nostra.

“Diventerai uno di noi” gli dicevano gli emissari dei Servizi Segreti, che lo corteggiavano come si fa con una bella donna, con promesse che però non sarebbero mai state mantenute. “Ti assumeremo se ci catturi uno di questi qui” e intanto appoggiavano la lista degli allora latitanti mafiosi più pericolosi sulla scrivania.

Su tutti spiccava il nome di lui, il capo, u curtu, Salvatore Riina, per gli amici degli amici Zu’ Totò. Riina era quello che aveva prima fatto la guerra per prendersi Cosa Nostra e farla sua. E poi aveva alzato il tiro. “Scannamu Falcone” era l’imperativo categorico. Il giudice che lo aveva fatto condannare – anche se in contumacia – al Maxi-processo doveva morire.

E in quella guerra sporca, fatta di infami e attentati, di solitudine e di eroi, i giovani palermitani che ci credevano, quelli animati da un alto senso dello Stato e un briciolo di sana incoscienza, schierati tra le fila della giustizia, erano come carne da macello. Prima di Emanuele, morì Vincenzo. Nell’agosto dell’89. Prima ancora ci fu il fallito attentato dell’Addaura. Vittima designata sarebbe dovuto essere proprio Giovanni Falcone.

Emanuele tra l’89 e il febbraio del ’90 fu cacciatore di latitanti. Illuso che ci fosse un futuro ad attenderlo. In quel piccolo borgo di pescatori che è Sferracavallo, tutti sapevano e tutti parlavano, ma sottovoce, senza farsi sentire. E porre domande per cercare risposte fu la sua condanna a morte.

Fatto sparire una sera di marzo, il suo corpo – si disse – fu sciolto nell’acido. Non un segno di scasso fu rinvenuto in quella villetta che si affaccia sul mare. Emanuele Piazza aprì la porta ai suoi assassini. Li conosceva. Era loro “amico”. Perché il confine tra bene e male spesso non è così chiaro come sembra. Perché – come insegnava Beppe Montana – se vuoi fare il poliziotto, tu devi parlare con i mafiosi o con i loro amici. Ti devi far raccontare tutto per capire meccanismi e conoscere situazioni. Perché, alla fin fine, tutti sanno. E tutti parlano.

Alcuni assassini sono stati condannati – chi all’ergastolo chi a trent’anni. C’è stato anche chi è stato assolto. Nessun esponente dei Servizi ha pagato. Lo Stato Italiano si è auto-assolto. Dall’enorme responsabilità di aver mandato a morire un suo figlio. Un ragazzo. Si chiamava Emanuele Piazza. Faceva il cacciatore di latitanti.  Francesco Trotta – Cosa Vostra 13.3.2020


Emanuele Piazza, 30anni dopo: dove sono i mandanti?  INTERVISTA ALL’AVVOCATO ANDREA PIAZZA, fratello di Emanuele, collaboratore esterno del SISDE, ammazzato nel marzo del 1990. Gli esecutori materiali sono stati arrestati e condannati. Ma chi manca all’appello? Quali sono le «menti raffinatissime» che hanno progettato l’omicidio? I depistaggi di Stato hanno nascosto la verità sull’omicidio del giovane poliziotto. Nel marzo del 1990, in Sicilia, scompare un giovane poliziotto. Era il collega di Nino Agostino, ammazzato insieme a sua moglie, il 5 agosto del 1989, da Cosa nostra (ma non solo). Entrambi sono legati alla vicenda dell’Addaura (21 giugno del 1989), la località marittima dove Giovanni Falcone passava le sue poche ore di relax. Dove si registrò il famoso tentativo (fallito), organizzato dalle «menti raffinatissime», per eliminare il magistrato. Offeso e dileggiato in vita e diventato “eroe” dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992). «Sventurato il paese che ha bisogno di eroi» diceva il poeta Bertolt Brecht. In questo strano Paese, con la memoria corta, non abbiamo più bisogno di eroi. Ma di persone oneste. Ammazzate da entità sconosciute. Alcuni ricordati e commemorati solo dopo la morte. E in vita? Perché non siamo stati attenti quando queste persone erano vive? «Si diventa credibili solo dopo la morte» diceva amaramente Falcone. Ed aveva capito tutto. Emanuele Piazza collaborava con il Sisde, il servizio (segreto) per le informazioni e la sicurezza democratica (coinvolto in diversi e gravi scandali). Emanuele arrestava i latitanti. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. E per ricordare l’ennesima vittima di mafia abbiamo deciso di raccogliere il pensiero del fratello di Emanuele, l’avvocato Andrea Piazza (nella foto in basso), impegnato in questi anni a portare nelle scuole la sua testimonianza. Oltre all’Associazione che porta il nome di Emanuele è attivo, insieme a Carmine Mancuso (figlio di Lenin, maresciallo della polizia, assegnato alla scorta del giudice Cesare Terranova, uccisi entrambi da Cosa nostra il 25 settembre del 1979 a Palermo), nell’Associazione “Memoria dei caduti nella lotta contro la mafia”, dove ricopre il ruolo di segretario. «La finalità è quella di cercare di avere un ricordo uniforme. Abbiamo fatto, come associazione, anche una proposta per un regolamento commemorativo. Soprattutto per evitare che ci siano vittime di serie a, di serie b e di serie c».

Soffermiamoci sulla figura di suo fratello Emanuele. Sono passati trent’anni dal suo omicidio. «Emanuele è scomparso a 29 anni e ne sono passati 30 da quel giorno. Questa è una giornata con una valenza simbolica particolare. Gli esecutori materiali sono stati tutti condannati, circa nove soggetti. Tra cui due collaboratori di giustizia: Ferrante e Onorato. È stata certificata, a distanza di mesi, la sua appartenenza, come collaboratore esterno, al Sisde. In prima battuta il Sisde ha sempre negato, poi su input di Falcone, hanno ammesso la collaborazione. Le indagini nella prima fase sono state assolutamente inutili. C’era La Barbera (capo della squadra mobile di Palermonda), quello che ha creato il depistaggio sulla strage di via D’Amelio con il falso collaboratore di giustizia Scarantino, che nella fase iniziale avrebbe potuto benissimo avere elementi per arrivare alla verità».

 Invece? «C’è stata la volontà di non fare le indagini. Anche la notizia sulla stampa è passata dopo tanti mesi. Emanuele scompare a marzo e la pubblicazione arriva a settembre, dopo sei mesi, con l’articolo di Francesco Viviano di Repubblica. Questi sei mesi sono serviti non per fare le indagini ma per confondere le acque. Poi c’era la documentazione che poteva portare a Francesco Onorato, il collaboratore di giustizia che ha partecipato materialmente all’omicidio di Emanuele. Onorato non è mai stato chiamato, nonostante fosse un soggetto già con precedenti penali. C’è stata la volontà di non fare nulla. Così anche la circostanza, nonostante fosse stata disposta da Falcone perché era lui che portava avanti le indagini, di sentire i funzionari di polizia che avevano avuto rapporti con Emanuele. Anziché essere ascoltati accuratamente presentarono una relazione di servizio e, processualmente, si accertò che erano state tra di loro concordate. C’è stata solo un’attività finalizzata a screditare. In quel periodo Emanuele aveva fatto arrestare un latitante, un certo Sammarco, e fece scoprire un deposito di armi. Tutte queste cose non sono mai emerse dalla prima indagine. Nella fase iniziale la vicenda di Emanuele è stata destinata al nulla. In tutte queste vicende nostrane restano sempre oscuri i mandanti. Oltre ai due collaboratori c’era pure l’uomo di Salvatore Riina, Salvatore Biondino, che ha preso trent’anni. Come sulle stragi del ’92, dove Cosa nostra c’entra marginalmente, tutto si basa sempre sul discorso del movente, peraltro ci sono pure i depistaggi di Stato. Se fosse una questione solo di mafia non ci sarebbe il depistaggio. Queste vicende sono di caratura internazionale. C’è una schematicità che si ripete in ordine a questi eventi. Si crea un colpevole apparente per nascondere tutto il resto. In questo mi allineo totalmente al pensiero della famiglia Borsellino. Inquadro la vicenda in un quadro internazionale, con dinamiche di grossi flussi di interessi.»

 C’è una data importante da ricordare: 21 giugno 1989. Quel giorno viene sventato all’Addaura un attentato contro il giudice Falcone. «Se Emanuele ha potuto o meno essere utile per evitare la strage? Non ho elementi validi per affermarlo. Aveva una sua carriera in polizia, che poi lasciò di colpo. Aveva preso parte al gruppo sportivo di lotta libera, poi aveva fatto la scorta a Pertini e poi era finito alla Criminalpol con De Gennaro, di cui aveva un’idea assolutamente negativa. Secondo gli esecutori materiali è stato ucciso perché era alla ricerca di latitanti».

 Ma questa motivazione, la ricerca di latitanti, cozza con il depistaggio. Perché depistare? «I mafiosi sono stati impiegati come subappaltatori, come esecutori apparenti».

 Suo fratello cominciò ad indagare sulla morte del collega Agostino, ucciso qualche mese prima. «C’è stata una riunione, dove risulta che lui ha dato degli indizi sull’omicidio».

 C’è una frase riferita da suo fratello Emanuele all’altro suo fratello Gianmarco: «In quell’attentato (Addaura,nda) c’entra la polizia». «Abbiamo due visioni completamente diverse. Quando passano gli anni si possono fondere i pensieri con qualcosa che si ricordava».

 Quindi non è d’accordo su questa affermazione? «Tutto può essere, in un’ottica di dinamiche di caratura internazionale».

 Dove è stato ucciso Emanuele? «A Capaci, poco distante dal luogo della strage, nei pressi della torretta dove erano presenti i rappresentanti di Cosa nostra».

 Tra gli esecutori materiali c’è un certo Troia Erasmo, assolto in Cassazione per un vizio procedurale nel procedimento di estradizione dal Canada. Che fine ha fatto questo soggetto? «Fu arrestato in Canada, quando fu emesso il decreto di estradizione gli fu contestato un omicidio e dimenticarono di contestare l’omicidio di Emanuele Piazza. È stato fin dall’inizio presente al processo, è stato condannato in primo grado e in appello. Poi in Cassazione, per questo vizio procedurale, è stato assolto. Oggi dovrebbe essere a piede libero».

Gli esecutori materiali sono stati arrestati e condannati. Per i mandanti, secondo lei, dobbiamo aspettare ancora molto? «Non c’è più niente da fare. Il sistema non è idoneo, non è pronto per arrivare ad un livello superiore. Noi viviamo di verità apparente, legata alla semplicità dei fatti. In tutti gli omicidi eccellenti i mandanti restano sempre oscuri. In tante occasioni la Sicilia è stata utilizzata per eliminare personaggi scomodi. Nella relazione di minoranza sulla mafia, della Commissione Antimafia del ’76, è evidente che quando c’è stato lo sbarco degli americani ci si è avvalsi del gangsterismo italo-americano, una forma di legame profondo. Considero la mafia un unicum, uno Stato nello Stato. I depistaggi di Stato ci sono solo nelle vicende di mafia. La mafia è dentro il sistema».

 Come è cambiata la sua vita dopo la morte di suo fratello? «Sono vicende che si ripercuotono su tutte le persone vicine alla vittima, che possono cambiare anche la prospettiva di vita. La mia visione delle Istituzioni è ancora più negativa: dovrebbero essere da esempio invece, spesso, accade che, attraverso gli uomini che le rappresentano, sono ancora peggio». WORDNEWS Paolo De Chiara 16, 2020 


IL poliziotto buono che fu sciolto nell’acido, Cacciatore racconta la morte di Emanuele Piazza Volevo gustarmelo fino alla fine e con calma, proprio come ogni thriller che si rispetti e di cui non vuoi sapere la fine. Ti prende la storia ricostruita da Giacomo Cacciatore, lo scenario che la ospita, una Palermo quasi giornalmente insanguinata da faide tra clan mafiosi, la figura di questo Serpico palestrato e amante degli animali che faceva il poliziotto. Forse, perché anche il ruolo ufficiale di Emanuele Piazza è rimasto per lungo tempo avvolto nel giallo, come la sua scomparsa. Inghiottito un giorno dal nulla e mai tornato a casa, con la memoria intrappolata in una spy story ancora oggi aggrovigliata e con molte ombre. Dicono di lui…questa è stata l’unica certezza, la «consolazione» che un processo ha dato ai suoi familiari. Ma non è bastato a tacitare mille domande sul ventinovenne 007 invisibile che teneva in un cassetto di casa la lista dei 136 latitanti più ricercati. Omertà istituzionali, ritardi, depistaggi.

Ci sono tutti gli ingredienti di un romanzo in Uno sbirro non lo salva nessuno, ma di immaginato non c’è niente. La cruda verità degli atti giudiziari supera la fantasia e scrive una delle pagine più misteriose degli anni che precedono le grandi stragi di mafia. Anni di piombo, e non è un eufemismo, nei quali anche i rapporti tra buoni e cattivi avevano contorni sfumati. Emanuele conosceva bene il boss Ciccio Onorato. Erano cresciuti nella stessa borgata, frequentavano la stessa palestra. Un rapporto però sempre molto riservato: «Che due amici debbano fingere di non conoscersi o, al massimo, mostrare di essere legati da un saluto o poco più – scrive Cacciatore – non è stata Palermo a deciderlo, in questo 1989, ma chi ne governa una fetta: il mandamento mafioso di San Lorenzo. Perchè in un territorio che comprende Sferracavallo, Tommaso Natale, Mondello e Capaci ci si può considerare vicini di casa, sì è “zona nostra”, ti costringono a dire. Anche se tra le case e le vite di ognuno ci sono di mezzo chilometri. E scopi diametralmente opposti e aspirazioni agli antipodi». Emanuele ha un obiettivo preciso: diventare investigatore.

Entra in polizia nel 1980. Frequenta per sette mesi un corso di addestramento per le teste di cuoio e nell’83 lo assegnano alla scorta del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ma lui vuole essere operativo e lo trasferiscono alla Narcotici di Roma. Un passaggio che lo porterà quattro anni dopo a rassegnare le dimissioni. Era improvvisamente deluso e incupito. Cosa era successo, non lo svelerà mai a chiare lettere.

Come non parlerà del suo vero lavoro, agente dei Servizi segreti. Il Sisde lo confermò solo a sette mesi dalla scomparsa, alla quale si diede una giustificazione solo nel 1996. Per primo ne parlò Giovan Battista Ferrante: «Ho partecipato all’assassinio di un giovane robusto, proprietario di un cane e agente dei Servizi, che andava in giro a chiedere notizie sui latitanti con in mano un elenco di taglie…». Non ricordava il nome, ma tutti i particolari per fare sparire il cadavere. «Messo in due sacchi e sciolto in un bidone con l’acido solforico, in un stalla ai margini del paese di Capaci». Unico testimone, un cavallo. Ma le voci corrono, almeno tra gli umani, e la cosa era risaputa pure dall’amico Ciccio Onorato. Lo ammise più tardi, da pentito: «Uno sbirro buono di fronte a Cosa Nostra non lo salva nessuno». di Connie Transirico — 19 Ottobre 2017 Giornale di Sicilia

 
 
a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco