ROBERTO ANTIOCA

 
Ninni Cassarà e Roberto Antioca



VIDEO


Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Un’amicizia sino all’estremo sacrificio di Pippo Giordano


Roberto Antiochia (Terni, 7 giugno 1962Palermo, 6 agosto 1985poliziotto assassinato da Cosa nostra.  Agente della Polizia di Stato, nato a Terni e cresciuto a Roma nel quartiere Nomentano, dopo aver frequentato il Liceo Classico ed il Liceo artistico entra a diciotto anni nella scuola di Polizia di Piacenza  e, successivamente, viene trasferito a Milano, Torino e Roma. La sua ultima destinazione, nel giugno 1983 è presso la squadra mobile di Palermo, dove lavora con Beppe Montana in delicate indagini sull’associazione mafiosa Cosa Nostra. Dopo l’omicidio di Montana, in ferie ma già trasferito a Roma, decide di partecipare alle indagini a fianco di Ninni Cassarà.

Il 6 agosto 1985, mentre accompagna il Vice Questore Cassarà presso la sua abitazione in via Croce Rossa a Palermo, un gruppo di nove uomini armati di kalashnikov,appostati nel palazzo di fronte a quello dove vive il vice questore, cominciano a sparare sull’Alfetta di scorta. Antiochia, cercando di fare scudo con il suo corpo a Cassarà, sceso dall’auto per raggiungere il portone di casa, rimane ucciso dagli spari. Cassarà, rimasto ferito dagli innumerevoli spari dei mitra, riesce a raggiungere il portone, ma spira sulle scale di casa tra le braccia della moglie Laura, accorsa dopo aver visto l’accaduto insieme alla figlia dal balcone della sua abitazione.

Il 17 febbraio 1995, la terza sezione della Corte d’Assise di Palermo condanna all’ergastolo cinque componenti della Cupola mafiosa (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia) come mandanti del delitto. A Roberto Antiochia sono dedicati la via antistante la Questura di Terni, la scuola per il Controllo del Territorio della Polizia di Stato di Pescara e il commissariato di Orvieto (in Provincia di Terni), vista la sua nascita e la sua infanzia nella città umbra. È ricordato ogni anno il 21 marzo nella Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi. Di questa associazione era stata cofondatrice Saveria Antiochia, madre di Roberto, che fu attivista dell’impegno civile. È inoltre in lavorazione una fiction della Rai dedicata al poliziotto umbro.


Roberto Antiochia. Poliziotto e amico di Ninni Cassarà Da Valentina Nicole Savino1 agosto 2019 Cosa VOSTRA. La voce di Roberto Antiochia ha riecheggiato in quella della madre Saveria fino alla morte di lei, nel 2011, dopo quasi trent’anni di lotte come testimone dell’antimafia in onore del figlio: prima col circolo Società Civile, poi con Libera. Una voce matura e disincantata, impegnata a rievocarne alla memoria collettiva una più sottile, più giovane: quella del figlio Roberto.

Roberto Antiochia aveva 18 anni quando entrò nella polizia, assegnato prima alla questura di Torino, poi alla Criminalpol di Roma, infine alla Squadra Mobile di Palermo. Ne aveva appena 23 quando morì, il 6 agosto 1985, freddato dai killer – dapprima otto (“Otto killer massacrano due bravi poliziotti”), il loro numero si estese poi a nove, infine, tra esecutori e postazioni di copertura, il conteggio totale divenne diciotto – accucciati di fronte alla casa del vice capo della Squadra Mobile Antonino Cassarà, detto Ninni, che di anni ne aveva 38.

Al fianco di Cassarà collaborava la cosiddetta Squadra Catturandi, organizzata in seno alla quinta sezione investigativa antimafia dal commissario Beppe Montana. Malgrado la giovane età, Roberto Antiochia era stato scelto dal commissario per farne parte, così, arrivato a Palermo nel giugno 1983, si era subito prestato alle operazioni di quella che era considerata una delle migliori squadre di polizia a livello nazionale.

La Squadra Catturandi aveva dato nuovo impulso alla lotta contro Cosa Nostra: importante era stata l’operazione “Pizza Connection” portata a termine con l’aiuto dell’FBI, che aveva portato all’arresto di decine di mafiosi tra l’Italia e gli Stati Uniti.

Roberto, inoltre, prendeva parte attiva alla vita della Squadra al termine di un triennio particolarmente sanguinoso: tra il 1981 e il 1983 si erano verificati numerosi omicidi interni a Cosa Nostra miranti a riorganizzarne i vertici (la cosiddetta “seconda guerra di mafia”), mentre magistratura e forze dell’ordine lavoravano a stretto contatto per dipanare le trame criminali.

Quando nel 1984 Tommaso Buscetta decise di collaborare con Giovanni Falcone, vennero poste le basi per il Maxiprocesso che sarebbe iniziato nel febbraio 1986. Qualche mese dopo la morte di Roberto.

Roberto Antiochia aveva lavorato con Beppe Montana e Ninni Cassarà nella Squadra per un anno e mezzo, fino alle fine del 1984, quindi si era trasferito a Roma. I tre avevano collaborato fianco a fianco con pochi mezzi e tanta intraprendenza; le giornate, e a volte persino le notti, scorrevano tra gli inseguimenti su Alfette moribonde o auto private. Si pagavano gli informatori di propria tasca, persino i computer scarseggiavano.

Tra un inseguimento e l’altro Roberto chiamava la fidanzata Cristina, costretta all’apprensione solo come un giovane amante potrebbe esserlo nei confronti dell’amato che ogni giorno rischia la propria vita, e la tranquillizzava dicendo che le pallottole per i “rosci” (era rosso di capelli) ancora non le avevano inventate al mondo.

Grazie alla forza di questa sua ironia giovane e sfacciata che questa immagine porta con sé, quasi riusciamo a rievocarlo davanti agli occhi, lui e Cristina, mentre si scambiano rassicurazioni e tenerezze, qualche mese prima di quello che sarebbe dovuto essere il loro matrimonio, e che invece sarà tragedia.

Dopo gli scambi telefonici ripartivano le corse, gli accerchiamenti, le indagine serrate, che interrompevano bruscamente il ritmo della quotidianità lasciando a malapena tempo per i pasti.

E così freneticamente arrivò a Roberto la notizia della morte di Beppe Montana, dai giornali che egli lesse mentre si trovava in vacanza. Appresa la morte dell’amico amico Beppe Montana, egli si precipita a Palermo, quindi decide di prolungare la sua permanenza nella città indefinitamente per dare man forte alle indagini e per proteggere Aveva detto: “Darei la vita per salvare Ninnì”, quel Ninni che non era soltanto il vice comandante, ma era in primo luogo il suo amico Ninni.

E insieme vennero uccisi in via Croce Rossa (l’ironia della sorte che si riverbera anche sui nomi delle strade), dall’ammezzato di un edificio vicino le cui finestre davano sul cortile interno della casa di Cassarà, un 6 agosto in cui Roberto aveva insistito per scortare l’amico mentre tornava da sua moglie e i suoi figli.

I colpi sparati dal Kalashnikov furono decine. Oltre a Roberto e Antonino morti sul colpo, un terzo agente venne gravemente ferito e il quarto, l’assistente Natale Mondo (che verrà poi assassinato il 14 gennaio del 1988), si salvò per miracolo riparandosi sotto alla vettura.

Nel 1997 alla sua memoria verrà intitolata la nuova sede del Commissariato di Orvieto e successivamente la via della nuova Questura, a entrambe le cerimonie parteciperà la madre Saveria e nella voce di questa, l’eco della voce giovane e coraggiosa di Roberto.

 

 


La lettera inviata al Ministro dell’Interno dalla Sognora Saverio, mamma di Roberto Antioca

 
“SIGNOR ministro degli Interni, ho letto e riletto le sue parole e i suoi giudizi su quanto accade a Palermo e le scrivo per dirle che il mio dolore di madre è diventato anche rabbia, la stessa rabbia dei poliziotti di quella città. Ho visto anch’io cose penose a Palermo e, in particolare, escludendo l’accorata sincera umanità del presidente Cossiga, mi è pesata la presenza dei soliti coccodrilli di Stato all’ennesima funzione in morte di un poliziotto.
Parlo del funerale di mio figlio Roberto. Aveva 23 anni, la sua breve stagione si è conclusa con una raffica di mitra. Aveva lasciato gli studi, la nostra casa, prospettive di lavoro con il fratello maggiore, per entrare con grande entusiasmo in polizia. Aveva un ideale di giustizia e di legalità, sperava di dare un volto nuovo e più efficiente alla polizia, credeva di poter combattere malavita e mafia, credeva di poter migliorare questa società corrotta e degradata. PER un anno e mezzo a Palermo aveva lavorato con Cassarà e Montana. Le difficoltà, la solitudine, la precarietà della Squadra mobile invece di scoraggiarlo avevano aumentato il suo attaccamento al lavoro, ai superiori amici, ai colleghi, molti dei quali erano diventati per lui come fratelli. Era stato trasferito a Roma a fine dicembre 1984, per accontentare la fidanzata e me, che non ce la facevamo più a vivere con tanta ansia e paura.
Era rimasto però con gran parte del suo cuore a Palermo dove tornava in licenza e, alla fine, pure in ferie. Ci era tornato per i funerali di Montana e aveva chiesto di riprendere temporaneamente servizio a Palermo, rendendosi conto della situazione disperata, pericolosissima. Sapeva che il suo governo e il suo ministero, come sempre lontani mille miglia, avrebbero prodotto solo parole. La Squadra mobile e i pochi funzionari rimasti erano soli. Cassarà in prima linea. Non gli era stata affidata l’inchiesta sull’assassinio di Montana, chissà perchè. Non gli era stata messa una camionetta, che dico, un solo agente di guardia sotto casa. Mancavano sempre i mezzi, a quanto pare. Cose strane sono accadute a Palermo in quei giorni. Un giornalista di “Repubblica” le ha chiesto, signor ministro, perchè a Palermo lo Stato avesse un “esercito di cartapesta”. Forse perchè fa comodo a molti, rispondo io. Giusto, signor ministro, niente bugie di Stato, e lasciamo anche da parte la retorica sul sacrificio fatto per servire lo Stato. Mio figlio è morto per la Squadra mobile di Palermo, per la sua Squadra mobile. E’ morto nel volontario, disperato tentativo di dare al suo superiore e amico Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero dovuto dargli, in ben altra proporzione, sapendo quanto fosse preziosa la sua opera e in quale tremendo pericolo fosse la sua vita.
Per questo provo tanta amarezza e tanto rancore verso questo potere governativo cieco e sordo, che raramente mantiene le sue promesse.
Con questo Stato la lotta contro la mafia è davvero impari. Anche lei fa parte di quel potere governativo, signor ministro. Ha fatto bene a non venire da me al Duomo di Palermo, non avrei potuto stringerle la mano e tanto meno lo potrei oggi. Lei ha scoperto solo adesso quello che succede a Palermo: le due Questure, la Squadra mobile isolata e con mezzi assolutamente inadeguati, le infiltrazioni mafiose. Ma, mi scusi signor ministro degli Interni, lei dove vive? Di quali Interni si è occupato in questi anni del suo incarico? Come fa a non sapere quello che la maggioranza degli italiani conosce da tanto tempo perchè ripetutamente denunciato dai magistrati, dai dirigenti della polizia siciliana? Non legge i giornali, non guarda la Tv? Davvero lei adesso si sta informando? Davvero ha ancora bisogno di relazioni ministeriali per sapere? NIENTE bugie di Stato, ma non solo per la morte del giovane Marino. Niente bugie di Stato, signor ministro, anche sulle ragioni della contestazione dei poliziotti. Lei dice che è avvenuta solo a causa delle sospensioni e dei trasferimenti da lei decisi. E invece quella contestazione, fatta da un gruppo di uomini generosi, capaci e coraggiosi, ma ormai esasperati e delusi, viene da lontano. Viene da anni di lavoro durissimo e rischioso, in condizioni sempre più precarie. Viene da vane speranze, da promesse disattese. Viene da quel tragico corteo di morti, di colleghi e superiori barbaramente uccisi. Niente bugie di Stato, lei non vuole sentirsi dire che ha decapitato la Squadra mobile con quei trasferimenti, dice che è falso perchè è stata affidata a un funzionario esperto. Non dubito che quel funzionario sia ottima e capace persona, ma ha dichiarato lui stesso, proveniente da Firenze, di non conoscere nemmeno le strade di Palermo.
Lei parla di sue decisioni sofferte, ma la sofferenza la lasci a noi che abbiamo avuto i morti. Lei dice che avrebbe dovuto dimettersi se non avesse agito in quel modo. Forse avrebbe fatto meglio, invece ha scelto di “dimettere” subito, e senza certezza di colpa, persone che non hanno poltrone preziose come la sua. Niente bugie di Stato, lei accetta l’ipotesi di infiltrazioni mafiose, forse in Questura, forse nella Squadra stessa. E allora che fa? Si accontenta di essere stato bravo a capire? Se ci sono ce le teniamo queste spie?
Sono anni che vengono denunciate, pensiamo alla morte di Boris Giuliano, alla morte annunciata di Rocco Chinnici. E la mafia non avrà calato la sua mano pesante anche nella strana vicenda che ha portato alla morte di Marino? Che tragedia, signor ministro, e quanto grande e terribile è la sua responsabilità. Ho vissuto vicino a mio figlio in questi anni, ho soggiornato spesso a Palermo, ho conosciuto funzionari e colleghi. Ho visto che non avevano le macchine chieste da più di un anno, ho visto le alfette da inseguimento della Squadra mobile rattoppate, malridotte e riconoscibili anche dai bambini. Ho visto gli agenti usare le macchine personali o farsele prestare dagli amici. Ho visto disputarsi l’intera Squadra l’unico binocolo a disposizione. Ho visto i funzionari pagare gli informatori di tasca loro. Sono solo esempi, piccoli esempi di una grande sordità. Se lei fosse stato meno preoccupato per la sua incolumità, il 7 agosto, al Duomo di Palermo, avrebbe sentito in mezzo alle proteste degli agenti le nostre voci disperate. Quella di Assia, la fidanzata di Montana, la mia, quella di Cristina, la fidanzata di mio figlio, quella di Alessandro, ma soprattutto quella di Roberto dalla sua bara. E ora vada pure a dormire tranquillo, signor ministro, recitando le sue preghiere. Io non ci riesco più, me lo impedisce il mio dolore e una rabbia che non è solo mia.”