La MAGISTRATURA italiana e l’inaugurazione dell’ANNO GIUDIZIARIO

 

 

Anno giudiziario al via in Cassazione, Curzio cita Draghi: il peso del Recovery grava sulle spalle dei giovani Il presidente, in una relazione che richiama i valori della Ue, esorta a riformare subito la giustizia Lo sottolinea il Primo Presidente della Cassazione Pietro Curzio nell’apertura dell’anno giudiziario e parlando del Recovery Fund sulle spalle dei giovani. Curzio cita Mario Draghi e le parole dell’ex governatore della Bce per cui “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. A tal fine per Curzio, “dobbiamo rimetterci al lavoro” ciascuno “in adempimento dei propri doveri”.   “La pandemia – prosegue Curzio – ha ulteriormente mostrato l’inadeguatezza del sistema, la gracilità e la vetustà di molti suo gangli, e pone in modo deciso la necessità di un cambiamento profondo e incisivo prima di tutto culturale. Per fare fronte alla crisi si è scelto di impegnare risorse economiche in misura impensabile fino a un anno fa. Ma per ottenere dall’Europa i relativi finanziamenti è necessario tracciare un quadro di riforme, prima tra tutte della giustizia, che dia idonee garanzie di conseguire gli obiettivi prefissati”. 

Allarme per l’aumento dei minori maltrattati durante l’emergenza Covid segnalato dalle Corti di appello: lo lancia il Primo presidente della Cassazione Pietro Curzio in apertura dell’anno giudiziario. “Nell’anno appena trascorso, in assenza di quella stanza di compensazione che è la scuola e di attività esterne, si è riscontrato un silenzioso aumento dei maltrattamenti in famiglia verso minori e più in generale l’incremento di situazioni concernenti minori maltrattati o abbandonati”. Servizi di mediazione familiare sono stati attivati per fare fronte “all’esplosione della aggressività in famiglia legata alla pandemia”, rileva Curzio. “Ci auguriamo che il 2021 sia l’anno della ‘svolta italiana’ all’interno della svolta europea, che il piano prospetta, e che il progetto si trasformi in un processo operativo articolato ed efficace”, afferma Curzio a proposito del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza che prevede investimenti anche nel settore giustizia. In particolare, Curzio ricorda che su “digitalizzazione, semplificazione, nuove risorse umane e strumentali, ufficio del processo” ci sono “impegni precisi” nel Pnrr. “Si segnala in controtendenza rispetto al generale calo delle sopravvenienze, il deciso aumento degli affari di volontaria giurisdizione, in particolare delle amministrazioni di sostegno, verosimilmente riconducibile. in un recente passato, al progressivo invecchiamento della popolazione, ma, attualmente, anche al preoccupante diffondersi di fragilità e patologie di natura psicologica”, sottolinea il Primo presidente della Cassazione 




 LE CORRENTI INTERNE

“Il CSM, a Roma, agisce ed opera in una logica del tutto particolare, secondo me aberrante. Una logica di schieramenti in cui gli interessi delle correnti prevalgono sugli interessi generali. Dove i rappresentanti laici sono portatori degli interessi dei rispettivi partiti, eletti come tali dal Parlamento. Tutto questo costituisce certamente una grossa palla al piede del CSM. A ciò si aggiunge l’incapacità di capire l’importanza di certe decisioni.” Il commento del dottor ANTONINO CAPONNETTO sulla bocciatura del CSM di Giovanni Falcone in sua sostituzione a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo


Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni  di Guido MelisIl saggio ripercorre, in rapida sintesi, le origini e la storia delle correnti della magistratura italiana,  individuando le ragioni professionali ed ideali della formazione di diversi gruppi associativi e gettando uno scandaglio sulla loro evoluzione nel quadro delle vicende del Paese. Sino ai problemi ed alle crisi del presente…



La magistratura (genericamente anche autorità giudiziaria), in diritto, nell’accezione moderna del termine, identifica un complesso di organi istituzionali (pubblici e statali) con funzioni giurisdizionali in campo civile, penale, costituzionale e amministrativo, composta da soggetti definiti “magistrati“.

Funzioni e poteri Esercita il potere giudiziario, uno dei tre poteri dello stato di diritto nella teoria classica di Montesquieu. In generale la magistratura ha infatti competenza su tutte le branche del diritto in cui vi sia una funzione giudicante, e la funzione classica (e per alcuni sistemi tipica) del magistrato è quella di giudice; in dipendenza di questo aspetto si possono perciò avere anche magistrature specializzate per materie (magistratura militare, civile, penale, fallimentare, contabile, tributaria, amministrativa, ecc).

Distinzioni di funzione All’interno dei corpi di magistratura si possono però avere ulteriori distinzioni. Una delle più note, con speciale riferimento al diritto processuale penale, è quella fra magistratura giudicante e magistratura requirente, a seconda che l’ordinamento giuridico di appartenenza preveda che l’ufficio della pubblica accusa sia o meno riservato alla competenza esclusiva di membri appartenenti all’ordine giudiziario, in base cioè alla classificazione formale dei cittadini ammessi a questa funzione pubblica.

Nei sistemi di civil law Nei sistemi di civil law, la magistratura in molti sistemi, ma non tutti, comprende anche la funzione accusatoria e al suo interno perciò, oltre ai giudici, operano anche magistrati chiamati al ruolo di pubblico ministero.

Nei sistemi di common law Nei sistemi di common law , invece, la funzione accusatoria è classicamente delegata al prosecutor,[1] che pertanto non appartiene mai alla magistratura, la quale comprende solo giudici (e ruoli di servizio per la funzione giudicante).

Requisiti per l’accesso A seconda degli ordinamenti, la magistratura si differenzia inoltre per la modalità di accesso ai ruoli, cioè per il modo di scelta di coloro che dovranno farne parte. In genere la selezione si effettua per titoli (cioè per possesso di determinati requisiti) o per concorso, oppure si ha la nomina elettiva; in alcuni sistemi si hanno anche combinazioni fra queste modalità o modalità differenziate per i diversi ruoli previsti. Le magistrature possono poi, in alcuni sistemi, godere di un autonomo organismo di controllo e gestione del suo operare interno allo stesso ordine giudiziario, organismo che ha perciò funzioni di “autogoverno”.

L’indipendenza Le magistrature statali si differenziano infine per il grado di indipendenza loro garantito nei rispettivi sistemi, con particolare riguardo ai rapporti con gli altri poteri dello stato (potere legislativo e potere esecutivo). A questo aspetto possono legarsi immunità o altre garanzie, anche incidenti sulla responsabilità relativa all’operato dei magistrati, dove queste siano riconosciute necessarie per preservare l’azione giudiziaria da condizionamenti o menomazioni della libertà di espletamento della funzione. A garanzia di interessi più generali, invece, molti ordinamenti prevedono norme con vario grado di rigorosità statuenti principi di inamovibilità e non ricusabilità (almeno dove risulterebbe ingiustificata) del magistrato. L’accesso alla magistratura italiana avviene per concorso pubblico, secondo i principi stabiliti dalla Costituzione repubblicana.

La giurisprudenza della CEDU  Nelle sentenze sui casi Scoppola e Previti la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che “a causa del carattere generale delle leggi il testo di queste (…) non può presentare una precisione assoluta” posto che si serve di “formule più o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica; pertanto in qualsiasi ordinamento giuridico per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge ivi compresa una disposizione di diritto penale”, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziari; del resto è solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale”[2].

Pertanto, «il mito del giudice bocca della legge non può coesistere con le dinamiche sociali contemporanee, in quanto lo stesso partecipa strutturalmente al processo formativo del diritto, al fine di rispondere a esigenze di giustizia, alla necessità di colmare le lacune normative e di adeguare la disciplina alla realtà che muta più veloce dei processi legislativi»[3].  WIKYWAND 

Note

  1. ^ Negli ordinamenti di common law il prosecutor, che svolge le funzioni di pubblico ministero nel processo penale, è tipicamente un avvocato; nell’esercizio di tali funzioni è considerato un professionista legale, soggetto alle relative responsabilità, sebbene dipenda dallo stato o da un ente pubblico territoriale.
    Va notato che, a rigore, nel diritto inglese il prosecutor, pur essendo organo pubblico, non esercita un’azione pubblica ma formalmente un’azione popolare, la stessa che potrebbe esercitare qualunque cittadino in qualità di private prosecutor. In questo senso va intesa la tradizionale affermazione secondo cui nel diritto inglese non esisterebbe il pubblico ministero. In molti ordinamenti di common law (Australia, Canada, Inghilterra e Galles, Irlanda del Nord, Sudafrica, ecc.) i prosecutor fanno capo al director of public prosecutions, di nomina governativa; questo, di solito, dipende a sua volta dall’attorney general, che fa parte del governo, ma alcune costituzioni più recenti (ad esempio quella sudafricana) tendono a garantirgli una posizione d’indipendenza. In altri ordinamenti i prosecutor fanno invece capo dall’attorney general. Negli Stati Uniti i prosecutors che operano presso le corti federali dipendono dall’attorney general federale; quelli che operano presso le corti statali fanno invece capo ad organi locali variamente denominati (district attorney, commonwealth’s attorney, state’s attorney, county attorney, ecc.), soggetti alla vigilanza dell’attorney general dello stato, che in alcuni stati sono nominati dal capo dell’esecutivo locale (della contea, città, ecc.) mentre in altri sono eletti dal popolo.
  2. ^ Corte di Cassazione italiana, S.U. 21 gennaio 2010, n. 18288.
  3. ^ AGATINO LANZAFAME, Retroattività degli overruling e tutela dell’affidamento. L’istituto del prospective overruling nella giurisprudenza italiana tra occasioni mancate e nuove prospettive applicative. Note a margine di Cass. civ., VI, n. 174/2015, Judicium, 2018.

Voci correlate


COSTITUZIONE ITALIANA

Titolo IV –   La MagistraturaSezione I. Ordinamento giurisdizionale

  • Art. 101.  La giustizia è amministrata in nome del popolo.  I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
  • Art. 102. La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.  Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.  La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia.
  • Art. 103. Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge. I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.
  • Art. 104. La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.  Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.  Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento.  I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.  Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.
  • Art. 105. Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.
  • Art. 106.  Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.  La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.  Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
  • Art. 107. I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso. [17]  Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare.cI magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.  Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
  • Art. 108. Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge.  La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia.
  • Art. 109. L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
  • Art. 110. Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

Sezione II. Norme sulla giurisdizione

  • Art. 111.[18]  La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.  Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.  Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.  Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.  La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.  Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.  Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge.  Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.  Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
  • Art. 112.  Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.
  • Art. 113 Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.  Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.  La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.

Note:

[17] (Nota all’art. 107, primo comma). 

Nel testo pubblicato nella edizione straordinaria della G.U. 27 dicembre 1947, per errore tipografico, in luogo di «funzioni» compariva la parola «funzionar]»: cfr. errata-corrige in G.U. 3 gennaio 1948, n. 2. 

[18] (Nota all’art. 111). 

I primi cinque commi sono stati introdotti con l’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (G.U. 23 dicembre 1999, n. 300). 

All’art. 2, la stessa legge costituzionale così dispone: 

«1. La legge regola l’applicazione dei principi contenuti nella presente legge costituzionale ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore». 

 

RIFORME E INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA  Secondo le più recenti dichiarazioni del ministro di Giustizia egli non si sarebbe mai sognato di sfiorare il problema della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo di cui semmai si discuterà nell’ambito della revisione costituzionale demandata al prossimo Parlamento. Il problema tuttavia risulta non solo sfiorato, ma affrontato di petto da parte di autorevoli esponenti dello staff ministeriale che, con elaboratissime argomentazioni, lo sollevano su prestigiose riviste specializzate come Giustizia Penale, non omettendo di accusare l’Associazione Nazionale Magistrati di rigide chiusure corporativistiche. Gli argomenti, oltre all’insistente richiamo di diritto comparato ad altri ordinamenti statuali, sono sostanzialmente tre: la necessità che si ponga rimedio alla non soddisfacente distribuzione di magistrati del Pubblico Ministero sul territorio; la considerazione secondo cui i magistrati del pm operano già oggi scelte discrezionali in ordine all’esercizio dell’azione penale senza però risponderne ad alcuno e il difettoso coordinamento tra gli stessi organi inquirenti non realizzabile in maniera ottimale se non sottoponendolo a una unica autorità che dirigendoli possa coordinarli effettivamente nella conduzione delle indagini, specie in materia di criminalità organizzata. Questo è l’argomento preferito dalla Direzione Affari Penali del Ministero, che ne ha fatto oggetto di un articolato questionario, inviato a tutte le procure generali della Repubblica sollecitando suggerimenti e prese di posizione che comunque sono suggerite in modo abbastanza trasparente dallo stesso interrogante. E poiché il problema del coordinamento tra pubblici ministeri nella lotta alla criminalità organizzata viene ormai in modo abbastanza palese sollevato proprio insistentemente da coloro che mirano ad un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non è più esorcizzabile trincerandosi in difesa, soltanto in difesa, di già riconosciute garanzie costituzionalmente sancite. Si rischia altrimenti di perdere un’altra decisiva battaglia analoga a quella referendaria sulla responsabilità civile, che è riuscita nell’unico risultato di trasformare in un pronunciamento popolare contro la magistratura e la sua credibilità quello che i fatti successivi mi sembra lo abbiano dimostrato era un problema tutto sommato risolvibile con non dirompenti concessioni da parte della magistratura associata. Mi auguro pertanto che i Procuratori Generali e quelli della Repubblica offrano spassionatamente alla Direzione Affari Penali il loro contributo fermo nel rispetto dei principi, ma flessibile negli accomodamenti di un sistema che i principi non tocchi. Peraltro che il problema del coordinamento delle indagini nei confronti della criminalità organizzata e di quella mafiosa in particolare sia stato risolvibile, all’interno del sistema giudiziario attuale o a quello recentemente passato, senza sottoporlo a radicali sconvolgimenti, è dimostrato proprio dalle vicende, o quantomeno dalla prima fase di esse, concernenti i cosiddetti pool antimafia, con i quali senza interventi legislativi e comunque dall’alto, ma per iniziativa degli stessi magistrati, per germinazione spontanea vorrei dire, si realizzò non soltanto il coordinamento ma addirittura l’unificazione di tutte le indagini sulla criminalità mafiosa o di gran parte di essa. Sono stati commessi certamente errori di valutazione risoltisi purtroppo in una dirompente crisi di rigetto. Ma ciò, a mio parere, non perché il sistema non fosse funzionante, perché furono acquisite conoscenze prima di allora impensabili, ma a causa della supina accettazione da parte della magistratura della cosiddetta delega che il potere politico in genere ha lasciato loro, incoraggiandone il lavoro. Li lasciarono rappresentando all’opinione pubblica la lotta alla criminalità mafiosa come qualcosa che avrebbe potuto risolversi nelle aule di giustizia decretando in pubblico dibattimento, o meglio, in maxidibattimento, la fine di Cosa Nostra. Naturalmente le iniziative giudiziarie, pur incoraggiate e condotte con determinazione, non potevano incidere seriamente sulla consistenza del fenomeno che andava invece contemporaneamente e radicalmente affrontato alle sue radici con mezzi diversi da quelli meramente repressivi, con interventi sociali, economici, culturali e istituzionali dei quali non si vide traccia in quegli anni come non se ne vede seriamente traccia tuttora. Prese allora abbondantemente campo una virulenta crisi di rigetto verso quegli esperimenti che tanta parte ha avuto nella formulazione di taluni paralizzanti principi del nuovo codice di procedura penale. Basti pensare, come esempio lampante, alla drastica riduzione delle ipotesi di connessione che da un lato obbliga a processi separati anche nel caso di assoluta unicità di prova, dall’altro costringe a riproporre all’interno di ogni singolo processo la prova inerente ai fatti criminosi non più commessi ma solo collegati e comunque rilevanti per la decisione. Le pochissime autorità giudiziarie che attualmente celebrano processi per criminalità mafiosa sanno che ormai ogni processo è diventato necessariamente un maxiprocesso. Per certo la crisi della giustizia esisteva ancor prima del nuovo codice di procedura, ma non v’è dubbio che il nuovo contesto normativo e la realtà giudiziaria all’interno della quale esso è stato intempestivamente introdotto hanno cagionato, sommandosi, i paralizzanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma a fronte di questa desolante realtà, ormai unanimemente riconosciuta e non modificabile con meccanismi previsti dalla legge delega che anzi, anche per il succedersi incessante di decreti e modifiche di decreti, aggrava ancor più la situazione invece di affrontare il radicale problema ponendo mano a radicali riforme di taluni principi sanciti dal legislatore delegante, si è innescata, secondo un disegno già da alcuni ampiamente previsto, una dissennata campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale, contro l’attuale posizione istituzionale del pubblico ministero, sottolineando innanzitutto la carenza di collegamenti tra i vari organi inquirenti dispersi sul territorio nazionale.  Ed accusando la magistratura associata di inammissibili resistenze corporative all’ipotesi di radicali riforme in questa direzione. Resistenze asseritamente corporative che in realtà si risolvono nella doverosa difesa di principi costituzionalmente garantiti. L’obbligatorietà dell’azione penale indispensabile per assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è, senza gravissimi danni, removibile dal nostro sistema, a nulla rilevando in contrario i dotti richiami di diritto comparato riferibili a sistemi politici costituzionali profondamente diversi dal nostro. Ed a nulla vale l’ossessivo richiamo alla cosiddetta discrezionalità di fatto che indurrebbe il Pubblico Ministero a operare comunque scelte discrezionali delle quali non risponderebbe ad alcuno. E’ vero che l’estensione a dismisura della tutela penale conseguentemente all’enorme numero di procedimenti che grava sul sistema giudiziario penale impedisce di fatto agli organi di accusa di perseguire ogni caso con eguale sollecitudine, ma resta sempre da dimostrare che da parte dei pm vengano di fatto operate vere e proprie scelte discrezionali, nel senso che l’attività repressiva venga deliberatamente omessa in casi nei quali potrebbe realmente essere dispiegata. Solo scelte siffatte potrebbero essere correlate ad una responsabilità politica quale è quella prefigurata dall’organo di accusa mentre invece la soluzione sta a monte espellendo dal sistema penale le miriadi di piccoli reati che estendono a dismisura una tutela che dovrebbe essere riservata, secondo quanto ci hanno insegnato, ai fatti di più apprezzabile rilevanza. E d’altra parte un legislatore, abituato da decenni a vanificare con ricorrenti provvedimenti di amnistia, l’incessante lavoro della magistratura per tener dietro a migliaia di ipotesi di reato ben più efficacemente perseguibili in via amministrativa, non è poi per certo legittimato ad addebitare alla magistratura la responsabilità di avere adottato asserite irresponsabili scelte che in realtà sono poi soltanto la risultante di un’intollerabile sproporzione fra quantità di casi penali da un lato, termini e mezzi per occuparsene dall’altro. Se pertanto è pretestuoso invocare la cosiddetta discrezionalità di fatto, cui può porsi rimedio per altra più accettabile via, per richiamare invece ad una responsabilità politica del pm e se pertanto l’azione penale è, e deve restare obbligatoria, non vi è più motivo che un organismo soggetto soltanto alla legge debba essere invece posto alle dipendenze dell’esecutivo. Resta però, specie in materia di indagini sulla criminalità organizzata, il problema del collegamento fra i vari organi del pm, che in tale indagine hanno l’obbligo della direzione. Ma il problema è tecnico, non politico, a meno che l’insofferenza verso qualsiasi forma di direzione dell’esecutivo, e anche verso quelli che non intacchino l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero, non finisca per precludere alla magistratura associata qualsiasi possibilità di manovra. La criminalità organizzata spazia con la sua attività ben oltre i limiti angusti delle circoscrizioni, che nella quasi totalità dei casi sono addirittura meno ampie delle stesse province. Il pool antimafia di Palermo intuì questa innegabile realtà con riferimento a Cosa nostra e ritenne di risolvere il problema attuando quella radicale forma di collegamento costituito dalla unificazione di tutte le indagini su questa più grave forma di criminalità. A seguito di note decisioni della Suprema Corte, si ritornò al nefasto sistema delle indagini parcellizzate e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse del ministro Vassalli, il problema dei pool, che è poi quello del collegamento delle indagini, non venne affrontato legislativamente se non con inconcludenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale esortanti al coordinamento volontario. Nessuno tuttavia può realmente coordinare, se non dirigendo. Il radicale ridimensionamento contenuto nel nuovo codice di procedura penale e dei principi gerarchici all’interno degli uffici di procura, fra le procure generali e quelli della repubblica, ha reso di fatto impossibile coordinare alcunché. Queste gerarchie vanno ricostituite, almeno a livello di procure generali, esistenti su base regionale, ove dovrebbero essere accentrate, ripristinando i poteri di allocazione, le indagini sulla criminalità organizzata operante oltre le sedi circoscrizionali. Il rifiutare anche questi accomodamenti interni irrispettosi dei principi in cui tutti crediamo rischia di avere un unico sbocco, che è quello perseguito, più o meno dichiaratamente, dal potere politico. (7 giugno 1991 Vasto Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati “il giudice fra crisi della giurisdizione e problemi…”) di Paolo Borsellino Io sono stato sempre estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non lo chiamerei tanto parallelo, lo chiamerei alternativo al sistema dello Stato perché è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. E in particolare nell’ordinamento, nel nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, così come organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi sono negli altri stati, ma il nostro, mi pare, che sia, credo, l’unico stato in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. E perché? Perché probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente, e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticare, che si continua a porre come un sistema alternativo, un sistema alternativo che offre dei servigi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua, anche se probabilmente in diminuzione – traeva i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti quelli che abbiamo partecipato a quella esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, tanto che anche in quei momenti, anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia di miliardi, se non migliaia, dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali, perché la droga non lo era e non lo è mai stata, essenziale alla criminalità mafiosa. Cioè quella di continuare ad esercitare, quella che è la caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, e che comunque si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire io di essere un territorio, così come il territorio è parte essenziale dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, perché è una sua componente essenziale, dico la famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Poiché si determina naturalmente un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, con mezzi diversi ma una analoga sovranità, si determina questo conflitto. E questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma normalmente si compone attraverso il condizionamento dall’interno delle persone, o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere, delle persone fisiche atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. Naturalmente, naturalmente la risoluzione finale del problema, consiste nel chiudere… naturalmente la risoluzione finale del problema, la finalità a cui deve tendere chi veramente intende, cioè le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere, di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso il quale la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, o coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, vengono condizionate da questa istituzione alternativa. Il chiudere come? Perché ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che tutti abbiamo talvolta la sensazione che le istituzioni pubbliche non vengano considerate tanto dalle forze politiche organizzate in partiti come quelle istituzioni dove andare attraverso i partiti a scegliere i migliori che vanno a impersonarne la volontà di queste istituzioni, ma le istituzioni pubbliche vengono considerate normalmente come teatri o agoni di lobbies che li dentro si azzuffano e si scornano per impossessarsi, quanto più possibile, di fette di questo potere e di esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di esercitarlo in funzione di interessi particolari. E questo è l’accusa che da più parti politicamente si fa a quella che viene chiamata, da tutti dispregiativamente, ma da tutti sostanzialmente sopportata, “partitocrazia”. Cioè l’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche, delle istituzioni pubbliche il che naturalmente crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni pubbliche si formino quelle volontà che non sono dirette al bene pubblico ma sono dirette ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, evidentemente significa chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno di questo tipo di organizzazione. E sicuramente questo deve farsi salvando, è logico, i princìpi democratici che reggono, oggi, pressoché tutte le nostre istituzioni. Però, ad esempio, la sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono la legislazione che regola, ad esempio, gli enti locali è chiaro che è una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto al migliore dei modi, trancerà, chiuderà, impedirà l’accesso all’interno di questi enti locali di queste lobbies che andranno lì dentro, o di queste lobbies o comunque di queste infiltrazioni che possono provocare, provocano normalmente la possibilità che… le volontà di persone a cui è attribuito il potere di esprimere la volontà di queste istituzioni siano rivolte non al bene pubblico, ma siano rivolte agli interessi particolari di questa o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. (27 marzo 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino in occasione di una tavola rotonda sul tema mafia, criminalità, giustizia, magistratura, superprocura). di Paolo Borsellino La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni. di Paolo Borsellino Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo, Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a far il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della repubblica di Palermo dove a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler far lui per Palermo. E in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge anche nei momenti di maggiore successo le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare. Soprattutto, per consentirgli di ritornare – a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché forse ripensandoci quando Caponnetto dice «cominciò a morire nel gennaio del 1988» aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura  PALERMO 25 giugno 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino al congresso “Ma è solo mafia?”

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco