ARCHIVIAZIONE DOSSIER MAFIA&APPALTI – FIAMMETTA BORSELLINO: «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione.

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 IL DOSSIER MAFIA&APPALTI E L’ELIMINAZIONE DI PAOLO BORSELLINO

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MAFIA e APPALTI


FIAMMETTA BORSELLINO: ci hanno preso in giro   «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992.  Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva.  I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip.

Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre. Esatto.

Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa.

Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola.

L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza.


FIAMMETTA BORSELLINO: (…) “Mi viene in mente il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza “Trattativa Stato-mafia” e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio. La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa

La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza “Trattativa” arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.  dall’intervista di Salvo Palazzolo – Repubblica 4.2.2021


L’assalto mafioso agli appalti pubblici raccontato nei reportage di Francese. Il giornalista comprese subito la nuova strategia di “Cosa Nostra”, volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall’esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60.

Un eccezionale interesse è riscontrabile nei numerosi articoli scritti da Mario Francese sulle vicende criminose in vario modo connesse ai lavori di costruzione della diga Garcia.

Mario Francese – il quale aveva già posto in luce i forti interessi economici dell’associazione mafiosa nel settore dell’edilizia negli articoli scritti in relazione alla “strage di Viale Lazio”, realizzata il 10 dicembre 1969 – comprese subito la nuova strategia di “Cosa Nostra”, volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall’esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60.

 Si trattava di una importantissima fase di sviluppo evolutivo dell’associazione mafiosa, i cui lineamenti essenziali sono oggi notori ma potevano, allora, essere intravisti solo da persone dotate di un non comune patrimonio conoscitivo e di una particolare capacità di cogliere i nessi tra gli eventi.

I NUOVI INTERESSI DELLA MAFIA. Dalla seconda metà degli anni ’60 in poi, si era intensamente manifestata la tendenza degli esponenti mafiosi a costituire attività di impresa, principalmente nel campo dell’edilizia e dei lavori pubblici, segnatamente nei periodi storici in cui la rendita urbana assumeva un ruolo primario rispetto alla rendita fondiaria. Si era trattato del passaggio dalla fase tradizionale di immobilizzazione della ricchezza a quella più moderna di accumulazione del capitale: mentre fino all’inizio degli anni ’60 numerosi aderenti a “Cosa Nostra” erano impegnati essenzialmente nell’acquisizione della rendita fondiaria nelle campagne con un corrispondente depauperamento dei vecchi proprietari terrieri, successivamente la maggior parte dei proventi di condotte criminali venne impiegata in attività produttive al fine di una ulteriore valorizzazione.

Già nelle sue prime forme, le imprese mafiose rispondevano ad una pluralità di esigenze, in quanto servivano ad assicurare il riciclaggio dei profitti illeciti, la copertura delle attività delittuose, un più efficace controllo sociale attraverso un forte radicamento nel territorio, e la legittimazione del potere economico e politico dell’organizzazione criminale.

Le imprese mafiose originarie erano caratterizzate da una forte individualizzazione attorno alla figura dominante del fondatore, il quale le gestiva direttamente pur continuando ad espletare le altre attività delittuose della “famiglia”. Le imprese in questione, anche quando avevano una diversa denominazione formale, erano solitamente conosciute come appartenenti all’esponente mafioso che le gestiva. Nella struttura di queste ditte era, non di rado, immediatamente visibile la presenza di componenti del nucleo familiare dell’associato.

Lo strumento essenziale dell’agire di queste unità economiche era la violenza mafiosa, che consentiva loro di affermarsi attraverso lo scoraggiamento della concorrenza e l’estromissione dal mercato delle aziende non disposte a venire a patti con il sodalizio criminale. La forza di intimidazione del vincolo associativo rappresentava sia la condizione che permetteva di acquisire una rilevante posizione di mercato, sia lo strumento che assicurava la regolazione dei rapporti con le imprese concorrenti.

Anche in seguito, i settori dell’edilizia e dei lavori pubblici hanno mantenuto un ruolo strategico nell’ambito delle attività economiche riconducibili alle associazioni mafiose, perché hanno svolto un ruolo trainante nell’economia e nella società meridionale, consentendo un’altissima valorizzazione del capitale e l’instaurazione di un rapporto particolarmente stretto con il complesso delle attività economiche delle zone dove è radicata “Cosa Nostra”.

Tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 si affermò negli ambienti mafiosi la tendenza a diversificare gli investimenti, impiegando i profitti derivanti dalle originarie aziende non tanto per accrescerne le strutture ed il volume di affari, quanto per costituire nuove imprese operanti nello stesso campo o in diversi settori di attività. Venivano formate, con particolare frequenza, più società, spesso nello stesso settore produttivo o commerciale. Le risorse a disposizione dei singoli esponenti mafiosi non erano state più concentrate in un solo strumento aziendale.

In questo processo di ristrutturazione economica, si trasformò anche l’assetto giuridico-formale della proprietà delle imprese e dei patrimoni immobiliari e finanziari. Si diffuse quindi il modello della c.d. impresa di proprietà del mafioso.

Si realizzò una situazione in cui gli esponenti mafiosi di spicco tendevano a non mantenere più nelle loro mani la titolarità formale ed i compiti diretti di direzione e gestione dell’impresa. Essi, invece, si limitavano a conservare la proprietà indiretta dell’impresa e ad esercitare in modo mediato la loro funzione di direzione.

In questo modo si costruì una schermatura tra l’impresa, da un lato, e l’origine illegale dei capitali e l’autore dell’accumulazione illecita, dall’altro.

Mentre l’impresa mafiosa tradizionale si fondava sulla spendita del nome dell’ “uomo d’onore”, l’impresa di proprietà del mafioso cercava di operare senza manifestare – se non quando ciò diveniva indispensabile – il nome del soggetto cui essa apparteneva.

Questa trasformazione rispondeva alla necessità di “Cosa Nostra” di tutelarsi rispetto all’azione di contrasto dello Stato, attraverso l’occultamento del collegamento dell’impresa con l’esponente mafioso che ne era l’effettivo titolare.

Vennero utilizzati come prestanome, per la gestione di attività economiche apparentemente “pulite”, sia altri “uomini d’onore”, la cui appartenenza a “Cosa Nostra” non era nota alle forze dell’ordine, sia soggetti che non erano formalmente affiliati all’organizzazione criminale, pur operando al suo servizio.

Poteva trattarsi anche di prestanome aventi precisi requisiti professionali: questi soggetti non si limitavano a svolgere un’azione di copertura formale delle proprietà e dell’impresa del mafioso, ma venivano incaricati della gestione dell’impresa e disponevano di poteri relativamente autonomi nell’ambito dei compiti loro assegnati.

IL PERICOLO DELLA LEGGE ROGNONI-LA TORRE. Tutti questi accorgimenti rispondevano ad esigenze di mimetizzazione delle imprese mafiose.

In prossimità dell’approvazione della Legge Rognoni-La Torre (L. n. 646 del 13 settembre 1982), che ha reso meno agevole l’utilizzazione di prestanome, si è affermato un nuovo modello: quello della c.d. impresa a partecipazione mafiosa.

Si tratta di imprese spesso sorte nel rispetto della legalità, ma che hanno (sin dall’inizio o in un momento successivo) instaurato rapporti di cointeressenza e compartecipazione con determinati esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in modo organico e stabile nelle aziende. Si verifica così una compresenza di interessi, soci, e capitali illegali, con interessi, soci, e capitali legali.

La formazione di imprese a partecipazione mafiosa costituisce il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dall’organizzazione mafiosa con i più vari settori dell’economia legale. “Cosa Nostra” ha cercato di fondare questo rapporto non solo su atti violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e su una compenetrazione di capitali e competenze.

L’impresa a partecipazione mafiosa permette alla struttura criminale di rendere ancora più occulti i canali di riciclaggio e di reimpiego dei capitali illeciti, di diversificare ulteriormente gli investimenti, di disporre di strutture imprenditoriali che, per la loro rispettabilità e la loro esperienza, sono capaci di operare come normali agenti di mercato; ma anche di compenetrare l’economia mafiosa con quella legale, rendendole difficilmente distinguibili tra loro, e di realizzare una regolazione complessiva del mercato locale e un più solido controllo del territorio.

Il suesposto processo di ampliamento delle dimensioni e di diversificazione delle forme di manifestazione dell’imprenditorialità mafiosa si è accompagnato all’accentuazione della struttura organizzativa unitaria e verticistica dell’organizzazione criminale.

L’effetto di questa evoluzione, nel contesto siciliano, è stato l’accrescimento dell’autonomia e del peso del potere mafioso rispetto al mondo politico ed agli ambienti imprenditoriali. “Cosa Nostra” ha così superato ogni rapporto di subordinazione rispetto all’élite politica, ed è entrata a fare parte a pieno titolo, e non di rado in posizione dominante, del blocco di potere che – attraverso accordi illeciti e collusioni tra rappresentanti delle istituzioni, imprese locali e nazionali, e esponenti della criminalità organizzata – ha operato un penetrante controllo sugli appalti pubblici in Sicilia, sia nella fase aggiudicazione dei lavori, sia in quella di esecuzione delle opere.

La capacità di “Cosa Nostra” di influenzare in modo capillare ed incisivo il sistema degli appalti pubblici corrisponde alle caratteristiche peculiari dell’associazione mafiosa, che – come è stato evidenziato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. sent. del 30/1/1990, ric. Abbattista) – non è diretta semplicemente a realizzare una pluralità di delitti, ma piuttosto a realizzare, attraverso delitti, il controllo e la gestione di attività produttive.

Il controllo degli appalti di opere pubbliche ha costituito uno dei principali terreni di incontro tra mafia, uomini politici, funzionari amministrativi, ed imprenditori (non solo operanti nel mercato locale, ma anche di rilievo nazionale). All’obiettivo immediato di lucrare tangenti, collocare manodopera, far acquisire forniture alle ditte legate a “Cosa Nostra”, si è accompagnato l’obiettivo più generale di sottoporre all’influenza dominante dell’illecito sodalizio i settori più rilevanti della vita politica ed economica siciliana.

Ne sono derivate diverse forme di manifestazione dei rapporti tra associazioni criminali ed imprenditori, che si sono aggiunte alle varie tipologie di imprese mafiose.

Un significativo contributo al rafforzamento di “Cosa Nostra” è stato arrecato dagli imprenditori collusi che hanno instaurato una relazione clientelare con gli esponenti mafiosi (c.d. imprenditori clienti), contraendo con essi un accordo attivo reciprocamente vantaggioso, da cui sono derivati obblighi vicendevoli di collaborazione e di scambio, in vista del conseguimento di interessi comuni. Questi soggetti hanno intrattenuto con gli “uomini d’onore” un rapporto stabile e continuativo di interazione, fondato sulla cooperazione reciproca e su legami personali di fedeltà. Dagli imprenditori che hanno instaurato un simile rapporto di scambio (e che quindi hanno fruito di una protezione attiva), il gruppo mafioso ha preteso prestazioni diffuse, con il contenuto più vario (ad esempio, offerta di informazioni, accesso a determinati circuiti politici e finanziari, ospitalità per latitanti, testimonianze di comodo, e così via).

ECONOMIA LEGALE E COLLUSIONE. Un ulteriore consolidamento del potere dell’organizzazione mafiosa è derivato anche dal comportamento degli imprenditori collusi legati da una relazione strumentale a “Cosa Nostra” (c.d. imprenditori strumentali). Si tratta di soggetti che hanno instaurato con “Cosa Nostra” un accordo limitato nel tempo e definito nei contenuti, negoziando caso per caso l’eventuale reiterazione del patto secondo le esigenze contingenti. Essi hanno accettato di collaborare con gli esponenti mafiosi sulla base di una considerazione utilitaristica del contesto ambientale in cui svolgono la loro attività. Le interazioni tra i mafiosi e questi imprenditori sono state regolate dalla logica dello scambio.

Il rapporto di scambio instaurato dai c.d. imprenditori strumentali è stato, di regola, funzionale al conseguimento di un reciproco vantaggio economico, ed ha indotto le imprese a fornire all’associazione criminale prestazioni utili, in misura considerevole, al mantenimento o al rafforzamento della sua struttura, della sua organizzazione e delle sue attività.

La collusione tra mafia ed operatori economici, che ha alimentato la circolarità del ritorno di utilità reciproche tra impresa e criminalità organizzata, si è riflessa negativamente sull’intero mercato, di cui sono stati alterati gli equilibri e falsati i meccanismi.

CONFLITTI E AFFARI: LA COSTRUZIONE DELLA DIGA DEL BELICE. Le infiltrazioni di “Cosa Nostra” nel mondo degli appalti e dell’economia, il loro stretto collegamento con le più sanguinarie manifestazioni di violenza mafiosa, il contestuale affermarsi dello schieramento trasversale facente capo ai “corleonesi”, il nuovo terreno di incontro creatosi tra l’illecito sodalizio e i grandi gruppi imprenditoriali nel controllo degli appalti di opere pubbliche, furono colti, analizzati ed interpretati con particolare lucidità da Mario Francese in una serie di inchieste giornalistiche da lui effettuate nella seconda metà degli anni Settanta.

Dagli articoli da lui redatti emerge un amplissimo complesso di notizie e di strumenti di comprensione in ordine a quella politica di alleanze – fondata sulla violenza ma anche sulla mediazione – che consentì ai “corleonesi” di imporre il loro dominio sulla realtà siciliana.

Mario Francese comprese subito che i violenti conflitti interni a “Cosa Nostra”, manifestatisi in ripetuti episodi omicidiari nella seconda metà del 1977, si collegavano strettamente ai grandi interessi economici connessi alla costruzione della diga del Belice.

Un primo grave fatto di sangue di cui egli, nelle sue cronache giornalistiche, individuò con chiarezza le cause profonde, fu l’attentato commesso il 19 luglio 1977 in danno dell’affittuario della cava di Contrada “Mannarazze”, nel territorio di Roccamena, Rosario Napoli, del suo figlioletto Fedele Napoli, e dell’autista Vincenzo Montalbano.

Nel seguente articolo, pubblicato sul “Giornale di Sicilia” del 20 luglio 1977, Mario Francese specificò che si trattava di un attentato volto ad ottenere lo “sfratto forzato” dell’affittuario della cava, la quale stava acquistando una rilevante importanza per l’inizio dei lavori per la costruzione della diga del Belice:

Attentato mafioso ieri a mezzogiorno a Roccamena. Pistolettate e lupara a ripetizione contro il proprietario di una cava

Il proprietario di una cava di Roccamena, un figlioletto di 9 anni e un dipendente sono sfuggiti ieri, nella tarda mattinata, ad un attentato di un gruppo di quattro-cinque killer: un attentato forse più dimostrativo che rivolto alla eliminazione della vittima, a quanto pare da tempo predestinata e avente per obiettivo lo sfratto forzato della zona del proprietario della cava.

E’ stato poco dopo mezzogiorno che Rosario Napoli proprietario della cava di contrada “Marannazza”, a circa due chilometri dall’abitato di Roccamena, con il figlioletto Fedele, 9 anni e il dipendente Vincenzo Montalbano, oriundo di Alcamo, stava dirigendosi verso la sua macchina per rientrare in paese per il pranzo. Giunti sul viottolo a circa duecento metri dalla cava, dove era posteggiata l’auto, Rosario Napoli, 36 anni, ha visto sopraggiungere un’auto di grossa cilindrata, pare un’alfa con a bordo quattro o cinque persone. Non ha avuto dubbi, anche per una serie di precedenti, sulle intenzioni dei nuovi arrivati. Ha quindi afferrato per mano il figlio tirandolo verso la sua auto e invitando il dipendente ad entrare a bordo. Il tempo di avviare il motore e di mettere in moto il mezzo, che dall’altra macchina posteggiatasi ad una ventina di metri, è stata sparata dal finestrino una gragnuola di colpi di cal.38 e di fucilate a lupara. Tutti i colpi sparati dai killer si sono schiacciati sulla carrozzeria dell’auto del Napoli in fuga senza raggiungere bersagli umani. Soltanto una scheggia di lupara ha ferito di striscio ad un braccio uno dei tre occupanti il mezzo. Compiuta l’azione, a quanto pare dimostrativa, i killer si sono velocemente dileguati con la loro auto.

In paese, Rosario Napoli ha dato l’allarme. Oltre ai carabinieri locali e delle compagnie di Corleone e di Monreale, sono intervenuti il vice questore dottor Chiavetti, nuovo dirigente del commissariato di Corleone, e dirigenti del settore della Criminalpol, della polizia giudiziaria e della squadra mobile di Palermo.

Il dottor Chiavetti, che ha diretto l’indagine in collaborazione con l’Arma, ha inquadrato l’episodio nel quadro di un tentativo, che ormai ha vecchie radici, di sfrattare il Napoli dalla cava. Circa due mesi fa, il commissariato di Corleone aveva ricevuto una telefonata anonima con la quale si comunicava la presenza a Roccamena di un quartetto in macchina armato. Immediatamente furono disposte dal commissariato di Corleone dei carabinieri, battute con l’ausilio di un elicottero. Dell’auto dei banditi armati, però, non fu trovata traccia.

L’episodio fu ritenuto come un’azione dimostrativa nei confronti di Rosario Napoli, che già aveva ricevuto le prime minacce se non si fosse deciso ad abbandonare la cava di contrada “Marannazza”. Da allora si è avuta una vera e propria escalation di fatti intimidatori. Azioni di disturbo hanno tormentato il Napoli che, in questi ultimi mesi, ha ricevuto anche nottetempo, una serie di telefonate preannuncianti gravi rappresaglie se non si fosse deciso ad abbandonare la cava.

Venerdì scorso, recandosi alla sua cava per il consueto lavoro, Rosario Napoli aveva trovato la stradella di accesso sbarrata da tronchi. Anche quello è considerato dagli inquirenti come un avvertimento. Ma Rosario Napoli, pur consapevole dei grossi rischi cui si esponeva, non volle alzare “bandiera bianca”. Sceso dalla sua auto, rimosse i tronchi che ostruivano il passaggio e si recò nella sua cava continuando il lavoro di estrazione.

L’attentato di ieri, quindi, è ritenuto dal vice questore Chiavetti come l’immediata risposta del “clan degli intimidatori” all’atteggiamento risoluto del Napoli.

Che faranno ora gli “anonimi” del racket delle cave? Dopo le lupare dimostrative passeranno all’azione vera e propria?

L’importanza della cava di contrada “Marannazza” ha acquistato un valore rilevante per l’inizio dei lavori per la costruzione della diga del Belice. Una cava, quindi, che sollecita appetiti di personaggi che, con le intimidazioni, dall’ombra, sperano di indurre il proprietario ad abbandonarla. Proprio una trama da western americano dell’800.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.  6 febbraio 2021  DOMANI A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


Il 14 luglio c’è stata una riunione alla Direzione Distrettuale di Palermo e Borsellino chiese conto e ragione a Lo Forte ha aggiunto Trizzino – perchè tra l’altro Giammanco è nella storia della Repubblica, primo e unico procuratore costretto a dimettersi per un ammutinamento dei suoi sostituti: io credo che non ci siano precedenti del genere. Borsellino voleva sapere a che punto fosse quel rapporto Mafia e Appalti e non gli dicono che il 13, il giorno prima, era stata fatta una richiesta di archiviazione, che venne ratificata il 14 agosto 1992”. “Lo Stato deve sapere che è stato lasciato solo da molti suoi colleghi, da qualcuno che voleva prendere delle iniziative senza consultarsi e quindi uccidendolo Riina – ha continuato l’avvocato dei Borsellino – ebbe la formidabile occasione di potere dar conto a quella parte di Cosa Nostra fatte da strane commistioni di massoni e imprenditori e dall’altra proseguire con la sua strategia stragista condivisa con Messina Denaro”

Estratto dalla memoria dell’Avv Trizzino al processo MMD.  “Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». ‘.   Estratto dall intervista di Luca Rossi a Paolo Borsellino, pubblicata il 21 luglio 92.


 La Trattativa Stato-Mafia e la morte di Paolo Borsellino. Ecco perché con l’accelerazione della strage non c’entra il rapporto del Ros Mafia-appalti. L’ombra dei mandanti esterni Un argomento scomodo, quasi urticante, per cui è necessario instillare il seme del dubbio o, nel peggiore dei casi, della totale negazione. Dal 20 aprile 2018 sono andati in soffitta titoloni come “La Trattativa è una boiata pazzesca”, ma nonostante più sentenze (non solo quella della Corte d’assise di Palermo con 5700 pagine di motivazione) ne certifichino l’esistenza vi è sempre chi è pronto a metterla in dubbio. O comunque a non considerarla in alcun modo come la reale motivazione di quell’accelerazione che portò Cosa nostra a consumare l’attentato a Paolo Borsellino appena 57 giorni dopo la strage di Capaci. 

Basta leggere l’intervista, pubblicata su La Repubblica giovedì 4 febbraio, che il collega Salvo Palazzolo ha fatto giovedì scorso alla figlia del giudice, ucciso in via d’Amelio con 5 agenti di scorta, Fiammetta Borsellino, dopo l’archiviazione del Gip di Messina dell’inchiesta sui pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia sul depistaggio di via d’Amelio. Una vicenda su cui più volte abbiamo espresso la nostra opinione. Un’intervista in cui si parla di “giustizia malata” in riferimento alle valutazioni espresse da due tribunali differenti sui motivi che portarono alla morte del padre. 

“Mi viene in mente il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa Stato-mafia’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio – ha commentato Fiammetta Borsellino – La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.
I 57 giorni e l’accelerazione

In tutti processi sulle stragi, nelle inchieste e nelle indagini più recenti un punto centrale è sicuramente quello dell’accelerazione che, è certo, intervenne dopo la strage di Capaci. Un’anomalia di cui hanno parlato svariati collaboratori di giustizia. Su tutti vale la pena di ricordare quel Totò Cancemi che raccontava: “Mi ricordo (…) di una riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, (…) che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là, con Riina. E io c’ho sentito dire: La responsabilità è mia. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: Questo ci… ci vuole rovinare a tutti, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino. (…) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (…) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa… questa risposta a qualcuno, questi accordi che lui aveva preso”.

La ricerca della verità su quanto avvenuto passa dalla comprensione degli elementi che portarono all’accelerazione dell’attentato, ed anche dalla necessità di dare un volto a questo “qualcuno” (anche Riina, nelle intercettazioni nel carcere Opera con Lorusso, parla di un qualcuno che disse di fare la strage “subito subito”).

Ma procediamo per gradi. Nel corso degli anni sono stati aperti più filoni investigativi. 

Uno portava alla trattativa Stato-mafia. Un altro possibile era proprio quello dell’inchiesta mafia-appalti di cui Paolo Borsellino si interessava, come emerso nelle dichiarazioni di diversi testimoni.

Vedremo, però, come questa pista (la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-Mafia, ma anche di tanti giornaloni e contestatori della trattativa e dei pm che hanno condotto il processo) non può essere considerata come decisiva nella ricostruzione per comprendere ciò che avvenne ormai quasi 29 anni addietro, cioè le stragi di Capaci, via d’Amelio e nel 1993 gli attentati di Firenze, Roma e Milano.

Mafia-appalti La vicenda dell’inchiesta mafia-appalti, archiviata dopo la strage di via D’Amelio (il 14 agosto 1992 dopo la richiesta dei pm titolari d’indagine, scritta nel 13 luglio 1992 e inviata al Gip il 22 luglio) è particolarmente complessa e nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti.

Uno dei titolari di quel fascicolo, Roberto Scarpinato, oggi Procuratore generale a Palermo, ha spiegato in più occasioni come nell’accelerazione “non c’entra assolutamente il dossier mafia-appalti perché quello che è accaduto va molto al di là della storia di appalti regionali. Perché Paolo Borsellino era perfettamente al corrente del fatto che l’inchiesta mafia-appalti era stata temporaneamente archiviata e si aspettava, per riaprirla, l’intervento di altri collaboratori di giustizia. Come poi è avvenuto”. Ma vi era anche un altro dato, che è documentale. L’esistenza di una doppia informativa. 

Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie. 

La prima: c’è una prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione.

Quello che si evince però dall’archiviazione è che non c’erano nomi di politici, né tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in quel momento la Procura di Palermo non aveva.

La seconda informativa Come spiegato dai pm di primo grado del processo Stato-mafia, il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo” si decide a depositare una seconda informativa mafia-appalti che contiene espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi

In questa seconda informativa, finalmente completa, vi erano acquisizioni investigative su Mannino e sui politici. Acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data del febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti. 

“Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 1991-1992 – scriveva Caselli – furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”. 

Il pm Tartaglia, nella requisitoria, ha spiegato che alcuni nomi di uomini politici (Lima, Nicolosi e Mannino) venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo solamente il 5 settembre 1992, quando con una informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno “venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”. Come mai quei nomi non erano presenti? Furono volutamente depennati dai Ros dei Carabinieri?

La sentenza di Palermo Comunque la Corte d’assise di Palermo, nelle motivazioni della sentenza Stato-mafia, non mette in dubbio l’interesse di Borsellino per il fascicolo.  Si dice però che “tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo (Borsellino, ndrebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)” scrivono i giudici. Dunque, sul piano logico, i giudici spiegano come non vi è la “certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio”.

Diversamente come ricostruito nel corso del processo “l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d’Amelio”. Secondo i giudici, “non v’è dubbio, che quei contatti unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste con cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”.

Non solo. Si legge nelle carte che “ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.

Il Borsellino quater Ma anche il Borsellino quater, a ben vedere, lascia aperti degli spiragli. Perché i giudici di primo grado, nel procedere alla individuazione dei moventi della strage di via d’Amelio, da una parte sottolineavano come vi fosse la possibilità di utilizzare soltanto “le fonti di prova dotate di univoca valenza dimostrativa, evitando ogni rivalutazione di vicende che formano oggetto di altri procedimenti pendenti dinanzi ad altre autorità giudiziarie alle quali spetta il relativo giudizio”. 

Dall’altra però scrivevano che Borsellino “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra’”.

I giudici, che riprendevano le parole scritte dai pm nella memoria conclusiva, affermavano: “Appare incontestabile come la strage di Via d’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”

In sede di appello, perentoriamente viene esclusa la trattativa come motivo dell’accelerazione per il delitto. Comunque si parla anche di “possibili gruppi di potere estranei a Cosa nostra” nella strage di via d’Amelio

E su questi punti, così come sulla presenza di mandanti esterni delle stragi vale la pena ragionare proprio per comprendere come la trattativa, o forse sarebbe meglio dire le trattative, sia davvero un nodo centrale.

L’incontro negli uffici del Ros La difesa dei carabinieri Mori-De Donno e Subranni, da sempre ha fatto riferimento ad una data, quella del 25 giugno 1992, in cui Paolo Borsellino si recò presso la caserma Carini di Palermo, spiegando che tema affrontato fu proprio l’inchiesta mafia-appalti. Di quell’incontro, è un fatto noto, le autorità giudiziarie di Palermo e Caltanissetta vennero a conoscenza dall’agenda grigia del giudice Borsellino. Come mai nell’agenda non vi sono annotazioni? 

Altra domanda. Se davvero era così rilevante quell’incontro come mai Mori e De Donno nulla dissero ai magistrati che si occupavano della strage? Un silenzio che durerà fino al 1997 quando si pente Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, portando con sé anche la polemica sul famoso rapporto mafia-appalti. Evidentemente l’oggetto di quell’incontro riguardava altro. L’ex braccio destro del giudice ucciso, il tenente Carmelo Canale, riferì al processo Borsellino quater che nelle ultime settimane di vita Paolo Borsellino stava cercando di fare luce sull’anonimo, conosciuto come ‘Corvo 2’: una lunga lettera indirizzata, tra gli altri anche al magistrato, in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina

Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava tra l’altro di incontri tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa. In incognito il teste e il magistrato andarono alla caserma Carini, a Palermo, per l’incontro al quale partecipò anche il superiore di De Donno, l’allora colonnello Mario Mori.

Borsellino su Berlusconi e Dell’Utri. Le attività di Borsellino, dunque, furono molteplici. E forse si dovrebbe ragionare sulla possibilità che dietro alla decisione di uccidere il giudice vi sia stata una convergenza di interessi. E’ noto, ad esempio, che lo stesso magistrato a Casa Professa nel suo ultimo discorso aveva dichiarato di essere un “testimone” e di voler essere sentito dai pm che si occupavano delle indagini sulla strage di Capaci. C’erano state poi le dichiarazioni di Mutolo e Messina, raccolte dal magistrato in luglio. Ma non solo. 

Perché appena due giorni prima la strage di Capaci, Paolo Borsellino rilasciò un’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000

In quella video intervista i due giornalisti francesi stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Pubblitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi. Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.

L’appunto di Falcone su B.  Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in qualche maniera stessero monitorando le vicende che ruotavano attorno all’ex Cavaliere emergono anche da un altro dato. E’ stato ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.

Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.

Quei nomi contenuti nell’appunto non sono di poco conto e rappresentavano una traccia di ciò che sarebbe stato scoperto successivamente. Gaetano Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato il “tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore. 

E’ ampiamente riconosciuto che, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino fosse il magistrato di punta della lotta alla mafia. Ed è facile pensare che fosse al corrente delle stesse cose. Sapeva dei vecchi affari di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni Settanta. E quelle “storie” erano tutt’altro che vecchie o prive di fondamento. E lo dimostra proprio con quell’intervista ai due giornalisti francesi, in cui si sottolinea i rapporti che Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, a Milano, avrebbero intrattenuto con personaggi delle famiglie palermitane.

Nomi chiave. 

Nelle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Dell’Utri è scritto che per diciotto anni dal ’74 al ’92, l’ex senatore è stato il garante dell’accordo tra Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Cinà (Gaetano Cinàndrsono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. In quella sentenza i giudici mettevano anche in rilievo come “il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.

Se Borsellino aveva intuito tutto questo è ovvio che fosse divenuto un ostacolo non solo per la trattativa in corso, ma anche un problema per chi stava preparando la discesa in campo di Forza Italia. Un nuovo potere che sicuramente il giudice avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato i vertici di quel nuovo potere, ovvero Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. 

I mandanti esterni. Ma sappiamo anche altro. Perché Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati a più riprese, ed archiviati per mancanza di riscontri sufficienti, per essere stati mandanti delle stragi.   La Procura di Firenze oltre vent’anni fa li aveva indagati, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un’inchiesta che partiva dalle stragi del 1993 fino ad arrivare alla mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma del ‘94. Per gli inquirenti quei fatti di sangue rientravano “in un unico disegno che avrebbe previsto una campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa”.“Nel corso di quelle indagini – si leggeva ancora nel decreto di archiviazione del ‘98 – erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali”. Dal canto suo il Gip aveva evidenziato che le indagini svolte avevano “consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di inputs esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli indagati Dell’Utri e Berlusconi, ndrdi cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto”. Il giudice concludeva affermando che, sebbene “l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità”, gli inquirenti non avevano “potuto trovare – nel termine massimo di durata delle indagini preliminari – la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate sulle suddette omogeneità”. Anche a Caltanissetta, dal ’98 al 2001, su quegli stessi personaggi avevano indagato il pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. Ma anche in quel caso l’indagine fu poi archiviata.

Nuovo capitolo  Oggi l’indagine nei confronti dell’ex Premier e dell’ex Senatore è stata riaperta dai magistrati fiorentini (con il coordinamento del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e il pm Turco) dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni dei colloqui in cui il capomafia Giuseppe Graviano – considerato lo stratega militare degli attentati compiuti in quell’anno a Firenze, Roma e Milano e condannato all’ergastolo per le stragi del ’92 e del ’93 – raccontava al compagno di detenzione nel carcere di Ascoli Piceno il coinvolgimento di Berlusconi nella strategia delle bombe. “Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto”; “Berlusca… mi ha chiesto questa cortesia… Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni… in Sicilia… In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa…”; “Nel ’94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze e fatto il traditore”; “Venticinque anni fa mi sono seduto con te… Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…”; “Io ti ho aspettato fino adesso e tu mi stai facendo morire in galera”. Parole e accuse che, seppur in forma diversa, Graviano ha lasciato intendere anche rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso del processo ‘Ndrangheta stragista.

Mettendo in fila i pezzi si evince che Paolo Borsellino non solo era stato messo al corrente dalla Ferraro del dialogo, già grave, tra i carabinieri e Vito Ciancimino, ma con ogni probabilità aveva intuito anche altro.  Forse proprio quell’ascesa che portò poi alla discesa in campo e al “ventennio” Berlusconiano nella storia politica del nostro Paese. 

Di Berlusconi e Dell’Utri parlò Totò Cancemi“Quando c’erano le preparazioni per le stragi di Falcone, del dottor Falcone, io ero in macchina con Raffaele Ganci. Stavamo andando là e Ganci Raffaele mi disse, con pochissime parole: U zu’ Totuccio si incontrò con persone importanti”. 

Ganci non gli fece i nomi di quelle “persone importanti”, ma per Cancemi è abbastanza chiaro: “Se io devo fare una logica, diciamo, (…) i discorsi sono questi che si facevano in quel periodo”. Quindi, quando fu sentito nel 1999 al processo sulla strage di via d’Amelio, aggiunse: “Se io vado indietro, noi andiamo a trovare un Vittorio Mangano che faceva quello che voleva nella tenuta di Berlusconi di Arcore. Là c’era un covo, un covo di mafiosi che andavano là, organizzavano sequestri di persona, vendevano droga, e io ho fornito pure; che c’è stato un tentativo di un sequestro di persona, che uno di questi che era, mi sembra, se non faccio errore, Pietro Testone, chiamato di… ora che mi viene il nome glielo dico… Pietro Vernengo, (…) quindi là era la base di tutte queste cose. Quindi, dobbiamo cominciare, diciamo, di qua, quindi i vantaggi ci sono… ci sono stati curati da anni indietro a venire in avanti”.

Anche l’ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, che raccontò del papello e dello stop ricevuto per compiere l’omicidio Mannino, riferì di aver parlato con Riina nel marzo 1992, dopo la morte di Lima, e che il boss corleonese gli disse delle nuove opzioni politiche (Vito Ciancimino“mi portarono pure sto Bossi, addirittura Marcello Dell’Utri”). 

E poi ancora Filippo Malvagna, Maurizio Avola, Pino Lipari, ed Ezio Cartotto. Quest’ultimo, dipendente di Publitalia, racconta che Dell’Utri, subito dopo l’omicidio Lima, gli avrebbe dato un primo incarico ancora occulto, di creare comitati politici che raggruppassero persone provenienti da più partiti, per creare un partito alternativo

Tracce. Elementi che non possono essere ignorati e che oggi vengono ripresi in mano dagli organi inquirenti per ricostruire quella stagione di sangue e delitti che, accanto all’inchiesta Tangengopoli, hanno portato al crollo della Prima Repubblica dando vita alla Seconda. 

Paolo Borsellino aveva intuito. Ed è altamente probabile che le sue considerazioni le avesse messe nero su bianco in quell’agenda rossa sparita. 

Ecco perché c’è la necessità di fare presto. Ecco l’accelerazione improvvisa rispetto alle scadenze prestabilite per cui Riina decide di “fare il fatto di Borsellino”. 

Nella fase cruciale dell’esecuzione non ci sarà nemmeno il bisogno di provare e riprovare il piano come era stato per Falcone. Perché sul posto, a fianco dei mafiosi, ci saranno professionisti non appartenenti a Cosa nostra, ma agenti dello Stato deviato. Gente abituata a operazioni rapide e pulite.

Spatuzza racconta in maniera chiara dell’uomo “non appartenente a Cosa nostra” all’interno del garage di Villasevaglios durante le fasi di imbottitura di esplosivo della Fiat 126. 

E’ un dato di fatto, inoltre, che non furono uomini di Cosa nostra a trafugare l’agenda rossa del giudice Borsellino dalla borsa. Una sparizione ancora avvolta nel mistero, nonostante gli elementi fin qui emersi. Su tutti la foto del colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, in passato finito sotto indagine per il furto dell’agenda rossa del procuratore aggiunto Paolo Borsellino poi assolto per “non aver commesso il fatto”, nonostante le famose immagini in cui viene ritratto con in mano la borsa del giudice e le continue testimonianze costellate più di dubbi che di certezze.

Cambio di rotta. La trattativa continua anche dopo la morte di Paolo Borsellino, con Cosa nostra che alza il tiro colpendo (su input di chi?) il patrimonio artistico a Firenze, Roma e Milano. 

Secondo quanto Vito Ciancimino ha raccontato al figlio Massimo, è Dell’Utri il traghettatore, il mediatore, il burattinaio, assieme a Provenzano, del rinnovato patto tra Stato e mafia.

In questo senso abbiamo ricordato le testimonianze di Salvatore Cancemi, ma vanno sicuramente aggiunte quelle dell’ex boss di Caccamo Antonino Giuffré, uno dei bracci destri di Bernardo Provenzano.

Quest’ultimo riferì che il nuovo capo di Cosa Nostra, appunto Provenzano, contravvenendo al suo abituale e cautelativo riserbo, non aveva temuto di esporsi personalmente nell’indicare a tutti gli uomini d’onore il nuovo partito di riferimento: Forza Italia. Il partito fondato da un uomo della mafia

Ecco il cambio di rotta dopo le perlustrazioni, che furono fatte, anche per la realizzazione di un partito proprio (Sicilia Libera).

L’accordo. E’ un dato di fatto che tutta l’ala oltranzista di Cosa nostra, piano piano, progressivamente, esce di scena. Non Binnu Provenzano che regnerà indisturbato fino all’aprile 2006, accuratamente protetto da qualsiasi tentativo di cattura. 

E’ sempre Giuffré ad aver spiegato nei fatti ciò che avvenne. “C’era una divinità che dovevano essere offerti dei sacrifici umani”. Una metafora efficace con cui indica nel “sacrificio più grande” il tradimento di Riina, concepibile soltanto però per un fine più grande: la Cosa Nuova, inabissata e silente. Quasi Invisibile. 

Per quante e plausibili trattative si siano accavallate tra il gennaio del 1992 e quello del 1994 è evidente che rientrano tutte in un unico progetto di “gioco grande” in cui Cosa Nostra ha prestato il suo know-how della violenza, come dal 1943 in poi, affinché si instaurasse in Italia un regime in linea con il nuovo ordine globale.

Quel testimone della trattativa è passato di mano in mano mentre segreti e misteri si sono confermati nel tempo. Da una parte c’è l’ultimo padrino latitante, depositario dei segreti di Riina, Matteo Messina Denaro, affiancato dai fratelli Graviano, che sono in carcere al 41 bis assieme a Leoluca Bagarella e i fratelli Madonia di Palermo. Dall’altra quella parte di Stato che nel suo silenzio-assenso non parla mai di lotta alla mafia e sistemi criminali. Come nulla fosse. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo, gli agenti delle scorte e cittadini inermi sacrificati sull’Altare della Patria.

La guerra continua. La ricerca della verità sulle stragi passa da più livelli e nel 2021 c’è ancora molto da fare perché non è stato scoperto tutto. Ma al contempo non si deve far passare l’idea che sia stato tutto marcio. Nell’intervista a La RepubblicaFiammetta Borsellino, senza fare alcun distinguo afferma che “il sistema giustizia è apparso malato nella vicenda depistaggio: è assurdo che per un processo definito il più grande errore giudiziario della storia italiana non sia stata individuata alcuna responsabilità di coloro che quel processo hanno gestito. Non ci sono stati neanche provvedimenti disciplinari. Anzi, chi ha sbagliato, oggi svolge ruoli apicali all’interno dell’ordine giudiziario”. Un’affermazione che sottointende alcuni magistrati, tra questi anche Nino Di MatteoL’abbiamo detto in più occasioni. Si può assolutamente comprendere la pretesa di verità di tutta la famiglia Borsellino per la tragica perdita vissuta ed in presenza di troppe verità incomplete. Basti pensare che sulla strage non è noto il nome della persona che premette il telecomando che fece saltare in aria l’autobomba in via d’Amelio il 19 luglio 1992. 

C’è poi tutta la vicenda delle prime indagini sulla strage, la vicenda Scarantino, e quella serie di false prove, mescolate a frammenti di verità per rendere “credibile” il racconto del “pupo” della Guadagna. Di fronte a questi fatti, inseriti nel depistaggio, è comprensibile la pretesa di verità dei familiari vittime di mafia. Ma in questa ricerca della verità non si possono fare errori di valutazione e di persona. Ancora una volta, dunque, siamo a ricordare, come sia ampiamente dimostrato nei fatti che Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con questa vicenda. Lo stesso magistrato, ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al Csm) ha dimostrato la sua completa estraneità al depistaggio di via d’Amelio.  Del resto basta osservare l’operato di Di Matteo per comprendere come sia stato tra quei magistrati che più di tutti si è avvicinato alla verità sulle stragi.  In questa guerra continua che ha visto così tanti caduti spesso, purtroppo, è la stessa Cosa nostra a dare prova di quelli che sono i bersagli da colpire in quanto nemici del Sistema criminale. 

E’ stato così in passato ed è così anche nella storia più recente, nella rappresentazione dei suoi vertici quando Salvatore Riina (deceduto nel 2017) ha letteralmente condannato a morte Nino Di Matteo, confermando di fatto quell’ordine che, a detta di più collaboratori di giustizia, in particolare uno su tutti, Vito Galatolo, boss di prima grandezza del quartiere Acquasanta e figlio di Vincenzo Galatolo (boss ergastolano tra gli autori della strage di via Carini che uccise il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo), arrivò a Palermo con una missiva inviata dal superlatitante Matteo Messina Denaro: si deve uccidere il magistrato palermitano perché “si era spinto troppo oltre” perché a volerlo erano “gli stessi di Borsellino”. Condanne a morte da parte della mafia che oggi vengono riconosciute anche da quelle parti che hanno avversato lo stesso Di Matteo (vedi l’ex pm Palamara nel libro scritto con Sallusti). Un progetto di attentato che, come scrissero i pm nisseni che chiesero l’archiviazione dell’indagine, “resta operativo”. Un attentato mosso non dalla vendetta, ma dalla necessità di prevenire ogni possibile intralcio.  Trent’anni dopo la lotta continua grazie all’impegno di più Procure e di magistrati come Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm ma reintegrato a pieno titolo dal Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho nel pool che indaga sulle stragi ed i mandanti esterni, o ancora pm come Giuseppe Lombardo, Luca Tescaroli, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri ed altri nelle varie procure antimafia. Sono loro quei magistrati dalla schiena dritta che rappresentano quella parte di Stato che vuole arrivare alla verità indicibile, costi quel che costi, svelando i nomi di quei mandanti esterni che non sono fantasmi.  Alcuni di loro sono morti. Altri sono ancora ai vertici della Nazione e rappresentano quei soggetti che vogliono vedere uccisi quei magistrati che cercano di dare loro un volto. di Giorgio Bongiovanni ANTIMAFIA DUEMILA 8.2.2021


Tratto da:  N. 2108/97 R.G. notizie di reato N. 959/98 R.GIP N. 2285/97 R.G. notizie di reato N. 958/98 R Gip TRIBUNALE DI CALTANISSETTA UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI ORDINANZA DI ARCHIVIAZIONE

(…) Il De Donno, dal canto suo, ha recisamente negato ( cfr. interrogatorio del 16.01.98) la esistenza di una doppia versione della informativa, rappresentando che la vicenda SIRAP fu trattata in un momento successivo, solo perché complessa ed autonoma rispetto alle vicende compendiate nella informativa del febbraio del 1991 e perchè, anche su sollecitazione dello stesso dott. Falcone, si era preferito depositare, prima, una informativa di carattere generale.

La seconda – e cioè quella del settembre del 1992 – era stata redatta, ha precisato l’Ufficiale, a seguito del riascolto delle intercettazioni effettuate in occasione della prima “tranche” di indagine, e chiariva il ruolo degli esponenti politici, ivi compreso l’on.le Lima, nella illecita manipolazione degli appalti pubblici.

Ciò premesso, rileva l’ Ufficio, innanzi tutto, che, la informativa del 20.02.91 era fondata, in prevalenza, su intercettazioni telefoniche; dalla documentazione trasmessa dalla Procura di Palermo, in data 9.03.99, a seguito della ordinanza del 27.01.99 di questo Ufficio, emerge che le richieste di autorizzazione o di proroga, ai sensi dell’art. 266 c.p.p., furono formulate – nella loro quasi totalità – dai dott. Lo Forte e Pignatone.

Essi, dunque, erano necessariamente al corrente dei progressivi sviluppi delle dette operazioni tecniche, sia perchè, secondo quanto risulta dalle dichiarazioni spontanee del dott. Giammanco rese al Pm in sede in data 16.12.97 e dalle sit del dott. Pignatone del 13.07.93 ( cfr. Volume XXIII), ne venivano costantemente informati, per le vie brevi ( cfr. anche nota del Procuratore di Palermo del 26.11.92 al Comandante dell’Arma dei Carabinieri ed al Comandante del ROS ), dal Capitano De Donno sia – e soprattutto – perchè alle richieste di proroga, via via avanzate dal Ros, risultavano allegate le trascrizioni di talune conversazioni telefoniche, onde dimostrare l’esito positivo delle operazioni tecniche già svolte e legittimare la richiesta di proroga delle operazioni di intercettazione.

Ed invero, tra gli atti relativi alle richieste o alle proroghe delle dette operazioni risultano allegate ( cfr. faldone IV, Cart.A, sottofasc.8 degli atti successivi alla ordinanza di questo Ufficio del 27.01.99):

  • la trascrizione di una conversazione del 10.02.90, svoltasi tra Giuseppe Li Pera e l’on.le Motta, allora sindaco di San Cipirrello, nel corso della quale i due concordarono un incontro presso la sede della SIRAP alla presenza del Presidente degli Artigiani;
  • la trascrizione di una conversazione del 28.02.90, svoltasi tra Claudio De Eccher e tale Grassi, nel corso della quale si fa espresso riferimento alla possibilità di “chiudere subito col Ministro quel lavoretto dell’Agricoltura”;
  • la trascrizione della conversazione svoltasi, tra Ciaravino e La Cavera, già, rispettivamente, Presidente e Vice Presidente della SIRAP, da cui emergeva che il secondo aveva patito delle minacce.

Risulta, ancora, che fu sempre richiesto ed autorizzato il ritardo nel deposito dei risultati delle intercettazioni ( cfr. richieste a firma De Donno del 23.04.90, del 30.04.90), così come emerge dagli atti processuali che il De Donno provvide, dopo aver comunicato l’esito positivo delle operazioni svolte, a ritualmente depositare in Procura le bobine delle intercettazioni ed i relativi brogliacci ( cfr. note a firma De Donno in data 3.05.90, 11.06.90, 23.07.90).

Proprio da tale rituale deposito scaturì, successivamente, la necessità per il ROS di richiedere l’autorizzazione al riascolto delle citate telefonate, allorchè si trattò di redigere la informativa “ SIRAP”, poi depositata il 5 settembre 1992: autorizzazione al riascolto che fu concessa dal dott. Lo Forte, in data 28.05.92, con provvedimento in calce alla richiesta formulata, il precedente 26.05.92, dal De Donno ( cfr. f.674, faldone IV atti successivi alla ordinanza di questo Ufficio del 27.01.99).

Se ne deve dedurre, quindi, che la omessa trasmissione, da parte dell’organo di p.g., nel febbraio del 1991, di parte delle intercettazioni telefoniche era ben nota ai dott. Lo Forte e Pignatone, i quali avevano autorizzato e seguito lo sviluppo delle intercettazioni ed erano, inoltre,in possesso – come Ufficio – dei brogliacci e delle bobine, sicchè erano bene in condizione, sia di leggere i primi, che, rilevata l’assenza delle trascrizioni delle intercettazioni sulle utenze SIRAP, di richiederne la immediata trascrizione allo stesso organo di p.g., ovvero di disporla, ancora, essi stessi nelle forme della consulenza tecnica.


Familiari: le  cause della morte nei 57 giorni dopo Falcone e nella gestione del rapporto Mafia e Appalti   Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, nella foto sotto, legale dei familiari del magistrato Paolo Borsellino, costituiti parte civile nel processo in cui il latitante Matteo Messina Denaro è imputato per essere uno dei mandanti delle stragi del 1992. “Finalmente abbiamo un’occasione unica, cioè di processare un vero capo che ha aderito totalmente alla strategia stragista di attacco al cuore delle istituzioni nazionali”, ha aggiunto il legale. “Noi dobbiamo fare l’analisi delle parole di Borsellino, che ha lasciato detto qualcosa che potesse guidare gli investigatori verso la possibilità di scoprire le ragioni e i motivi della sua morte – ha aggiunto l’avvocato Trizzino – noi dovremmo fare un’esegesi delle parole di Borsellino evitando di contaminare quelle che erano le sue conoscenza prima di Capaci e ciò che acquisì in quei 57 giorni, in cui trovo una plausibile spiegazione nell’accelerazione”.     Nel corso della sua arringa, il legale che rappresenta i familiari del giudice ha parlato delle “collaborazioni tardive di Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Alessandra Camassa e Massimo Russo, da cui abbiamo saputo delle cose che creano un rinnovato dolore”. Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, la mafia siciliana aveva stabilito l’eleminazione di Calogero Mannino, ma poi l’obbiettivo immediato diventò Paolo Borsellino. “Da quanto ci raccontano i collaboratori di giustizia, la virata avviene tra il 3 e il 20 giugno”, ha aggiunto l’avvocato Trizzino. “Cosa succede? L’autorità giudiziaria di Catania, con il sostituto procuratore Felice Lima, stava interrogando Giuseppe Lipera del 13-14-15 giugno 1992. Noi dobbiamo capire se alcune di quelle informazioni possano essere finite a Borsellino e questo è importante perchè potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccare Borsellino sul fronte del dossier ‘Mafia e Appalti’”.

Borsellino: legale famiglia, Giammanco mai interrogato “Il procuratore Giammanco non fu mai ascoltato dalle autorità di allora e questa è una delle cose piu dolorose”. Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del magistrato Paolo Borsellino, nel corso della sua arringa nel processo in cui il latitante Messina Denaro è imputato davanti la corte d’Assise di Caltanissetta (presidente Roberta Serio) per essere stato tra i mandanti delle Stragi del ’92. Una ricostruzione approfondita dei 57 giorni che separarono l’uccisione di Giovanni Falcone da quella di Borsellino. “In quei giorni Borsellino dice io so, non io penso, ma io so quali sono le ragioni dietro l’uccisione di Giovanni Falcone”, ha aggiunto il legale, riferendosi all’incontro di piazza Casa Professa (Palermo) del 25 giugno 1992, descritto come “il primo passo della sua via crucis, segnata da tappe ben chiare”. “Il 14 luglio c’è stata una riunione alla Direzione Distrettuale di Palermo e Borsellino chiese conto e ragione a Lo Forte – ha aggiunto Trizzino – perchè tra l’altro Giammanco è nella storia della Repubblica, primo e unico procuratore costretto a dimettersi per un ammutinamento dei suoi sostituti: io credo che non ci siano precedenti del genere. Borsellino voleva sapere a che punto fosse quel rapporto Mafia e Appalti e non gli dicono che il 13, il giorno prima, era stata fatta una richiesta di archiviazione, che venne ratificata il 14 agosto 1992”. “Lo Stato deve sapere che è stato lasciato solo da molti suoi colleghi, da qualcuno che voleva prendere delle iniziative senza consultarsi e quindi uccidendolo Riina – ha continuato l’avvocato dei Borsellino – ebbe la formidabile occasione di potere dar conto a quella parte di Cosa Nostra fatte da strane commistioni di massoni e imprenditori e dall’altra proseguire con la sua strategia stragista condivisa con Messina Denaro”.     L’avvocato poi si è soffermato sull’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, morto per cause naturali nel dicembre 2018. “Tra le prime cose dette da Borsellino a Casa Professa, fu che confermò l’autenticità dei diari di Falcone, pubblicati dalla giornalista Liana Milella sul Sole 24 ore ed è importante perchè li si arriva al comportamento di Giammanco, che fu assolutamente non ortodosso”, ha aggiunto il legale. “Questa è una delle cose piu dolorose – ha sottolineato –  perchè Giammanco non è mai stato ascoltato dalle autorità di allora, non fu mai compulsato da un pm per spiegare due circostanze, perchè dell’informativa sul tritolo e la telefonata del 19 luglio alle 7.15 del mattino: io posso fare tutte le illazioni di questo mondo perchè nessuno ha chiesto ragione a Giammanco di una telefonata al mattino presto, nonostante tutti sapessero che il rapporto tra i due non era per niente idilliaco”.  (AGI) – Caltanissetta, 17 lug.2020  


Fiammetta ok

FIAMMETTA BORSELLINO: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”  La denuncia della figlia del magistrato ucciso a via d’Amelio svela in tv il più grande depistaggio della giustizia italiana  «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto».  Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori. Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dal Sole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?». Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio ( l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo». Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene». Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte». IL DUBBIO 5.2.2019


 


Capitolo MAFIA e APPALTI – Sentenza processo Trattativa Stato-mafia – 20.4.2018  


Audizioni in Commissione Antimafia 


Richiesta di archiviazione “Dagli atti in questione, emergeva, in sostanza, che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia aveva costituito uno dei molteplici moventi che avevano indotto “cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane del 1992; che tale movente era rappresentato dall’interesse che alcuni ambienti politico–imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondimento di indagini, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici; che il movente suddetto aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da “cosa nostra” di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Giovanni FALCONE e Paolo BORSELLINO, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla suddetta gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese della cosiddetta “Tangentopoli”. La magistratura di Palermo, probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione BUSCEMI-Gruppo FERRUZZI, dal momento che: a) il procedimento iniziato a Massa Carrara, a carico di BUSCEMI Antonino, fu archiviato a Palermo il 1.6.1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate , anche se si diede atto dei rapporti commerciali, di “scambio o di concambio di pacchetti azionari” fra la famiglia FERRUZZI, la CALCESTRUZZI e i BUSCEMI; b) soltanto in un secondo momento a carico del BUSCEMI Antonino vennero elevate imputazioni inerenti al reato associativo .  Tutto ciò fa ritenere che vi fosse una sorta di scompenso fra le intuizioni investigative elaborate da Giovanni FALCONE (di cui si dirà dopo e che erano state in qualche misura anticipate al Convegno di Castel Utveggio), e puntualmente tracciate dai Reparti specializzati della polizia giudiziaria (ROS in primo luogo e SCO, successivamente), da un lato, e le utilizzazioni processuali conseguenti, da parte della Procura di Palermo dell’epoca. Il che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di Via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, “cosa nostra” avesse raggiunto in parte i suoi obiettivi attraverso le stragi del 1992.” Nota 24 V. i relativi provvedimenti del P.M. di Palermo nel proc. pen. n. 3589/91 R.G.N.R. acquisiti.”  Gabriella Tassone Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino

PERCHÉ FU UCCISO PAOLO BORSELLINO, ORA LO SAPPIAMO MA NON PERCHÉ NON SI INDAGÒ   Molti tasselli adesso si incastrano e comincia a diventare abbastanza chiaro il motivo per il quale fu ucciso PaoloBorsellino. Fu ucciso perché voleva indagare sul dossier mafia-appalti, probabilmente l’atto di accusa più documentato e clamoroso di sempre sui rapporti tra economia mafiosa (e potere mafioso) ed economia legale. Forse è lo stesso motivo per il quale è stato ucciso GiovanniFalcone, ma questo non è sicuro. Occorrerebbero delle indagini. Fin qui la Procura di Palermo (diciamo in questi quasi trent’anni), non ha ritenuto di doverle svolgere. Si è limitata a cadere nella trappola tesagli da un falso pentito (Vincenzo Scarantino) che – come si dice – l’ha mandata pe’ campi per parecchi anni, con l’aiuto (o il mandato) di diversi uomini delle istituzioni; e poi a mettere in piedi quel processo un po’ farsa, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia, dove l’imputato principale, paradossalmente, è il generale Mori, cioè l’uomo che ha raccolto il dossier mafia-appalti, cioè l’amico di Falcone e Borsellino, cioè l’uomo che, dopo Borsellino e Falcone, ha dato di più nella lotta a Cosa Nostra. Per ora noi giornalisti non possiamo fare altro che raccogliere gli elementi di assoluta evidenza. Quelli che risultano dai documenti, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, comprese quelle che sono state ignorate dalla magistratura. Un giornalista che fa questo con molto impegno da diversi anni è Damiano Aliprandi, del Dubbio, che ieri ha pubblicato stralci della testimonianza pronunciata nel 1992 davanti al Csm da uno dei magistrati palermitani, Domenico Gozzo, che in quei giorni era sulla piazza. Gozzo parla di una riunione di tutti i Pm della Procura di Palermo, convocati dal procuratore Giammanco, il 14 luglio del 1992, una cinquantina di giorni dopo l’assassinio di Falcone. Era presente Paolo Borsellino in qualità di Procuratore aggiunto. Da sola questa testimonianza dimostra che Paolo Borsellino, dopo l’uccisione di Falcone, voleva che si lavorasse sul dossier mafia- appalti e mostrava di conoscere bene quel dossier, e rimproverava i suoi colleghi di averlo sottovalutato. Non poteva sapere che, proprio il giorno prima, i sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte avevano firmato la richiesta di archiviazione del dossier. Nessuno glielo disse. Alla riunione, secondo il ricordo di Gozzo, del dossier parlò Pignatone, che era uno dei sostituti procuratore che erano incaricati di seguirlo. Pignatone però non era tra quelli che il giorno prima aveva firmato la richiesta di archiviazione. Possibile che non sapesse niente? E poi, alla riunione pare ci fosse anche Lo Forte (Scarpinato aveva problemi a casa): perché quando Borsellino chiese del dossier e pretese anche che fosse fissata una riunione ad hoc per discuterne, Lo Forte non avvertì che era stata già chiesta l’archiviazione? Timidezza, paura dell’ira di Borsellino? O un modo per evitare una seccatura, o strategia? La riunione chiesta da Borsellino non si tenne mai. Perché nel frattempo Borsellino fu ucciso. Forse si potrebbe anche scrivere: Borsellino fu ucciso perché quella riunione non si tenesse mai. E chi lo uccise raggiunse lo scopo. Perché a nessun magistrato che ne aveva il potere e la competenza venne in mente di convocare la riunione, dopo la morte di Borsellino. Preferirono ascoltare Scarantino… Per capire bene che non mi sto inventando niente, ricopio le frasi più importanti della deposizione del magistrato Domenico Gozzo, riportate ieri da Aliprandi sul Dubbio (il verbale della deposizione al Csm è del 29 luglio del 1992, appena 10 giorni dopo l’uccisione di Borsellino). Alla fine della descrizione mi limiterò a ricordarvi alcune date, la cui successione fa impressione.Ecco le parole di Gozzo: «Alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discute di vari temi… La riunione del 14 luglio è stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me, era una riunione… in cui i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito… su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi – la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia- appalti e, alla domanda di quali carte si trattasse, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo, però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea. E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma… vedremo”… Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma, vedremo se è possibile… ma, è il caso di acquisirlo?”». Benissimo. Ora un occhio alle date, perché qualcosa dicono.

 

 13 LUGLIO. SCARPINATO E LO FORTE FIRMANO LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DEL DOSSIER MAFIA-APPALTI.

  • 14 luglio. Si tiene l’assemblea dei Pm nella quale Borsellino parla di mafia-appalti senza evidentemente sapere che è stata già avanzata la richiesta di archiviazione.
  • 19 luglio. Borsellino viene ucciso insieme alla scorta.
  • 22 luglio. La richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti viene depositata formalmente.
  • 14 agosto. Mafia-appalti è archiviata e non se ne parlerà più. Nel dossier erano indicate tutte le aziende dell’Italia continentale che trattavano con la mafia.
  • P.S. 1 – La domanda è questa: il processo sull’ipotesi di trattativa tra stato e mafia è stato messo in piedi per dare una spiegazione all’uccisione di Borsellino diversa dalla ragione che ora appare in tutta la sua evidenza e sulla quale non si è voluto indagare?
  • P.S. 2 – Un ricordo: nei verbali di interrogatorio della moglie di Borsellino, dopo la sua uccisione, si legge questa frase: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Dopo aver letto queste parole, c’è qualcuno che può restar tranquillo?

BORSELLINO, 5 GIORNI PRIMA DELLA STRAGE, AI COLLEGHI: «APPROFONDITE MAFIA-APPALTI Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.

Tensione durante la riunione del 14 luglio  Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».

Aveva studiato il dossier dei RosDopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. IL DUBBIO 22.8.2020


 

CASELLI, BORSELLINO FU UCCISO A CAUSA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA Totò Riina avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino perché temeva si opponesse alla Trattativa. Mentre “l’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino (…) può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione (…) con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi (…) maggiori vantaggi”. “Questo afferma la sentenza di Palermo sul processo Trattativa Stato-mafia, emessa dai giudici della Corte d’Assise l’anno scorso. Attualmente il processo è in fase di appello”. A ricordarlo all’Adnkronos a 28 anni dai fatti di Via D’Amelio è Gian Carlo Caselli, giudice istruttore a Torino, che poi ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo subito dopo l’uccione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nonché delle persone delle loro scorte. Oggi dirige l’Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell’agricoltura e sulle ‘agromafie’. Di recente l’ex magistrato ha pubblicato anche un saggio, insieme al collega Guido Lo Forte già pm a Palermo e a Messina come procuratore capo della Repubblica. Si intitola “Lo Stato Illegale” (Editori Laterza) e traccia la storia degli stretti legami tra mafia, politica e imprenditoria nel periodo che va da Portella della Ginestra a oggi: all’eccidio di via D’Amelio del ’92 sono dedicate ampie parti del volume. “Nel capitolo dedicato alle stragi e ai relativi processi, fino a quello sulla Trattativa -sostiene Caselli- viene precisato che la storia di Borsellino ha avuto uno sviluppo tanto clamoroso quanto scellerato. A Caltanissetta sono stati celebrati vari processi sulla strage di via D’Amelio. Ma il cosiddetto ‘Borsellino quater’ ha segnato un ribaltone, perché la motivazione della sentenza di primo grado (1865 pagine, depositate il 30 giugno 2018) è totalmente sconvolgente: le dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto ‘di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana’, realizzato da ‘soggetti inseriti negli apparati dello Stato’”. Qui la sentenza fa riferimento specifico “al gruppo di investigatori dell’epoca guidato da Arnaldo La Barbera, appositamente istituito per le indagini sulle stragi presso la Procura di Caltanissetta: sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta costruendo falsi pentiti, per scopi che sicuramente vanno ben oltre l’ansia di ottenere risultati nella ricerca dei responsabili del delitto del 19 luglio 1992″. “I giudici -conclude Caselli- e lo abbiamo scritto chiaramente con Lo Forte anche nel libro, sottolineano l’iniziativa ‘decisamente irrituale’ dell’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada e quella improvvida di non voler sentire ciò che Paolo Borsellino poteva rappresentare in ordine alla strage di Capaci”AdnKronos, 18 luglio 2020


Dossier mafia-appalti di Mori e Falcone, perché fu archiviato?  Il dottor Guido Lo Forte, che per molti anni ha lavorato in Sicilia come Pm e si è occupato di mafia negli anni roventi della lotta a Cosa Nostra, ha scritto a quattro mani con Gian Carlo Caselli un libro, del quale l’altro giorno Il Fatto ha pubblicato un breve estratto, nel quale spiega come in realtà le trattative tra Stato e mafia furono due. La prima, nel ‘92-’93, fu condotta dal generale Mori (carabinieri) con l’ex sindaco Ciancimino e col medico Cinà; la seconda invece fu condotta da Marcello Dell’Utri con il boss Bagarella (cognato di Riina). Lo Forte fa riferimento a vari passi della sentenza del processo Stato-mafia. Però Lo Forte sa bene che ci sono stati anche altri vari processi (nei quali, tra l’altro, il generale Mori fu sempre assolto) che accertarono verità (processuali) diverse. Ora però io ho una domanda da porre al dott. Lo Forte (gliel’ho già posta altre volte, forse in modo un po’ brusco, e forse proprio per questo lui mi ha querelato: stavolta cercherò di non essere brusco, e anzi confermo la mia stima per molto del lavoro che Lo Forte ha svolto nella sua lunga carriera. Molto: non tutto). La domanda è questa: perché nell’estate del ‘92 fu archiviato il dossier mafia-appalti sul quale Mori aveva lavorato alcuni anni, insieme a Giovanni Falcone, e che, secondo molte testimonianze (compresa quella del dottor Di Pietro) stava portando a clamorose scoperte sui rapporti tra la mafia e le imprese del Nord Italia? A quel dossier, da quel che mi risulta, si interessò anche Paolo Borsellino, che chiese notizie alla Procura di Palermo appena cinque giorni prima di morire. Pare che fosse convinto che quel dossier aprisse una pista decisiva. Perché allora il 13 luglio del 1992 (sei giorni prima dell’uccisione di Borsellino) il dott. Lo Forte e il dottor Scarpinato chiesero l’archiviazione di quel dossier? Ci sono due ipotesi. La prima è che commisero un errore (anche i magistrati, secondo me, talvolta commettono degli errori). La seconda è che non si fidassero di Mori. Ma allora perché non lo dissero subito? La mia domanda non è impertinente. Perché se – come credo – la risposta fosse la prima, ne deriverebbe, come conseguenza, che Borsellino non fu ucciso per la trattativa, e che il generale Mori non è uno che ha aiutato la mafia ma uno che stava per sgominarla. E allora, forse, andrebbe assolto con parecchie scuse. E forse anche Dell’Utri è innocente. Per questo – solo per questo – insisto con la mia domanda.  Piero Sansonetti — 11 Febbraio 2020 IL RIFORMISTA


Lei però dica perché ha archiviato mafia- appalti ( Se non è vero, smentisca). Scarpinato ha firmato la richiestaIl Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti. Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario.

Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino?

In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no? Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmareIL DUBBIO 22 Maggio 2018


MAFIA-APPALTI-POTERI OCCULTI: FALCONE E BORSELLINO UCCISI PER L’INFORMATIVA CARONTE  DOCUMENTO ESCLUSIVO COMMISSIONE ANTIMAFIA: LA RELAZIONE CHOC DELL’EX PROCURATORE GRASSO SULL’INCHIESTA DEI CARABINIERI ROS DI MORI  SVELA I RETROSCENA DEGLI ATTUALI PROCESSI  PER TRATTATIVA STATO-MAFIA E DEPISTAGGI

«Se dobbiamo parlare di aspetti inquietanti, ce ne sono diversi, certamente per la strage di Borsellino. Il mio ufficio, come Procura nazionale, nei limiti dei suoi compiti istituzionali, non si è fermato nel cercare di rivedere il più possibile tutte le acquisizioni, le carte e gli accertamenti fatti non solo per la strage di via D’Amelio, ma anche per tutte le altre, partendo dall’attentato all’Addaura, per proseguire poi con le varie fasi dell’omicidio Lima, della strage di Capaci e di quella di via D’Amelio, per arrivare a Firenze, Roma, Milano e quella – fallita – all’Olimpico».

Queste parole virgolettate sono state pronunciate dall’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, davanti alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Mafia in merito ai Grandi Delitti e sulle Stragi di Mafia 1992-1993. Le frasi dirompenti ed i quesiti inquietanti emersi dalla sua audizione del 22 ottobre 2012 nella 115° seduta dell’organismo bicamerale presieduto da Giuseppe Pisanu, contenuti in un atto già pubblico dell’Archivio del Parlamento della Repubblica Italiana, sono di sconcertante attualità alla luce delle inchieste e dei processi ancora in corso. Il magistrato Pietro Grasso, procuratore nazionale Antimafia dal 2005 al 2012. Grasso, divenuto Presidente del Senato con il Partito Democratico nella precedente legislatura ed ora senatore eletto nelle file Leu, nel suo lungo colloquio coi parlamentari evidenziò da un parte i limitati poteri della Procura Nazionale Antimafia dall’altra la sua visione “politica” sugli attentati compiuti da Cosa Nostra quale «agenzia di servizi criminali» per conto di «centri occulti di potere». Si tratta di 42 pagine fitte di riferimenti, a volte anche assai circostanziati, a terroristi estremisti esperti di esplosivi piuttosto che alla massoneria fino alla citazione dei rapporti scottanti della Dia e degli Sco che con «la palla di cristallo» previdero «azioni criminali devastanti» indicando però altre piste investigative che rimasero binari morti…

Infine c’è il movente degli interessi convergenti sulla «economia criminale»: un allarme lanciato 7 anni orsono divenuto certezza nell’ultimo rapporto semestrale 2018 della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) in cui si evidenzia l’ormai acclarata infiltrazione mafiosa nell’alta finanza ed il riciclaggio di denaro provento di illeciti all’interno di attività pulite nell’ambito turistico di alberghi e ristoranti.

Solo alcune parti, poco più di un’ora su 5 di audizione, furono secretate perché ritenute dallo stesso magistrato Grasso inerenti questioni allora oggetto di indagini. L’importanza cruciale di quel resoconto dell’allora Procuratore Nazionale deriva soprattutto dalla circostanza che è una delle rarissime occasioni in cui la cosiddetta Trattativa Stato-Mafia è stata approfondita parallelamente alle inchieste sulla strage di Via Capaci, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, sua moglie, insieme agli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e sull’eccidio di Via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino con gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

LA TRATTATIVE STATO-MAFIA E IL DOSSIER SCOTTANTE  Ma soprattutto è stato uno dei pochi momenti di analisi del contesto giudiziario siciliano in cui si sviluppò la cosiddetta Informativa Caronte, l’indagine sugli intrecci mafia-appalti avviata dai Carabinieri del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) sotto il coordinamento di Falcone, ripresa da Borsellino per fare luce sull’attentato mortale dell’amico collega, e rapidamente archiviata dalla Procura di Palermo, a due giorni dall’uccisione dello stesso Borsellino, tanto da essere stata ancora di recente oggetto delle recriminazioni della figlia Fiammetta in un’intervista su RAI 1. Nella relazione di Grasso il cerchio tra mafia, imprenditoria, politica, massoneria, deep-state, servizi segreti, si chiude come un anello prodigioso destinato prima o poi a donarci il miracolo della tanto sospirata verità. Successivamente a quell’inchiesta mafia-appalti, il Palazzo dei Veleni si trasformò in un urna di misteri che a distanza di 27 anni rimbalzano da un processo all’altro. C’è stato quello davanti alla Corte d’Appello di Palermo (che approderà in Cassazione) per cui sono stati condannati nell’aprile 2018 proprio gli autori di quel dossier, l’allora generale dei Ros Antonio Subranni, il colonnello Mario Mori (poi generale di brigata e direttore del Sisde), ed il capitano Giuseppe De Donno per la presunta trattativa Stato-Mafia, da cui però era stato assolto, nel 2015 e ancora l’altro giorno, in un procedimento stralciato, sia il loro presunto “mandante”, l’ex ministro Calogero Mannino, che l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza ed al centro della polemica sulla cancellazione delle sue intercettazioni telefoniche con l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, divenuto presidente della Repubblica e poi emerito nelle fasi processuali. C’è il dibattimento davanti al Tribunale di Caltanisetta sul depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio con tre poliziotti indagati per calunnia aggravata. Ma c’è pure l’eco dell’inchiesta penale del Tribunale di Caltanisetta che nel 1999 si concluse con il proscioglimento di alcuni magistrati per corruzione per atti contrari all’ufficio e quella attualissima della Procura di Messina che, invece, nel mese scorso ha indagato due ex magistrati del Pool Antimafia proprio per i depistaggi nelle indagini sulla morte di Borsellino. E’ impossibile ricostruire in un solo articolo 27 anni di investigazioni, depistaggi, sparizioni di documenti (come la famosa agenda rossa di Borsellino), manipolazioni di pentiti e processi in parte ancora in essere. Ma è anche assai pericoloso perché il quotidiano online Il Dubbio che dedicò una ricostruzione a puntate all’Informativa Caronte sugli appalti gestiti dal cosiddetto ministro dei Lavoro Pubblici di Cosa Nostra, l’arrestato Angelo Sinio, divenuto poi collaboratore di giustizia, è stato puntualmente querelato… In attesa di raccogliere informazioni più dettagliate (auspicando di ricevere anche contributi da fonti ufficiali o anonime), in questo primo reportage ci atteniamo pertanto scupolosamente alle parole dell’ex Procuratore Nazionale Antimafia ed a quelle della figlia del giudice ucciso, parte civile nel processo nisseno sul depistaggio. Le ultime dichiarazioni di Fiammetta Borsellino piovono come grandine a ciel sereno contro l’iniziativa politica targata Movimento 5 Stelle di desecretazione degli atti delle Commissioni parlamentari antimafia dal 1962 al 2001: una strategia di trasparenza su documenti assai datati che saranno peraltro viavia oggetto di selezione prima della pubblicazione ragionata in un sito ad hoc del Parlamento.

L’INCHIESTA MAFIA-APPALTI ARCHIVIATA DOPO LA STRAGE «Oggi, anzi ieri – dice la figlia del magistrato – molti si pavoneggiano di avere desecretato quegli atti. Loro, (Commissione antimafia e Parlamento ndr) puntano agli anniversari per fare vedere che lavorano. Loro, il Csm e la Commissione antimafia, lo fanno il 19 luglio nell’anniversario della morte di mio padre e degli uomini della sua scorta e hanno il sapore della strumentalizzazione mediatica». Parole ben comprensibili visto che le sue precedenti accuse al Csm per l’intenzione di archiviare i procedimenti disciplinari contro i magistrati coinvolti nei depistaggi sulle indagini sulla strage e le sue perplessità sull’archiviazione dell’inchiesta mafia – appalti avevano trovato eco sui media ma nessuna sponda in iniziative politiche o parlamentari volte a fare chiarezza sull’operato delle toghe. Il quotidiano Il Dubbio ha ripreso le parti salienti dell’intervento di Fiammetta Borsellino su Rai 1, ospite nel febbraio scorso di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Il conduttore le chiese su che cosa stesse lavorando suo padre, cosa c’era di così di occulto tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». Per precisione, il quotidiano Il Dubbio, segnala che l’inchiesta sviluppata a partire dalla nota informativa “Caronte” dei Carabinieri del Ros fu oggetto di una richiesta di archiviazione il 13 luglio, vistata dal procuratore capo di Palermo ed inviata al Gip del Tribunale il 22, ed archiviata da quest’ultimo solo il 14 agosto.

Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice assassinato  Nella stessa trasmissione la figlia del giudice assassinato rievoca i punti dolenti del depistaggio: «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. La Procura di Caltanissetta – ha aggiunto Fiammetta – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto». La figlia di Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco, scomparso nel dicembre 2018, ex capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto sostituti procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato. Al suo posto, il 15 gennaio del 1993, arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros guidati dal generale Mario Mori ed alla sezione Crimor del famoso Capitano Ultimo, ovvero l’attuale tenente colonnello dell’Arma Sergio De Caprio.

DIFFERENTI INDAGINI SULLA TRATTATIVA STATO MAFIA  La copertina della relazione del procuratore nazionale Pietro Grasso alla Commissione Parlamentare sulle stragi –Il procuratore nazionale antimafia fu invece invitato già nel 2012 dal presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi 1992-1993 a rispondere a precise domande sulle relazioni Stato-Mafia: ci fu la trattativa? In che cosa consistette? Quando iniziò? Chi vi prese parte? Come si sviluppò? Come e perché si concluse? Dopo aver evidenziato i limitati poteri di indagini della Procura Antimafia che può coordinare ma non investigare, se non in caso estremo di avocazione dell’inchiesta per “perdurante e ingiustificata inerzia dell’attività d’indagine”, l’allora magistrato Grasso traccia un quadro generale sulle investigazioni. «Coordinare le DDA di Firenze, Palermo e Caltanissetta comporta avere un quadro globale di quelli che sono, appunto, i filoni investigativi: certamente quelli di Caltanissetta sono rivolti ad individuare i responsabili delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992; quelli di Firenze i responsabili delle stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993; infine, i filoni investigativi della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo sono tendenti ad approfondire i contatti e le relazioni tra esponenti di Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni, rientranti in quella che ormai viene comunemente definita trattativa». Tralasciando per esigenze di sintesi la terribile strage di via di Georgofili del 27 maggio 1993 in cui morirono cinque civili tra cui due bambine, ci soffermiamo sull’analisi dei differenti esiti delle inchieste siciliane tracciati dall’allora PN. «La posizione di Caltanissetta sostiene che la trattativa abbia avuto un effetto acceleratore sulla strage di via D’Amelio e ne colloca l’inizio nel momento del primo contatto tra l’allora capitano De Donno e Massimo Ciancimino. Questo è quindi l’inizio della cosiddetta trattativa: secondo le valutazioni della Direzione Distrettuale antimafia nissena, ha inizio nei primi del giugno del 1992 ed è poi proseguita con i vari incontri tra il capitano De Donno e l’allora colonnello Mori con Vito Ciancimino. Nell’ambito delle attività investigative, si e` ritenuto da parte di Caltanissetta d’indagare anche Matteo Messina Denaro (latitante – ndr) per il coinvolgimento nella strage di Capaci tenuto conto della partecipazione alla fase ad essa antecedente, che è la presenza del commando su Roma nel febbraio 1992». «Per quanto riguarda la posizione della direzione distrettuale antimafia di Palermo, ci sono invece delle piccole differenze, che non contrastano con le valutazioni della DDA di Caltanissetta, ma in un certo senso si integrano. Una prima fase della trattativa viene anticipata al momento successivo all’omicidio dell’europarlamentare Lima. Sotto questo profilo, sarebbe quindi stata anticipata l’ideazione della trattativa, che sarebbe stata elaborata da soggetti che … Forse e` meglio segretare questa parte» prosegue la relazione di Grasso che si addentra ad analizzare gli attentati ai magistrati palermitani che cominciano con quello dell’Addaura, nella villa sul mare dove il giudice Giovanni Falcone incontrò i colleghi svizzeri per alcune connessioni nelle rispettive inchieste su riciclaggio e narcotraffico, in quella strategia del giudice palermitano di seguire il denaro degli illeciti…

POTERI OCCULTI SUL FILO ROSSO TRA GRANDI DELITTI E STRAGI  «E` lì che inizia un discorso diverso, che parte sempre dall’intuizione di Falcone sulle menti raffinatissime. Il punto non sono tanto le menti raffinatissime; Falcone completa la frase parlando di centri di potere occulto che ormai sono collegati con la mafia, che è qualcosa di diverso – rivela Grasso alla Commissione – Non si tratta solo di menti particolari; parlare di centri di potere occulto collegati con la mafia vuol dire che ci sono interessi convergenti, già dall’attentato all’Addaura, sull’eliminazione di Falcone e di quello che Falcone rappresenta. Falcone non è solo il nemico numero uno di cosa nostra, non è solo quello che è riuscito a capirne i segreti e la struttura, che è riuscito a far collaborare Buscetta e quindi a fare il maxiprocesso. Non è solo quello. Quella certamente è una fase importante; pero` c’è anche un mondo che gira intorno all’economia criminale, di cui Cosa Nostra è parte integrante, ma che non è composto solo da Cosa nostra. Quindi, il fatto che abbia potuto colpire, magari senza saperlo, o toccare dei nervi scoperti o degli interessi ancora da scoprire (cui si era avvicinato) certamente può rappresentare un’ipotesi da continuare a valutare come un filo rosso che parte dall’Addaura e prosegue successivamente». Fu il giudice istruttore Rocco Chinnici, prima vittima di un attentato esplosivo a Palermo il 29 luglio 1983, a parlare del filo rosso che lega grandi delitti e stragi della storia come della nascita della Mafia contestualmente ai moti politici garibaldini-mazziniani-massonici per l’Unità d’Italia.

L’INFORMATIVA CARONTE DEI CARABINIERI ROS  E’ invece Grasso a riferire ai commissari parlamentari di «una concomitanza di causali» sollecitato dal presidente Pisanu: «La domanda si riferisce al valore che lei assegna, nel contesto generale, al famoso rapporto dei Carabinieri su mafia e appalti». Ovvero l’informativa Caronte. «Proprio questo sistema criminale, fatto non soltanto dal criminale tagliagole o dalla mafia militare, che più volte è emerso dalle indagini, certamente è portatore di interessi notevoli. Non penso che nei fatti di mafia ci sia o si possa individuare un movente o una causale unica e specifica. Spesso cosa nostra è stata usata come braccio armato per difendere questi interessi» risponde il procuratore nazionale. L’allora colonnello Mario Mori )in divisa) con il capitano Giuseppe De Donno, autori del dossier Informativa Caronte su Mafia-Appalti in SiciliaAngelo Siino, considerato il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, arrestato e divenuto collaboratore di giustizia «Quello che si può intuire è che certamente interessi economico-imprenditoriali, soprattutto dell’alta imprenditoria, risultavano minacciati da un’indagine che proprio Falcone aveva avviato insieme al ROS. Tale indagine in una prima fase si era conclusa in maniera non visibile. Avrete sicuramente acquisito gli atti. Ho visto una relazione molto articolata della Procura di Palermo sulle successioni di questo rapporto mafia-appalti – rimarcava Grasso – C’e` stato un primo rapporto molto minimalista, in cui si rappresentava il fenomeno quasi come se si volesse vedere come si atteggiava la procura e che voglia aveva di approfondire e di andare avanti. C’e` stato poi un secondo rapporto, che interviene in un secondo momento, che porterà alla cattura di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici, che però è una sorta di scudo rispetto a cose molto piu` interessanti che si sarebbero potute scoprire. Quando viene indicato, in un’intercettazione, «quello con la S», si crede di identificare Siino, mentre poi si scoprirà che era l’imprenditore Salamone, che era il centro di tutto un tavolino di appalti con cui si dividevano i grossi appalti siciliani tra le grosse imprese e la mafia, con uno 0,8 per cento per la cassa di cosa nostra tenuta da Riina». «Questo certamente lascia intravedere dei grossi interessi, così come gli interessi che venivano gestiti da Lima (Salvatore, parlamentare siciliano Dc – ndr) e da Ciancimino (Vito, imprenditore e poi sindaco palermitano – ndr) nell’ambito della spartizione dei più grossi appalti a Palermo e in Sicilia; l’uccisione di Lima significa anche un modo di cambiare completamente tutto – relazionò il magistrato alla Commissione – Lima doveva essere ucciso perchè era un uomo della fazione perdente dei Bontade-Inzerillo, non viene ucciso perché è una gallina dalle uova d’oro che riesce a mettere tutti d’accordo e a gestire questo settore dei pubblici appalti. Finché è utile, viene tenuto; quando non è più utile e il referente politico di Cosa Nostra non produce piu` nulla, si cambia. Quindi l’omicidio Lima, secondo quello che diceva lo stesso Giovanni Falcone, è uno spartiacque. Falcone disse “adesso può succedere di tutto” perché crollava tutto un mondo».

IL DOPPIO DOSSIER PER LE DIFFERENTI PROCURE  Il senatore Luigi Li Gotti, membro della Commissione, introduce quindi la questione del rapporto dei Carabinieri Ros denominato Informativa Caronte «mandato in versione ridotta alla procura di Palermo e in versione integrale a quella di Catania», e del colloquio avuto tra il colonnello Mori e il giudice Borsellino il 25 giugno 1992. «Mori ha riferito che l’oggetto di quell’incontro riservato, per non farsi vedere in procura, era proprio l’impulso d’indagine sul rapporto mafia appalti. Ma il rapporto mafia appalti che conosceva Borsellino era quello incompleto, ove erano omissati i nomi dei politici nazionali, le intercettazioni De Michelis, eccetera». L’avvocato Luigi Li Gotti. senatore dell’Italia dei Valori e membro della Commissione parlamentare Antimafia nel 2012 Lo stesso Li Gotti menziona poi un atto assai importante al riguardo: «Subranni (comandante Carabinieri dei Ros – ndr) dice di non averne mai avuto conoscenza, ma la procura di Palermo, quando fa le inchieste sul rapporto mafia appalti che manda al CSM, a pagina 41, afferma: “Chi poteva avere insieme la possibilità e l’autorità di epurare le informative, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino e Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla procura di Palermo? Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni? E, più in particolare, le omissioni effettuate nell’interesse di Mannino e Nicolosi sono state allora frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino che avevano contattato i Carabinieri, dicendo di puntare su Siino?». I riferimenti oltrechè al già citato onerevole Dc Lima e all’ex ministro socialista Gianni De Michelis, sono all’ex presidente della Regione Sicilia, Rino Nicolosi, e all’ex ministro Calogero Mannino, assolto nel 2015 nel processo stralcio con rito abbreviato dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato in quanto presunto regista della trattativa suggerita agli ufficiali dell’Arma (Subranni, Mori e De Donno). «Non è che viene fatto il rapporto e poi viene epurato. Siccome era un’indagine tutta fondata su intercettazioni, venivano utilizzate per il rapporto soltanto quelle intercettazioni in cui non erano coinvolti, appunto, personaggi politici. Quindi la scrematura avviene nella fase in cui la Polizia giudiziaria deve preparare l’informativa mettendo insieme le intercettazioni – spiega l’ex PN Grasso con una sua ricostruzione personale – Era anche nota la non particolare predisposizione della Procura di Palermo dell’epoca, visto il suo vertice, ad affrontare questo rapporto tra mafia, imprenditoria e politica in maniera assolutamente distaccata ed aggressiva. Ho ritenuto sempre che il primo rapporto, fatto in quel modo, cioè evitando artatamente di inserirvi alcune intercettazioni, soprattutto quelle in cui venivano fuori i rapporti con la politica, sia stato una sorta – per usare un termine francese – di ballon d’essai: vi mando questo rapporto per vedere che cosa ne fate, come lo trattate e se c’è la voglia di andare a fondo e continuare».

IL RAPPORTO MAFIA-APPALTI DEL ROS SMEMBRATO  Ma l’ex procuratore antimafia evidenzia una grave lacuna: «Da quelle che sono le mie notizie, perchè non c’ero allora alla Procura di Palermo, il rapporto è stato parcellizzato, suddiviso e affidato per pezzi ad una decina di sostituti. Insomma è stato smembrato completamente, il che significava, anche agli occhi di un inesperto, un modo per non riuscire a vedere l’insieme: se il rapporto viene parcellizzato, non so secondo quale criterio, se territoriale o altro, e viene affidato a tanti singoli sostituti, l’organo inquirente capisce che non c’è tanta voglia di andare avanti e indagare, lancia in resta, su questo aspetto dei rapporti tra mafia, imprenditoria e politica. Questo è il tema. Tra l’altro, l’indagine andava avanti da anni ed era stata propiziata ed ispirata da Giovanni Falcone. Lui pensava di trovarla già pronta quando sarebbe stato procuratore aggiunto a Palermo, ma i tempi non coincidono, per cui lui va a Roma con Martelli e il rapporto gli perviene più tardi». «Il primo rapporto e` del maggio del 1991 e credo che abbia influito il fatto di cercare una sponda di magistrati che potessero coltivare quelle cose, tra cui il sostituto procuratore Lima (Felice, procura di Catania – ndr). Il rapporto viene portato – scegliendolo – al sostituto che garantiva di poter gestire quella cosa. L’operazione poi non riesce e il sostituto Lima è costretto a spedirlo a chi è competente, perché i suoi superiori o il suo ambiente non gli hanno consentito di fare quello che i Carabinieri volevano fargli fare. Quando il rapporto arriva alla procura di Palermo, si tenga presente il fatto che era stato mandato al Ministro della giustizia, perché non è che fosse arrivato a Falcone: era diretto al Ministero, quindi al Ministro della Giustizia, solo che arrivava tramite gli Affari Penali». Secondo l’ex senatore Li Gotti fu Falcone stesso a rispedirlo a Palermo con una lettera accmpagnatoria che la Commissione non è più riuscita a trovare…

IL MINISTERO ALLERTATO SULLA TANGENTOPOLI SICILIANA  «Io penso che se un magistrato manda un rapporto ad un Ministero, vuol dire che vuole farlo conoscere e mettere sull’avviso il Ministero stesso. Se la notizia esce, non si sa bene chi l’ha fatta uscire; le motivazioni possono essere tante, ma certamente non rientrano tra quelle che cercano di tesaurizzare quel lavoro per poterlo valorizzare al massimo. Un rapporto del genere io lo terrei stretto come fosse un tesoro, anzi, i magistrati, quando sono in possesso di qualcosa del genere, non vogliono nemmeno farlo vedere a quello della porta accanto» stigmatizza Grasso. «Frattanto le cose maturano e viene fuori la consapevolezza di questo tentativo d’insabbiamento; non dimentichiamo poi tutti i veleni palermitani, perché quel rapporto forse non era conosciuto bene nella sua interezza da qualche sostituto, ma certamente lo era da Siino, che poi sarebbe stato incriminato (anche perché egli stesso ha dichiarato che gli portarono il rapporto), così come alcuni Carabinieri. Dietro quel rapporto vi sono delle storie. Anche due magistrati a Caltanissetta si sono dovuti difendere proprio per le fughe di notizie concernenti quel rapporto – aggiunge l’allora procuratore nazionale – Alla fine, quando si scoprì cosa si voleva coprire, emerse sostanzialmente quella Tangentopoli siciliana che, se collegata a quella milanese, avrebbe veramente sconquassato tante imprenditorie che erano un fiore all’occhiello della Nazione. Quindi, gli interessi erano notevoli. La triade mafia-politica-imp renditoria va avanti da sempre e finché non si romperà in maniera decisa, sarà difficile poter tirare fuori qualcosa di utile».

L’ULTIMO INCONTRO TRA BORSELLINO E MORI  Il procuratore nazionale indugia poi sull’incontro tra Mori e Borsellino in merito all’inchiesta mafia-appalti, ma ancor più sul clima rovente palermitano. «Il problema per i Carabinieri era l’inaffidabilià dell’ufficio che doveva gestire, dirigere le indagini e gli approfondimenti. Di fatto doveva avvenire in una maniera assolutamente segreta e comunque non dimentichiamo le difficoltà incontrate da Borsellino pure nell’interrogare Mutolo (pentito di mafia – ndr): sappiamo quanto c’è voluto, dato che prima per poterlo interrogare ci è dovuto andare con un altro magistrato, perché il procuratore Giammanco gli aveva affidato la zona di Agrigento e Trapani, ma non quella di Palermo». «A Mutolo, che aveva incominciato a manifestare la sua ansia di collaborazione già da tempo, Falcone aveva detto che doveva parlare solo con Borsellino, proprio perché doveva parlare di cose delicate e si fidavano. In un primo momento, infatti, ci va addirittura il procuratore Vigna da Firenze che però, quando comprende che non é materia che può approfondire, decide di lasciarla alla procura di Palermo – ricorda Grasso in audizione – Telefona infatti a Giammanco dicendogli che Mutolo vuole parlare con Borsellino ma che, nonostante questo, Borsellino non può incominciare a raccogliere tranquillamente da solo le dichiarazioni di Mutolo. E` un dato di fatto. Quindi c’era questa situazione in cui si doveva muovere con una certa riservatezza, viste anche tutte le cose che stavano venendo fuori. Era un momento patologico di tutta la situazione».

IL TRITOLO A PALERMO PER IL GIUDICE DA UCCIDERE «Per quanto riguarda lo stato d’animo di Borsellino, posso avere testimonianze dirette, nel senso che anch’io l’ho incontrato a Roma intorno a quei giorni, il 10 o l’11 luglio. A me apparve veramente colpito, nel senso che mi diceva: “Che te ne pare, è arrivato l’esplosivo anche per me? Gli amici, quelli che si considerano tali, ma tali non sono, mi suggeriscono di lasciare Palermo e di abbandonare tutto. Ma come posso abbandonare tutte queste cose?” C’era un velo di tristezza notevole; quindi non posso che concordare sul fatto che quello fosse lo stato d’animo di Borsellino che conoscevo anch’io». Il procuratore nazionale si sofferma sulla condizione psicologica del magistrato pochi giorni prima dell’attentato: quando aveva saputo per caso del tritolo arrivato nell’isola, come confermato da un rapporto degli investigatori alla Procura di cui fu tenuto all’oscuro. «Finché non ci saranno i pentiti dei palazzi, non potremo mai avere la verità completa. Noi abbiamo dei collaboratori soltanto da una parte, la parte criminale; ma non è che tutto sia conosciuto. Ci sono delle parti che sono riservate all’interno delle organizzazioni segrete, c’è una compartimentazione, non tutti sanno tutto» aggiunge l’ex procuratore rispondendo alle domande di vari parlamentari e poi concentrandosi su quelle del democratico Walter Veltroni su centri occulti di potere e attentati esplosivi.

LA MAFIA BRACCIO ARMATO DEI POTERI OCCULTI  «Ho detto che più volte la mafia ha agito come braccio armato o agenzia, che dir si voglia. Addirittura, ricordo che Pippo Calò a Roma era talmente collegato con la banda della Magliana da essere una agenzia di servizi criminali. E – ripeto – era a Roma. Quindi, il discorso del braccio armato e dell’agenzia, l’ho avuto sempre presente. Questo dà la spiegazione su altre causali. A volte le causali sono convergenti. Altre volte, invece, non vi sono proprio le causali di Cosa nostra e questa è la caratteristica ulteriore, proprio nei casi da lei citati, onorevole Veltroni, degli omicidi del giornalista Pecorelli e del generale Dalla Chiesa. Mi pare che ormai tutto ciò si possa dare per scontato». L’ex procuratore analizza quindi la “svolta politica mancata” del dopo Tangentopoli con il Governo tecnico (Giuliano Amato premier). «Un depistaggio si costruisce perche´ si deve coprire qualcos’altro: e` questa l’ipotesi principe. Non solo, ma quando verifichi che le cose che dovevi trovare al loro posto non le trovi al loro posto e che certi filoni di indagine non sono stati completamente percorsi e approfonditi, viene qualche sospetto che vi siano una regia e una strategia che qualcuno mette in atto. Nel nostro Paese, nella nostra storia, sono tanti i fatti, gli eventi che si sono creati, in cui si puo` certamente desumere che ci sia qualcosa di non trasparente, che non e` assolutamente visibile e che opera di nascosto. La definizione “centri occulti di potere” sarà generica, ma dà l’idea di qualcosa che opera in parallelo rispetto a Cosa nostra».  La descrizione ben si attaglia con quel concetto di Deep State che travalica le istituzioni ed è capace di mettere in correlazioni differenti ambiti crminali per i propri scopi. Ecco quindi sfumare l’ipotesi che le stragi di Capaci e via d’Amelio, e i depistaggi nelle indagini su quest’ultima, siano avvenuti solo per vendette mafiose sul maxiprocesso o per ottenere una revisione del carcere duro del 41 Bis: si tratta di mere concause secondo il PN. Un nodo centrale in molte delle 42 pagine di audizione è rimasto infatti focalizzato proprio sulla cosiddetta Informativa Caronte, depositata il 1° ottobre 1991 dopo il primo rapporto di maggio da quegli stessi Carabinieri del Ros poi finiti sotto inchiesta per la Trattativa Stato Mafia nell’acme di diffidenza e scontro di poteri tra magistratura e forze dell’ordine.

LA TRATTATIVA CHE NON EVITO’ ALTRE STRAGI  Grasso è drastico sull’argomento: « Il fatto accertato qual è? Che questa attivita` c’è stata. La finalità dichiarata era: far finire le stragi. Purtroppo però le stragi sono finite in Sicilia, ma sono continuate poi nel continente. Per quanto riguarda il ruolo del generale Mori, continuo ad insistere su un fatto. Il generale Mori può essere anche condannato. Se è condannato per un fatto accertato o per una serie di indizi, avete la possibilità di avere un’autonoma valutazione. Tuttavia, che porti o meno alla responsabilità sul fatto, io dico che la valutazione, da un punto di vista politico, può essere diversa. Quindi continuo ad insistere sul fatto che non ci si può attaccare o aggregare alle valutazioni di altri, della magistratura in particolare». Grasso rammentò inoltre che l’attentato del 1993 a Firenze in via dei Gerogofili si trasformò in un eccidio solo per un cambiamento del luogo dell’autobomba causato dai controlli nel posto prescelto vicino agli Uffizi, simbolico come quello delle bombe presso la chiesa di San Giorgio del Velabro a Roma, ma anche la difficoltà di quello di Capaci. «Il meccanismo di azionamento del telecomando che doveva far attivare la carica esplosiva, in tempismo con le macchine che vanno a 120 o 140 chilometri all’ora, non era assolutamente semplice».

DAI TERRORISTI ESPERTI DI ESPLOSIVI ALLA MASSONERIA  Tra i condannati c’era qualcuno con esperienze di artificiere? Chiese Veltroni ottenendo la puntuale risposta dell’ex procuratore nazionale: «Uno che doveva avere queste esperienze e che viene catturato, secondo le dichiarazioni di Brusca, è un certo Rampulla di Mistretta, che però il giorno della strage non c’è. Loro ti diranno che si doveva soltanto pigiare il tasto di un telecomando e che non c’era l’esperto mafioso. Dico mafioso, ma Rampulla era di Ordine nuovo, lì aveva fatto la sua militanza e – non per voler criminalizzare nessuno – la sua esperienza esplosivistica veniva da quella frequentazione. Nelle stragi viene coinvolto un certo Santo Mazzei di Catania, che e` quello che va a mettere il proiettile nei giardini di Boboli a Firenze, e deve fare la prima rivendicazione per il carcere di Pianosa per cominciare a far venire fuori il problema carcerario. Anche lui ha delle precise connotazioni di precedenti politici, che naturalmente lo fanno inserire in un certo entourage. I catanesi non lo volevano in cosa nostra; è Bagarella che riesce a farlo entrare e lo mette sotto la sua protezione: questo ci dicono. C’e` quasi un’infiltrazione e una costruzione che poi diventa operativa». Ma oltre alle correlazioni con gli ambiti terroristici spuntano ovviamente i soliti ingredienti di una spy-story alll’italiana: «Massoneria, servizi deviati e grande imprenditoria: queste sono le categorie, ormai tradizionali, ma da questo poi passare a dire altro… Se avessimo degli elementi nei confronti di un esponente di qualcuna di queste categorie, il nostro giudizio potrebbe già essere più mirato» commenta Grasso subito interrotto dall’assist del presidente Pisanu: «C’e` qualche loggia ogni tanto, ad esempio quelle del trapanese». «Esatto. C’è la loggia Scontrino e ci sono le logge del trapanese; ma quelle sono una realtà» replica immediato l’allora procuratore antimafia.

Il secondo livello di coperture è quello riguardante gli ambiti della polizia e dei servizi segreti emersi in tutta la loro gravità nel «più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» come i giudici della Corte d’Assise di Caltanisetta del processo Borsellino quater definirono l’inchiesta su via D’Amelio.

I RAPPORTI CHIAROVEGGENTI E LE PISTE SCOMPARSE  «Ci sono stati poi due Rapporti, uno della DIA (del settembre 1993) e l’altro dello SCO (l’unità anticrimine della Polizia), che hanno fatto dei riferimenti precisi alla trattativa e al collegamento tra l’omicidio Lima, la strage di Capaci e tutte le varie situazioni – aggiungeva il procuratore nazionale – Ogni tanto me li rileggo e mi chiedo se avevano la palla di cristallo. Si prevedono azioni criminali di devastante portata che poi avverranno successivamente. Anche il Rapporto dello SCO parla di una strategia delle bombe avviata nel maggio del 1992. Come facevano? Chi ha redatto quel rapporto? Come faceva ad avere queste informazioni? Certamente sono informazioni di natura confidenziale, che servono in via preventiva, per poter riuscire a capire, quantomeno, le cose che succedono ed evitare che se ne verifichino altre più gravi. Poi, però, le piste emerse da questi due Rapporti sono scomparse ed è rimasta solo Cosa nostra. E ` questa la particolarità: queste piste sono state prospettate ma, con la stessa rapidità, non si sono più trovate in altre indagini su questi settori».

«Comunque, mi sembra che sul rapporto mafia-appalti abbiamo fatto emergere che una delle concause potrebbe essere sicuramente l’aver toccato interessi così importanti e così grossi. L’economia criminale è diventata una parte che si nasconde nell’economia legale inquinandola, per cui adesso è difficile riuscire a distinguere le due cose. Pertanto, questo può effettivamente essere uno dei fattori scatenanti» è l’amara conclusione del magistrato antimafia che combacia perfettamente con le analisi della Relazione della Dia al Parlamento sul II semestre 2018.

La strage di Capaci in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con tre uomini della scorta  La sintesi è davvero apocalittica: due giudici onesti sono stati ammazzati con attentanti esplosivi, i Carabinieri del rapporto Mafia-Appalti sotto inchiesta per una trattativa con Ciancimino che gli ufficiali dell’Arma hanno sempre sostenuto rientrare in una normale attività di investigazione e gestione di un collaboratore-informatore per individuare gli altri latitanti di Cosa Nostra. Quella scottante informativa sulle connesioni tra mafiosi ed imprenditori fu archiviata. Ed i magistrati che indagarono allora e gli altri che depistarono poi hanno fatto carriera fino alla pensione e successiva morte per anzianità. A questa torta nauseante discontri ed intrecci di poterei occulti, che ricorda la recente inchiesta sugli appalti miliardari Consip del Ministero del Tesoro e gli intrighi per le nomine nel Csm, manca solo una ciliegina appassita che giunge dalla storia. Il documento della prima Commissione parlamentare antimafia che svela il nome del politico che accreditò l’imprenditore Vito Ciancimino facendogli far carriera negli appalti ferroviari e spianandogli la futura carriera politica come Sindaco di Palermo. Non è un atto appena desecretato: è un carteggio pubblico dal 1970 che però crea imbarazzo nel leggerlo e ancor più nel citarlo o scriverlo. Perché evoca il nome dell’ex sottosegretario democristiano Bernardo Mattarella, padre dell’attuale presidente della Repubblica, come narrato da Gospa News nella storia sugli Intoccabili Siciliani… Fabio Giuseppe Carlo Carisio  GOSPA NEWS 21.7.2019

“Paolo Borsellino è stato ucciso per la questione mafia-appalti”  E’ la tesi di Alberto Di Pisa, magistrato che fece parte del pool antimafia di Palermo «Paolo Borsellino è stato ucciso per la questione mafia e appalti, non c’entra la trattativa». Lo dice, in una intervista a «Il Dubbio» Alberto Di Pisa, magistrato che fece parte del pool antimafia di Palermo, lavorando accanto a Giovanni Falcone e lo stesso Borsellino. «Proprio il giorno dell’attentato – racconta – Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». Si occupò dell’inchiesta su mafia e appalti che gli fu tolta dall’allora Procuratore Pietro Giammanco e che finì archiviata. «Con Paolo Borsellino eravamo in ottimi rapporti – racconta Di Pisa – sia a livello professionale che umano. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci, eppure basterebbe leggere i verbali di quando Falcone fu sentito al Csm che disse che i nostri rapporti erano ottimi». Di Pisa fu accusato di essere il «corvo» del tribunale, accusa da cui fu pienamente assolto. «Borsellino disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi – dice ancora Di Pisa -. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova, dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente assolto». E racconta che in quel periodo aveva «inchieste scottanti, tra le quali quella di mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera di Orlando ma appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi». E spiega che Paolo Borsellino, a suo avviso, è stato ucciso proprio per quella inchiesta. «Non c’entra nulla la trattativa – dice – perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in procura se avesse appurato una cosa del genere, in realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia». «Ricordo che in una occasione – dice – gli chiesi se l’attentato a Falcone fosse una strategia di “destabilizzazione” e lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”».  LA STAMPA 19 Luglio 2020


IL DOSSIER “MAFIA-APPALTI” / LA CHIAVE PER CAPIRE LE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO Il rapporto “Mafia-Appalti” come movente base per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. L’assalto delle “imprese di partito” – anzi di corrente – ai mega appalti pubblici, a cominciare da quelli dell’Alta Velocità, che rappresentava la grande torta. La mafia come collante e come braccio armato. La Voce ne ha scritto fin da inizio anni ’90, così come ha fatto uno dei nostri autori più prestigiosi, Ferdinando Imposimato, che a metà anni ’90 ebbe il coraggio di firmare una “storica” relazione di minoranza all’interno della Commissione Antimafia per puntare l’indice su quell’esplosivo dossier finito sulla scrivania di Giovanni Falcone alcuni mesi prima di essere trucidato. Un lavoro condiviso subito con Paolo Borsellino e portato avanti fino all’eccidio di via D’Amelio. Una pista – quella Mafia Appalti – sempre “osteggiata” dai papaveri della magistratura. E che invece, di tanto in tanto, torna a turbare i sonni dei potenti, molti pezzi da novanta travestiti da politici, imprenditori o in toga.

LA VERA MAFIO-TANGENTOPOLI Adesso succede con le fresche dichiarazioni di Basilio Milio, avvocato, figlio di un altro avvocato storico, Pietro Milio, radicale, per anni braccio destro di Marco Pannella in tante battaglie sul fronte dei diritti civili. Ha sempre lottato, Pietro, per far emergere la verità su quelle “Stragi di Stato”, ed ha sempre indicato quella pista, l’esplosivo dossier “Mafia-Appalti”, redatto dal Ros dei carabinieri all’epoca guidato da Mario Mori e dal suo allora braccio destro, Giuseppe De Donno980 pagine davvero “al tritolo”, come quello che ha fatto saltare per aria le vetture di Falcone e Borsellino. Verità all’epoca, appunto, esplosive, perché facevano già luce su una maxi Mafio-Tangentopoli, uno tsunami ben più gigantesco di quello innescato, mesi e mesi dopo, dal pool di Milano. Perché in quelle carte e in quei documenti da quasi mille pagine erano dettagliate tutte le connection tra le big dell’imprenditoria di casa nostra, soprattutto sigle del nord, e vip di riferimento della politica, i legami con le cosche di mafia e di camorra. Ancora: le ragnatele dei subappalti, la mappa delle commesse, le infrastrutture pubbliche nel mirino. A cominciare, appunto, dai super appalti per l’Alta Velocità, 27 mila miliardi di lire allo start, nel ’90, una torta lievitata a dismisura. Tanto che nel loro mitico libro-j’accuse – “Corruzione ad Alta Velocità” scritto nel 1999 – gli autori Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato già all’epoca scrivevano di una cifra mostre, 150 mila miliardi di lire. Che nell’arco di questi oltre vent’anni hanno raggiunto vette stratosferiche, ormai incalcolabili, un pozzo senza fine per lobby d’ogni sorta e politici d’ogni risma. Torniamo alle parole di Basilio Milio – oggi legale di Mario Mori per il processo sulla “Trattativa” – nel corso di un’intervista rilasciata a “il Riformista”.

PARLA BASILIO MILIO “Le ragioni dell’accelerazione della strage in cui persero la vita Borsellino e gli uomini della scorta furono altre (non quelle che riportano alla ‘Trattativa’, ndr). Si temeva che Borsellino fosse nominato Super Procuratore Antimafia. E soprattutto c’era il timore che Borsellino proseguisse con De Donno, avvalendosi della collaborazione del Ros, l’inchiesta iniziata da Falcone sulla correlazione mafia-appalti, che coinvolgeva anche uomini politici”. Milio rammenta anche “una riunione avvenuta il 14 luglio 1992, cinque giorni prima della morte di Borsellino, tra gli appartenenti alla procura della repubblica di Palermo. Nella quale Borsellino chiese conto e ragione del fatto che i carabinieri si erano lamentati degli esigui sbocchi processuali di quell’inchiesta su mafia e appalti”. “Borsellino chiese conto e ragione del perché l’indagine Mafia-Appalti procedesse così a rilento. Manifestò interesse e protesse i carabinieri, chiedendo di quella indagine ai suoi colleghi”.  Di lì a qualche ora due colleghi rispondono con i fatti. Anzi con un ceffone in faccia a Borsellino. Si tratta di due icone (sic) antimafia, Giuseppe Lo Forte e Roberto Scarpinato che – udite udite – chiedono nientemeno che l’archiviazione – poi regolarmente arrivata – di quella inchiesta bomba! Ai confini della realtà. Come buttare sotto montagne di naftalina e cenere un tesoro di notizie, di reati pesantissimi, di fatti che avrebbero fatto crollare i Palazzi, rappresentando una super Tangentopoli con condimento mafioso, disvelando la più grande associazione di stampo mafioso mai scoperta in Italia! Ma è meglio chiudere gli occhi, non vedere. E affossare. Rammenta Milio: “Borsellino, davanti al feretro di Falcone, disse che le ragioni della morte di Falcone andavano ricercate nell’ambito dell’indagine Mafia-Appalti”. E aggiunge: “non mi spiego come, a distanza di quasi trent’anni, si continua a non prendere nella dovuta considerazione quell’indagine del Ros e anzi a non attribuirle alcuna importanza”.

LA PISTA PERICOLOSA   Nel corso dell’ultima commemorazione delle vittime di Capaci, il coordinatore nazionale dei ‘Familiari delle vittime di mafia’ e dell’associazione ‘I cittadini contro le mafie e la corruzione’, Giuseppe Ciminisi, ha sottolineato: “Il valore della memoria sta nell’aiuto che dobbiamo trarne per costruire, mattone su mattone, una società più sana. Oggi più che mai il nostro impegno deve essere quello di chiedere a gran voce che venga strappata quella ragnatela che continua ad avvolgere i tanti misteri delle stragi del ’92, a partire dal dossier mafia-appalti, l’indagine voluta da Falcone e che Borsellino avrebbe voluto venisse portata avanti, e che in molti ormai ritengono sia stata la vera causa degli attentati”. Una pista più volte indicata con vigore – carte alla mano – dall’uomo che conosce tutto di quel mondo delle commesse pubbliche, a proposito del Sistema degli Appalti su cui la politica a fine anni ’80- inizio anni ’90 aveva messo le mani, per controllare i giganteschi flussi di danari pubblici. Si tratta del geometra Giuseppe Li Pera, il quale ha puntato l’indice contro quelle toghe che hanno affossato l’inchiesta scaturita dal rapporto “Mafia-Appalti”. In quegli anni bollenti è stato il rappresentante di una grossa impresa edile del nord, la friulana Rizzani-De Eccher: il cui nome faceva capolino nel lotto delle sigle baciate dalla fortuna per i maxi appalti siciliani. Tra le altre star c’era l’Icla molto cara ad ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino e la Calcestruzzi di casa Ferruzzi. Ha reso anche una lunga e articolata verbalizzazione su quei fatti bollenti, Li Pera, dettagliando proprio quel Sistema criminaleMa non è scaturito mai niente Neanche un battito d’ali. Il pm che lo interrogò si chiama Antonio Di Pietro.  LA VOCE 11.6.2020


MAFIA E APPALTI e’ sempre stato uno dei filoni d’indagine sui moventI degli eccidi di Capaci e via D’Amelio. Dopo un quarto di secolo, un “processo trattativa”, i legali degli imputati lo rilanciano per smontare l’accusa contro i Ros. Hanno chiamato a testimoniare soprattutto magistrati ed esponenti politici, i legali degli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, per dimostrare che le stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 furono attuate da cosa nostra per impedire che Giovanni Falcone, prima, e Paolo Borsellino, poi, potessero approfondire le investigazioni su mafia e pubblici appalti. Cioè sull’ambito in cui gli interessi dei boss incontrano quelli delle imprese, dei politici, degli amministratori e dei pubblici funzionari. Tangentopoli con l’aggiunta della mafia: Mafiopoli.
Venticinque anni dopo, per le Procure di Palermo e di Caltanissetta, invece, il movente della strage di via D’Amelio sarebbe la trattativa. Basti pensare che secondo la Dda di Palermo, come ha ricordato il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria del processo all’ex ministro Calogero Mannino (ritenuto il mandante della trattativa, ma assolto in primo grado), nell’informativa del Ros consegnata dal capitano Giuseppe De Donno a Giovanni Falcone, nel febbraio del 1991, mancavano “acquisizioni addirittura di un anno antecedenti” a carico dello stesso Mannino, di Salvo Lima e di Rino Nicolosi. Per il pm si sarebbe trattato di una “sporca operazione” dei vertici del Ros per coprire Mannino e gli altri esponenti politici.
La Procura di Caltanissetta, titolare delle indagini sulle stragi del 1992, aveva già vagliato a partire dal 2000, in uno dei filoni d’indagine sui cosiddetti mandanti esterni, “l’ipotesi investigativa che le stragi di Capaci e di via D’Amelio costituissero anche una rabbiosa reazione, organizzata ed eseguita in sinergica contestualità con ‘cosa nostra’, da parte di organizzazioni economiche espressione di poteri imprenditoriali e politici ‘forti’, disturbati nella loro attività dalle indagini di Falcone prima e di Borsellino poi o che Borsellino avrebbe potuto iniziare, proseguire o portare a termine”. Arrivando alla conclusione, nel 2003, che “il filone di indagini mafia-appalti abbia potuto costituire un valido movente delle stragi o, quantomeno, abbia potuto agire da catalizzatore di interessi convergenti all’esecuzione delle stragi”, ma senza trovare elementi tali da potere chiedere il rinvio a giudizio di qualsivoglia indagato e, dunque, optando per la richiesta di archiviazione, accolta dal gip.
Vediamo di ricostruire i fatti principali.
Il 20 febbraio del 1991 il capitano De Donno consegna al giudice Falcone la celebre informativa di 890 pagine su mafia e appalti, principalmente composta da intercettazioni telefoniche, ma il magistrato è ormai prossimo a trasferirsi al Ministero di via Arenula; con gli altri colleghi del pool antimafia, è impegnato in una corsa contro il tempo per chiudere l’istruttoria sugli omicidi politici (Mattarella, La Torre, Reina) prima che scadano i termini imposti dalla legge, nel passaggio dal vecchio al nuovo Codice di procedura penale. Così, il documento finisce in cassaforte, perché anche i sostituti Pignatone e Lo Forte, assegnatari del fascicolo con Falcone, sono impegnati nella medesima istruttoria, depositata il 12 marzo 1991. L’inchiesta del Ros svela che cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario (imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Falcone durante un convegno organizzato in quei giorni dall’Alto commissariato Antimafia, “indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici”. L’inchiesta è così complessa e la mole degli atti talmente monumentale che, in maggio, il procuratore Giammanco affianca a Pignatone e Lo Forte altri sei sostituti e il Procuratore aggiunto Spallitta. Il Ros individua 45 persone – mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani – a carico dei quali ipotizza i reati di associazione mafiosa (per 24 di loro) e di associazione per delinquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici (per 21). L’organizzazione sarebbe capeggiata da Angelo Siino, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Giuseppe Jato e al catanese Nitto Santapaola, arrestato il 9 luglio ’91 con altre quattro persone: il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli “imprenditori” Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, tutti accusati di mafia. Ai cinque, all’inizio del ’92, si aggiungono Vito Buscemi e Rosario Cascio.
Il 26 luglio del ’91, dopo i primi arresti, la Procura delega il Ros ad approfondire il filone d’indagine sulla Sirap, società pubblica regionale incaricata di gestire la realizzazione di una serie di aree artigianali in Sicilia, per un ammontare complessivo di mille miliardi di lire. Così facendo, la Procura mette in campo una strategia articolata in tre punti: 1) l’arresto degli elementi più pericolosi, sui quali c’erano elementi sufficienti per ottenere il rinvio a giudizio e la condanna; 2) acquisire altri elementi su soggetti già individuati dal Ros; 3) individuare i referenti politici e amministrativi dei boss.
In realtà, non tutto fila liscio, visto che a metà giugno del 1991, La Sicilia, il quotidiano di Catania, avvia una campagna contro la Procura, accusata di tenere “nel cassetto” il rapporto del Ros, pubblicando anche stralci delle intercettazioni “insabbiate”. Campagna che presto tracimerà sulle pagine di quotidiani e periodici nazionali.
Il 13 luglio del 1992, sei giorni prima della strage di via D’Amelio, ritenendo di non avere elementi sufficienti per il giudizio, la Procura deposita la richiesta di archiviazione per 21 indagati e il 22 la presenta al gip, che il 14 agosto firma il decreto di archiviazione. Resta aperto il corposo filone Sirap.
Giuseppe Li Pera è uno dei cinque incarcerati del luglio ’91. Li Pera è interrogato due volte dai pm di Palermo, ma si rifiuta di rispondere. Lo stesso fa il 5 marzo, durante un interrogatorio dei pm Lo Forte e Scarpinato al quale assiste anche il capitano De Donno. 5 marzo 1992: questa data è importante, perché alla fine dell’interrogatorio l’ufficiale si apparta coi due magistrati, si dice convinto che l’imputato sia condizionato dal suo avvocato (poi condannato per mafia) e chiede di poterlo incontrare da solo per convincerlo a collaborare. Permesso accordato.
Il 9 marzo la Procura chiede il rinvio a giudizio di Li Pera, Siino e gli altri tre coindagati, per associazione mafiosa,
Il 30 aprile al Ros di Palermo arriva una lettera anonima con la quale li si invita a “interrogare Li Pera” per scoprire “imbrogli” su alcuni appalti pubblici in provincia di Catania e a chiedere “informazioni al giudice Lima”, al quale il Ros, il 3 maggio, trasmette l’esposto e una nota esplicativa. Risulterà che l’anonimo era stato scritto dallo stesso Li Pera, che dal 13 al 15 giugno e il 27 agosto è interrogato in carcere dal pm etneo Felice Lima, come persona informata sui fatti, mentre il 20 luglio è De Donno, su delega del pm, a interrogarlo. Li Pera racconta in maniera meticolosa il funzionamento del sistema degli appalti siciliano e nazionale, tacendo su cosa nostra, che si intravede solo nell’espressione “forza di tipo diverso” delegata alla “risoluzione dei contrasti” tra imprese che non riesce a sbrogliare Filippo Salamone, l’imprenditore agrigentino delegato a risolvere le situazioni complicate. Il 14 ottobre 1992, il collaborante è interrogato per la prima volta in presenza di un avvocato, poiché indagato in seguito alle sue stesse rivelazioni.
I pm di Palermo, della collaborazione di Li Pera, non sanno nulla fino al 28 ottobre 1992, quando da Catania arrivano i verbali d’interrogatorio del geometra, un rapporto di 843 pagine del Ros di Palermo redatto dal capitano De Donno, datato 1 ottobre 1992, e una nota introduttiva di 8 pagine firmata dai capi dell’ufficio etneo. Dopo avere chiuso in un cassetto la richiesta di custodia cautelare avanzata da Felice Lima nei confronti dei vertici della Regione siciliana, grandi imprenditori regionali e nazionali, professionisti e qualche boss: 22 in tutto. Lima aveva provato a contattare Paolo Borsellino (lo ha confermato al Csm la madre del magistrato ucciso) ma il tritolo lo ha tolto di mezzo prima che i due potessero incontrarsi.
Nello stesso periodo, il capitano De Donno indagava per conto dei pm antimafia di Palermo e per il pm Felice Lima di Catania, su fatti che a volte si sovrapponevano (alcuni appalti Sirap), consegnando corpose informative ai due diversi uffici inquirenti (a Palermo, il 5 settembre 1992), tanto che, come ha scritto l’ex Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli in una dettagliata relazione consegnata alla Commissione parlamentare Antimafia nel 1999, gli allegati dell’informativa consegnata a Lima erano costituiti “in massima parte da fotocopia di atti compiuti dalla Procura della Repubblica di Palermo”.
Il 19 ottobre ’92 a Palermo inizia il processo a Li Pera, Siino e gli altri arrestati dell’estate del ’91, ma i pm non sanno della collaborazione del geometra, lo apprenderanno solo quando da Catania gli arriveranno i verbali (28 ottobre) e dovranno cambiare radicalmente la strategia accusatoria a processo avviato. Non solo. Siccome le dichiarazioni di Li Pera si incastrano alla perfezione con le intercettazioni telefoniche alla base del primo rapporto dei Ros, le 21 archiviazioni forse non ci sarebbero state.
L’inchiesta “insabbiata” dai magistrati di Palermo raggiunge il suo apice la notte tra il 25 e il 26 maggio 1993, quando vengono eseguiti 25 arresti di boss, amministratori della Sirap, imprenditori d’alto rango e politici di livello nazionale, mentre alcune decine di esponenti politici ricevono degli avvisi di garanzia, per tre dei quali (Nicolosi, Mannino e Buttitta) si rende necessario chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere. Determinanti risultano le dichiarazioni di Li Pera che, nel frattempo, dopo l’insediamento a Palermo di Caselli, ha descritto senza reticenze anche il ruolo “regolatore” di cosa nostra nel sistema degli appalti.
Insomma, stando ai fatti, il Ros avrebbe “epurato” l’informativa consegnata a Falcone dai nomi degli esponenti politici di spicco, consegnando gli atti completi solo due anni dopo. Ciò sarebbe “frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino, che avevano contattato i Carabinieri?” ha retoricamente chiesto il pm Tartaglia, durante la requisitoria nel processo a Mannino. Per concludere con altre domande altrettanto retoriche: “Chi, nel Ros, poteva avere la forza di epurare quella informativa e di proteggere Mannino? Chi, se non il suo comandante Subranni? Questa copertura sarà stata determinata da contatti occulti con Mannino, che aveva contattato i Carabinieri?”.
Antonio Subranni era all’epoca il capo del Ros, il superiore diretto di Mori e De Donno. Tutti e tre, oggi, sono sotto processo a Palermo perché, secondo l’accusa, dopo l’omicidio di Salvo Lima si sarebbero attivati per salvare la vita a Mannino, avviando una trattativa coi boss di cosa nostra. Mannino, però, è già stato assolto in primo grado (col rito abbreviato), come in precedenza sono stati assolti (in primo grado e in Appello) il generale Mori e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di non avere voluto catturare il boss Provenzano, nel 1995, proprio per via della trattativa. Incastri che, quando pare si stiano saldando, non reggono alla verifica dibattimentale. Mentre il tempo annebbia i ricordi dei testimoni e rende sempre più difficile l’accertamento della verità, a venticinque anni dalle stragi. POLIZIA E DEMOCRAZIOA 2017 di Sebastiano Gulisano

PAOLO BORSELLINO IMPLORÒ ASCOLTO NEI 57 GIORNI DA CAPACI A VIA D’AMELIO  L’ARCO DI TEMPO DALLA STRAGE IN CUI MORÌ IL GIUDICE FALCONE AL 19 LUGLIO 1992 È CRUCIALE PER LA COMPRENSIONE DELLA MOLLA CHE SPINSE COSA NOSTRA A UCCIDERE BORSELLINO. “Borsellino in quei 57 giorni implorava di essere ascoltato e non si trovò il tempo”. Così l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del giudice Paolo Borsellino, è intervenuto in qualità di parte civile nel processo in corso davanti la corte d’Assise di Caltanissetta, in cui il pm Gabriele Paci ha chiesto l’ergastolo per il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle Stragi del ’92. Nei giorni successivi all’attentato di Capaci del 23 maggio – in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti delle scorte – l’obiettivo successivo di Cosa Nostra era diventato l’ex ministro Calogero Mannino. “Noi dovremmo capire perchè Totò Riina decise di virare su Borsellino”, ha aggiunto l’avvocato Trizzino alla corte presieduta dal giudice Roberta Serio. “Nessuno ci raccontò in quegli anni l’attività che veniva condotta da due militari del Ros, sganciati da alcuna guida – ha continuato il legale – e noi abbiamo un giudice che in quei giorni implorava di essere ascoltato e non si trovò il tempo. Dal 24 maggio al 19 luglio voleva parlare con la Procura di Caltanissetta per dare il suo contributo, ma non fu mai ascoltato. Gli danno un magistrato di collegamento, il povero compianto dottor Vaccaro, ma che gli si affianchi un magistrato proveniente da Messina a colui il quale aveva istruito il Maxiprocesso mi sembra…niente, non è stato ascoltato, Paolo Borsellino“. Il 25 giugno il giudice partecipò a un incontro nella biblioteca di Casa Professa (Palermo), “proprio perchè aveva necessità di dire delle cose”. Nel corso della sua arringa il legale ha citato piu volte il rapporto Mafia e Appalti: “Quel dossier era nelle mani di tutti, ancora prima di finire agli atti del Riesame nel processo su (Angelo) Siino, tanto che non furono omissate le parti che ancora erano sotto indagine, mettendo tutti a conoscenza di questi fatti”, ha aggiunto Trizzino. Un intreccio che riconduce gli interessi di Cosa Nostra a quelli del mondo delle imprese, richiamando il cosiddetto ‘patto del tavolino’ – l’accordo tra mafia, imprese e politica svelato da Angelo Siino quando iniziò a collaborare con i magistrati – che era in fase di revisione, con l’avanzare di nuove imprese. Secondo la ricostruzione del legale, il rischio che il dossier finisse sulla scrivania di Borsellino, fu una delle ragioni che portarono all’accelerazione del suo piano di morte. “Nel 2014, in carcere, Riina, nei colloqui con il detenuto Lorusso, parla di Messina Denaro, dicendo ‘i miei insegnamenti non gli sono serviti a nulla, io sono entrato negli affari per spingere ad accordi politici e per far si che chi sarebbe arrivato dopo di me, doveva sottostare a quest’accordo’ e lui invece ‘mette pali della luce e pensa a se stesso’: si riferisce a questo, Riina”, ha aggiunto Trizzino. “Se noi poniamo la strategia stragista come il programma politico di Cosa Nostra – ha concluso – vedrete che i singoli atti sono la specificazione dell’atto politico che è la deliberazione, come ha sostenuto il pubblico ministero”. Agi 18.7.2020


MAFIA-APPALTI, TOTÒ RIINA VOLEVA FAR UCCIDERE BORSELLINO, PRIMA ANCORA DI FALCONEPAOLO BORSELLINO, QUANDO ERA ALLA PROCURA DI MARSALA, CHIESE COPIA DEL DOSSIER DEI ROS CHE ERA STATO APPENA DEPOSITATO A PALERMO SU RICHIESTA DI FALCONELa prima parola chiave nelle cinquemila pagine di motivazioni della sentenza di primo grado sul processo trattativa Stato- mafia è “accelerazione”. Il concetto che la sentenza intende esprimere è che il contatto avuto dagli ufficiali ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, avrebbe accelerato la strage di via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Non ci sono prove oggettive, ma solo deduzioni logico fattuali. Nelle motivazioni della sentenza, in linea con la tesi della procura, si fa cenno a un passaggio di ciò che ha detto Totò Riina, intercettato nel 2013, al suo compagno durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. «Non era studiato da mesi, ma studiato alla giornata!», ha detto Riina al detenuto Alberto Lorusso riferendosi all’attentato. Elemento che rafforzerebbe, appunto, la tesi sull’accelerazione. Ma in realtà il motivo lo ha spiegato sempre Riina. Cosa nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché aveva messo sotto controllo il telefono del giudice e della madre. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via D’Amelio, sotto la casa della madre di Borsellino. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “domani mamma vengo”», ha raccontato sempre l’ex capo dei capi. Ma perché quell’attentato si è dovuto fare in giornata? Totò Riina ha spiegato che la sorella di Borsellino si accorse di qualcuno che stava mettendo mano alla centralina telefonica del palazzo della madre. Quindi ecco spiegato il motivo: per paura che la sorella si insospettisse e quindi potesse far fallire l’attentato, Riina dette l’ordine di attuarlo nell’immediato, quindi in giornata. Ma la tesi dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio a causa della presunta trattativa Stato- mafia dovrebbe crollare definitivamente dal momento che si era da tempo venuti a conoscenza di un fatto, per nulla riportato in maniera adeguata all’opinione pubblica. Prima ancora di uccidere Giovanni Falcone (quindi molto prima che si avviasse la presunta trattativa), Cosa nostra aveva progettato l’eliminazione ‘ eclatante’ di Paolo Borsellino. Un progetto fallito per il rifiuto di alcuni componenti del clan marsalese. Sì, perché, per ordine di Riina, Borsellino doveva essere ucciso con un’autobomba a Marsala tra il ‘ 91 e i primi del ‘ 92. Lo stesso Riina, come si evince dalle trascrizioni delle conversazioni intercettate quando era al 41 bis, ha detto riferendosi a Borsellino: «Eh … sì, sì. Minchia. Ma poi era il numero, non so il numero due. secondo… di Magistrato era un portentoso Magistrato … come Falcone, perché erano amici insieme… e dovevano… avevano fatto carriera insieme, hanno fatto tutto insieme. Che era Procuratore… a… a … là a Trapani, a Marsala era Procuratore di Marsala… lui. Ha fatto diversi anni là a Marsala. Minchia, l’ho cercato ( in gergo mafioso “cercare” vuol dire uccidere, ndr) una vita a Marsala… mai agganciato. Mai. Mai. Minchia! L’ho cercato, lo cercavo… Ma picciotti sbrigatevi, vedete…». Ciò che ha detto Riina confermano le rivelazioni dei pentiti Antonino Patti e Carlo Zichittella fatte nel 1996 che hanno consentito all’allora procura distrettuale di Palermo di emettere ottanta ordini di custodia cautelare. Antonino Patti, all’epoca 37enne, che si è autoaccusato di quaranta omicidi, ha raccontato che «a D’ Amico e Craparotta era stato chiesto se volessero cooperare all’omicidio di Borsellino, con modalità eclatanti, in particolare con un’autobomba. Craparotta e D’ Amico fecero sapere che non volevano organizzare un attentato “di tale gravità” a Marsala. Da quel giorno furono protetti da due guardiaspalle, ma furono fatti ugualmente sparire». Versione confermata anche dal pentito Carlo Zichitella. Quest’ultimo, a distanza di decenni, non ha cambiato versione. A dicembre nel 2018 è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta contro il super latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Alle domande poste dal procuratore nisseno Gabriele Paci, il pentito ha ribadito che Borsellino doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio. Rispondendo sempre alla domanda del procuratore Paci su cosa intendesse per ‘ modalità eclatanti’, il pentito Zichitella ha aggiunto: «Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba». Quindi, secondo i piani, Borsellino sarebbe dovuto morire già quando era a Marsala e quindi prima di Falcone. Perché? Se da una parte c’è la tesi della presunta trattativa ( ma che sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone) come movente della strage, dall’altra c’è una sentenza definitiva dove i giudici hanno scritto nero su bianco che la concausa è da ritrovarsi nel filone mafia appalti. In esclusiva Il Dubbio può rivelare che Paolo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, già chiese copia del dossier mafia- appalti che era appena stato depositato (il 20 febbraio 1991 su spinta di Falcone) nella cassaforte della procura di Palermo. In un verbale di assunzione di informazione, si evince che nel 1998, innanzi all’allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Biagio Insacco, il capitano Raffaele Del Sole ha spiegato che dal 1987 al 1992 ha guidato la compagnia di Marzara del Vallo. Ha raccontato che su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti in Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”. È probabile che il primo tentativo di attentato eclatante, poi fallito per via di una diserzione, sia da collegarsi proprio all’evidente interessamento di mafia- appalti? Di certo si tratta di un ulteriore tassello che smentisce categoricamente il passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa, dove si scarta l’ipotesi mafia- appalti come movente, quando si scrive che Borsellino non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier. IL DUBBIO 28.12.2019 


MAFIA E APPALTI, SCARPINATO QUERELA MA RISCHIA IL BOOMERANG Il pg di Palermo accusa Il Dubbio di diffamazione, ma dagli atti aumenta il mistero sull’archiviazione dell’indagine che portò all’uccisione di Falcone e Borsellino  Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e l’ex sostituto procuratore del capoluogo siciliano, Guido Lo Forte, hanno sporto querela per diffamazione nei confronti del direttore del quotidiano Il DubbioPiero Sansonetti, il giornalista Damiano Aliprandi e la testata stessa, di fronte alla procura competente di Avezzano. I due magistrati (anche se Lo Forte è ora in pensione) si sono sentiti diffamati da una serie di articoli, pubblicati lo scorso maggio e giugno sul Dubbio, incentrati sull’indagine mafia-appalti portata avanti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (con il supporto dei carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno) tra la fine degli anni ’80 e il 1992, quando vennero ammazzati da Cosa nostra. Un’indagine dalla quale emergeva per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con politici e imprenditori di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in tutta la Sicilia. L’inchiesta venne considerata di importanza cruciale nella lotta a Cosa nostra, prima da Falcone e poi da Borsellino che, in seguito alla morte del suo collega nella strage di Capaci, si disse deciso a rilanciare il filone di indagini parlandone anche con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo l’inchiesta su Mani pulite. L’indagine spaventò (e non poco) Cosa nostra, tanto che secondo la sentenza del processo “Borsellino quater” sulla strage di Via D’Amelio, pronunciata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 20 aprile 2017, e la sentenza definitiva del processo “Borsellino ter”, pronunciata il 22 aprile 2006 dalla Corte d’Assise di Appello di Catania, fu proprio l’attenzione posta all’inchiesta mafia-appalti (e non la presunta trattativa Stato-mafia) a spingere Cosa nostra a uccidere Paolo BorsellinoCiò che per certi versi è ancora avvolto nel mistero, e che ha indotto Il Dubbio a pubblicare la serie di articoli “incriminati”, è la dinamica attraverso la quale gli allora sostituti procuratori di Palermo, Scarpinato e Lo Forte, chiesero e ottennero l’archiviazione dell’indagine sugli appalti: il 13 luglio 1992, con Borsellino ancora in vita e deciso a riprendere il lavoro avviato da Falcone (ritenendolo persino una causa dell’uccisione del suo collega), i pm Scarpinato e Lo Forte avanzano la richiesta di archiviazione dell’indagine, che viene vistata – cioè ufficialmente depositata – dall’allora capo procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. L’indagine viene poi archiviata a tempo record, il 14 agosto, quindi in pieno periodo ferragostano, dal gip Sergio La CommareRileggendo gli articoli pubblicati sul Dubbio si fa fatica a comprendere dove Scarpinato e Lo Forte abbiano intravisto “i tasselli di una vera e propria campagna diffamatoria” nei loro confronti. Da una parte, Aliprandi si è limitato a ricostruire, con un’attenta analisi dei fatti accertati in sede processuale, le tappe con cui l’indagine mafia-appalti venne avviata e condotta da Falcone e Borsellino e infine archiviata; dall’altra, il direttore Sansonetti si è limitato ad avanzare, anche in maniera educata, alcune logiche domande: “Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano. Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no?”. Ad ogni modo, leggendo le carte depositate da Scarpinato e Lo Forte per sporgere querela, emerge un elemento nuovo nella vicenda relativa all’indagine mafia-appalti, che Il Foglio è in grado di rivelare. Nel fascicolo di querela, infatti, i due magistrati hanno allegato una relazione che presentarono (insieme al collega Vittorio Aliquò, all’epoca anch’egli sostituto procuratore di Palermo) al Consiglio Superiore della Magistratura il 7 dicembre 1992, cinque mesi dopo l’uccisione di Borsellino, per chiarire proprio le dinamiche con cui la procura aveva portato avanti e poi archiviato l’indagine sugli appalti (anche per replicare all’accusa, avanzata all’epoca da alcuni giornali nei confronti della procura di Palermo, di aver “insabbiato” un’indagine ritenuta di così fondamentale importanza da Falcone e Borsellino). Scrivono Scarpinato, Lo Forte e Aliquò nella relazione: “(…) quindi dopo un approfondito studio della posizione degli altri indagati, nel mese di giugno 1992 si provvedeva  alla stesura di una richiesta di archiviazione che veniva sottoposta all’esame del Procuratore Capo, dott. Giammanco, e che dopo essere stata da lui vistata veniva formalmente depositata il 13 luglio 1992”. In realtà, come dimostrano gli atti ufficiali, la richiesta di archiviazione venne avanzata da Scarpinato e Lo Forte il 13 luglio, ma venne vistata e depositata da Giammanco il 22 luglio, dopo soli tre giorni dalla morte di Borsellino. Insomma, la relazione inviata dai sostituti procuratori di Palermo all’organo di autogoverno della magistratura per chiarire le proprie posizioni e difendersi dall’accusa di aver “insabbiato” l’indagine, contiene un’inesattezza piuttosto importante: quando la richiesta di archiviazione fu depositata, Borsellino non era ancora in vita, ma era stato ucciso da appena tre giorni, secondo alcune sentenze recenti proprio per l’interesse da lui mostrato nel portare avanti l’indagine. Si tratta di un’incongruenza temporale che, senza alcun intento polemico né diffamatorio, riteniamo sia meritevole di un chiarimento da parte di Scarpinato e i suoi ex colleghi. IL DUBBIO 19.11.2018


Il rapporto “Mafia e Appalti”  Il tema del c.d. rapporto “mafia e appalti” redatto da R.O.S. dei Carabinieri nel 1991 è stato oggetto di una amplissima attività istruttoria, sia orale che documentale, che la Corte ha stentato ad arginare per l’iniziale difficoltà di comprendere le finalità probatorie perseguite. Ben diciannove testimoni (Umberto Sinico, Gioacchino Natoli, Massimo Ciancimino, Carlo Vizzini, Giuseppe Lipari, Liliana Ferraro, Claudio Martelli, Giovanni Brusca, Angelo Siino, Antonino Giuffrè, Riccardo Guazzelli, Luciano Violante, Giovanna Livreri, Gian Carlo Caselli, Alfonso Sabella, Nicolò Marino, Guglielmo Sasinini, Vittorio Aliquò ed Agnese Piraino Leto) hanno a vario titolo riferito anche riguardo alla vicenda del rapporto “mafia e appalti” e sulla stessa, soprattutto per iniziativa delle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, sono stati acquisiti innumerevoli documenti per lo più diretti a documentare gli esiti di complessi procedimenti svolti si sia dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, sia presso Autorità Giudiziarie a seguito di denunzie che hanno visto come protagonisti alcuni magistrati delle Procure di Palermo e Catania ed alcuni appartenenti al R.O.S. dei Carabinieri. Molta di tale attività istruttoria si è incentrata, per iniziativa della Pubblica Accusa, sulla dimostrazione di una doppia refertazione dei Carabinieri del R.O.S. verso le Procure di Palermo e Catania che avrebbe avuto l’effetto di sottrarre per molto tempo alle indagini del primo Ufficio alcuni “politici” tra i quali Calogero Mannino (si vedano, per tutte, le dichiarazioni del teste Gioacchino Natoli […]); e, per iniziativa delle difese degli imputati sopra ricordati, invece, sulla negazione di tale accadi mento (per vero con prova riguardante non l’informativa definitiva consegnata nel febbraio 1991, ma alcune informative preliminari contenenti la mera trascrizione di intercettazioni consegnate ai Dott.ri Falcone e Lo Forte già il 2 luglio 1990 e il 5 agosto 1990) e, semmai, sulla dimostrazione di anomalie procedurali da parte di taluni magistrati della Procura di Palermo ad iniziare dal magistrato che all’epoca (fino al 1992) la dirigeva, il Dott. Giammanco […].

La Corte ritiene di dovere omettere qui un resoconto dettagliato di tutte le risultanze probatorie offerte dalle parti sulle questioni prima accennate, poiché queste appaiono di scarsissima (se non nulla) rilevanza per i fatti oggetto dell’imputazione di reato elevata in questo processo (e, per tale ragione, sono state anche respinte tutte le richieste di ulteriori acquisizioni documentali reiterate dalle difese ancora in sede di discussione e, conseguentemente e subordinatamente, anche dal P.M. persino in sede di replica all’ultima udienza del 16 aprile 2018).
La vicenda del rapporto “mafia e appalti” nasce e si sviluppa ben prima dei fatti riconducibili alla c.d. “trattativa” tra esponenti delle Istituzioni ed i vertici mafiosi e non sembra alla Corte che possa essere in alcun modo collegata e connessa a questa se non per quell’esile filo che sarebbe costituito soltanto dall’ulteriore prova di rapporti tra alcuni esponenti politici ed alcuni appartenenti all’Arma da un lato e tra tal uni di questi ultimi ed alcuni mafiosi dall’altro.
Sennonché, quanto al primo profilo, ai fini della prova dei fatti che rilevano in questa sede, appare sufficiente quanto già verificato e riportato sopra riguardo ai rapporti tra l’On. Mannino e il Gen. Subranni (nonché il M.llo Guazzelli), restando del tutto irrilevante ogni ulteriore approfondimento su eventuali favoritismi in favore del primo tanto nell’indagine “mafia e appalti” quanto nelle precedenti indagini svolte a carico del medesimo On. Mannino presso la Procura di Sciacca (pure oggetto di attività istruttoria e di un non breve excursus in sede  
discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori, che, per le medesime ragioni di sostanziale irrilevanza probatoria che ha dato luogo al rigetto delle relative istanze di acquisizioni documentali, qui possono omettersi di riferire ed esaminare); quanto al secondo profilo, le risultanze, peraltro di ambigua lettura(si pensi a tutta la vicenda dei rapporti tra il M.llo Lombardo e Angelo Siino), appaiono ugualmente irrilevanti ai fini della valutazione degli accadi menti maturati a partire dai primi contatti degli Ufficiali del R.O.S. con Vito Ciancimino che hanno dato luogo alla formulazione della ipotesi di reato qui da verificare.

V’è, però, un aspetto del rapporto “mafia e appalti” che appare qui rilevante approfondire in quanto in ipotesi connesso con la decisione di uccidere il Dott. Borsellino e, per meglio dire, con quell’improvvisa accelerazione impressa alla programmata esecuzione di tale omicidio di cui si è detto prima.
Le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, infatti, pur contestando che vi sia stata tale accelerazione nell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino (accelerazione che, invece, a parere di questa Corte appare inconfutabile per gli inequivocabili elementi di prova, sopra ricordati, tra loro certamente convergenti sebbene eterogenei), hanno con forza prospettato durante tutto il corso del dibattimento (con l’evidente intento di allontanare ogni possibile collegamento con la “trattativa”) e, poi, ancora, in sede di discussione seppur con qualche oscillazione argomentativa (v. trascrizione udienza dell’8 marzo 2018) la convinzione che il Dott. Borsellino sia stato ucciso per la sua decisione di iniziare ad occuparsi della vicenda del rapporto “mafia e appalti”.
Ed in effetti, sono stati acquisiti elementi che comprovano l’intendimento del Dott. Borsellino di studiare il fascicolo relativo al rapporto “mafia e appalti” nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio.
Di ciò ha riferito il teste delle predette difese Umberto Sinico, secondo il quale, appunto, nel giugno del 1992 vi fu presso gli Uffici della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Palermo un incontro tra il Dott. Borsellino e il Col. Mori, ai quali, poco dopo, si era, però, aggiunto anche il Cap. De Donno […], per parlare specificamente, per quanto probabilmente riferito poi dallo stesso De Donno a Sinico […], proprio del rapporto “mafia e appalti” che era stato redatto, infatti, dallo stesso Cap. De Donno […].
Per vero, come evidenziato dal P.M. nel corso della sua requisitoria all’udienza del 15 dicembre 2017 sia pure sulla scorta di una risultanza probatoria utilizzabile esclusivamente nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno e cioè la testimonianza di Carmelo Canale (il quale in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma le cui dichiarazioni rese nel processo a carico di Mori e Obinu dinanzi al Tribunale di Palermo in data 20 febbraio 2011 sono state qui acquisite su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., appunto degli imputati Subranni, Mori e De Donno), in realtà, la ragione di quell’incontro sollecitato dal Dott. Borsellino non riguardò propriamente il (contenuto del) rapporto “mafia e appalti”, ma un anonimo che in quei giorni circolava e che veniva attribuito al Cap. De Donno […].
In ogni caso, il teste Gioacchino Natoli, quindi, pur non ricordando che il Dott. Borsellino ebbe un giorno ad allontanarsi per parlare con il Col. Mori del rapporto “mafia ed appalti” […], ha, comunque, confermato che dopo la strage di Capaci lo stesso Dott. Borsellino gli aveva chiesto una copia del rapporto “mafia e appalti” […].
In occasione della testimonianza resa in questo processo, peraltro, il Dott. Natoli, sulla base di un ineccepibile riscontro temporale precedentemente non valorizzato, ha avuto modo di correggere una imprecisione delle sue precedenti dichiarazioni del 21 novembre 1992, allorché aveva, infatti, erroneamente riferito, non soltanto di quella richiesta di copia del rapporto “mafia e appalti” fattagli dal Dott. Borsellino, ma anche – errando – di avere parlato con quest’ultimo della c.d. doppia refertazione del R.O.S. alle Procure di Palenno e Catania, di cui egli, però, aveva appreso soltanto nel mese di ottobre 1992 e, quindi, dopo la morte del Dott. Borsellino […].
Una ulteriore conferma della circostanza che il Dott. Borsellino si stesse interessando, almeno in termini generali, anche delle vicende di “mafia e appalti” si trae anche dalla deposizione del teste Carlo Vizzini, il quale, infatti, ha riferito che di ciò ebbe a parlare con lo stesso Dott. Borsellino nel corso di una cena avvenuta a Roma il 16 luglio 1992 (“[…] DICH VIZZINI CARLO : – Guardi, l’argomento, prescindendo dai convenevoli e dalle considerazioni generali che si fanno in queste circostanze, credo che loro fossero reduci da un interrogatorio di un collaboratore che se non ricordo male era Mutolo. E poi l’argomento che impegnò il tempo più grande della cena, fu un forte interesse del dottore Borsellino alla vicenda di mafia e appalti … … … io avevo già denunciato in un convegno, alla fine del 1988, ho con me una copia del giornale L’Ora che ne parlò, ad un convegno di un altro partito dove c’erano diversi imprenditori che si lagnavano, mi permisi di dire: ma gira voce che in Sicilia gli appalti si vincano con una pistola posata sul tavolino. Il Giornale L’Ora pubblicò questa cosa, ma poi nulla … Non ci fu nessun altro seguito. Quando ci incontrammo, in realtà era già stato arrestato quello che poi venne definito il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, il nomignolo era Bronson e il nome vero Siino. E debbo dire … E però ancora non era diventato collaboratore di giustizia, era stato arrestato ma non era ancora collaboratore di giustizia. […]”), pur se, poi, il teste, ridimensionando una sua precedente sintetizzazione giornalistica in cui aveva parlato di “chiodo fisso” del Dott. Borsellino, ha precisato che, ovviamente, intendeva soltanto dire, con quell’imprecisa (e infelice) espressione, che quello della vicenda “mafia – appalti” era stato l’argomento principale della conversazione di quella sera presso il ristorante romano […] e non certo che quella fosse l’unica o principale vicenda giudiziaria di cui si occupava il medesimo Dott. Borsellino […], tanto più che quest’ultimo neppure gli aveva parlato specificamente di un’indagine in corso […], ma soltanto, in generale, del fenomeno in questione […].
Quest’ultima circostanza, peraltro, trova conferma nella già richiamata testimonianza del Dott. Natoli, pure presente a quelle cena, il quale, infatti, ha riferito che, appunto, si parlò di appalti soltanto in termini di generalità e senza alcun riferimento ad indagini specifiche in corso […].
Anche la teste Liliana Ferraro ha riferito che, in occasione di un incontro avvenuto alla fine del mese di giugno di cui si parlerà più ampiamente più avanti in altro capitolo, il Dott. Borsellino le parlò, tra l’altro, della questione del rapporto “mafia e appalti” (” …. la maggior parte del nostro colloquio ha riguardato l’indagine mafia – appalti, che era quella fatta da De Donno e dai R.O.S. “), anche se, in questo caso, l’interesse del suo interlocutore era indirizzato, più che alla vicenda processuale in sé, all’anomalo invio del rapporto al Ministero operato dal Procuratore della Repubblica di Palermo […].
Parimenti anche il Dott. Aliquò, allora Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo, ha confermato di avere parlato del rapporto “mafia e appalti” in occasione di alcune riunioni col Dott. Borsellino, e ciò anche perché, inizialmente, si era ipotizzato pure che questo potesse essere collegato alla strage di Capaci, anche se, poi, tale ipotesi era rimasta priva di qualsiasi supporto probatorio […].
Alla stregua dei predetti elementi di prova, dunque, può ritenersi certo che il Dott. Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato (anche) del rapporto “mafia e appalti”.
Tuttavia, non v’è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del Dott. Borsellino se si tiene conto, oltre del fatto obiettivo che tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il Dott. Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di Giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo), che nessun spunto idoneo a collegare tra la vicenda “mafia e appalti” con la morte del Dott. Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di Giustizia esaminati e cui, peraltro, la vicenda “mafia e appalti” era ben nota.
Inoltre, vi sono, soprattutto, alcune considerazioni, sì, di ordine logico, ma fondate su obiettive risultanze, che consentono di escludere tale ipotizzata e prospettata causale.
Depone, invero, in senso contrario, innanzi tutto, il fatto che quell’interessamento del Dott. Borsellino per l’indagine “mafia e appalti” non ha avuto all’epoca alcuna risonanza pubblica.
D’altra parte, non v’è neppure certezza che il Dott. Borsellino possa avere avuto il tempo di leggere il rapporto “mafia e appalti” e di farsi, quindi, un ‘idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche soltanto delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano avere avuto risalto esterno giungendo alla cognizione dei vertici mafiosi così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino medesimo. Ma v’è di più.
V’è, infatti, un ‘ulteriore considerazione che, sotto il profilo logico, consente di escludere la conclusione propugnata dalle difese prima ricordate sul possibile collegamento tra l’indagine “mafia e appalti” e l’uccisione del Dott. Borsellino.
Ci si intende riferire al fatto che la vicenda “mafia e appalti”, per quanto riguarda il versante mafioso, aveva già avuto esito almeno un anno prima (con l’arresto, tra gli altri, di Angelo Siino) e non si comprende, dunque, quale preoccupazione talmente viva, attuale e forte avrebbero potuto avere i vertici mafiosi per sviluppi investigativi che, al più, avrebbero potuto attingere quegli
esponenti politici che avevano tratto lucro dal patto spartitorio degli appalti garantito da “cosa nostra”.
Né appare verosimile ritenere che tal uno di tali esponenti politici, preoccupato delle conseguenze per sé pregiudizievoli di un possibile sviluppo di quell’indagine, possa avere avuto, nei confronti dei vertici, mafiosi una “forza contrattuale” tale da imporre loro addirittura una modifica della generale
strategia di contrasto allo Stato in quel momento già decisa ed in corso di attuazione.
[…] Si ritiene, dunque, di potere escludere con assoluta e fondata certezza che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il Dott. Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni (v. intercettazione ambientale sopra già ricordata), mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’On. Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo Dott. Borsellino al rapporto “mafia e appalti”, tanto più che ancora lontana – e allora assolutamente non prevedibile – era ancora la collaborazione che Angelo Siino avrebbe intrapreso con la Giustizia soltanto molto tempo dopo.
Appare del tutto evidente, piuttosto, che in quel periodo deve necessariamente essersi verificata ben altra evenienza, che, per la sua importanza e rilevanza, ha avuto l’effetto di far rompere ogni indugio a Salvatore Riina, inducendolo a sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento, all’apparenza, sarebbe stato totalmente
controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere “garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al “giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie (v. quanto già osservato sopra in proposito).
Ed allora, se così è, può ugualmente escludersi che tale sopravvenuta evenienza possa ricollegarsi anche alle indagini conseguenti alla collaborazione di Gaspare Mutolo, che, semmai, potevano apparire più pregiudizievoli, non già per i mafiosi, ma per alcuni alti esponenti della Polizia e per tal uni magistrati che in passato avevano intrattenuto rapporti – quanto meno ambigui – con esponenti
mafiosi.
E può parimenti escludersi, tra tali possibili eventi, anche la prospettata nomina del Dott. Borsellino quale Procuratore Nazionale Antimafia, frutto, peraltro, soltanto di un’improvvida “uscita” televisiva di un Ministro dell’Interno (l’On. Scotti) di un Governo in fase di rinnovo e che era stata già respinta dal medesimo Dott. Borsellino.
D’altra parte, tale possibile nomina non era certo in quel momento così imminente, né sarebbe stata tale da determinare effetti di così immediato pregiudizio per gli interessi di “cosa nostra”.
Ed allora, è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio.
Ora, ove anche non si volesse pervenire alla conclusione prospettata dalla Pubblica Accusa che Riina abbia deciso di uccidere il Dott. Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che, peraltro, trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese Piraino Leto, il Dott. Borsellino pochi giorni prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (v. dichiarazione della detta teste di cui si dirà anche più avanti: ”… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi « infedeli» dello Stato, e non mi dice altro …”), in ogni caso, non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da Istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo, dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo.
Non v’è dubbio, infatti, che quei contatti che già all’indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti Ufficiali dell’Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel Ministro dell’Interno, che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli Ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato.
Si vuole dire in altre parole, che, se effettivamente quei segnali pervennero a Salvatore Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D’Amelio (e che ciò effettivamente avvenne, come si vedrà, risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D’Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili. Ma di ciò si dirà più diffusamente più avanti affrontando il tema dei contatti tra
gli Ufficiali del R.O.S e Vito Ciancimino. LA REPUBBLICA 23.8.2019 


DE DONNO: “NON CI FU NESSUNA TRATTATIVA – L’INCHIESTA MAFIA E APPALTI E LE STRAGI” “Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa, non c’é mai stato nulla da trattare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori (nella foto) sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Ciancimino ci disse che lo poteva fare solo se lo avessimo autorizzato a fare i nostri nomi con Cosa Nostra – ha proseguito – ‘Su queste cose si muore’, puntualizzò. In cambio lui voleva che facessimo qualcosa per i suoi processi. Gli dicemmo che non potevamo fare nulla. Erano già in fase avanzata e comunque un nostro intervento a suo favore avrebbe disvelato il suo rapporto con noi”.

Il racconto di De Donno  “I rapporti con Vito Ciancimino nascono nel giugno del 1992 dopo la morte di Falcone. Prima avevo avuto solo qualche incontro con il figlio Massimo nelle aule del Tribunale. In quel periodo, il generale Mori decise una serie di attività investigative per capire cosa stava succedendo. Valutammo di contattare Vito Ciancimino attraverso Massimo. L’idea fu mia e il colonnello Mori mi autorizzò”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Inizialmente, Massimo Ciancimino mi disse ‘ti faccio sapere’ e poi mi comunicò dopo qualche giorno la disponibilità del padre a incontrarmi – ha proseguito -. Mi recai nell’abitazione di Vito Ciancimino a Roma e da lì iniziò il nostro rapporto. Nonostante l’avessi arrestato in precedenza e fossi una delle cause dei suoi problemi giudiziari, Vito Ciancimino non nutriva rancore per me. Mi riconosceva il fatto di avere sempre agito con correttezza”. I primi incontri furono “interlocutori”. “Le prime tre volte, tutte tra le due stragi, furono molto pesanti, complesse e formative – ha raccontato -. Dovevo farmi accettare da Ciancimino, instaurare con lui un dialogo e fare in modo che si fidasse. Già incontrarlo era stato un enorme successo. Inoltre avevamo scelto Ciancimino anche perché in quel periodo era ancora in grado di gestire alcuni appalti. E’ chiaro che dietro questo c’era anche l’intento di giungere all’apoteosi di questo rapporto che sarebbe stata la collaborazione giudiziaria di Ciancimino. Ovviamente gli chiesi di avere elementi utili per capire quello che stava succedendo. Era l’esigenza di tutti decifrare gli accadimenti per indirizzare le indagini”. Gli incontri con Mori cominciarono dopo la strage di via D’Amelio. “Volevo – ha sottolineato De Donno – che Ciancimino parlasse con Mori. Era un capo e doveva parlare con un capo. Tra Mori e Ciancimino ci furono quattro incontri”.

“Non ho mai visto il papello. Anche il contropapello l’ho visto solo sui giornali. In ogni caso, quello che è scritto sul contropapello era quello che era scritto nel libro Le mafie. Si possono confrontare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Secondo il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il padre avrebbe consegnato a De Donno e Mori il papello con le richieste della mafia allo Stato per fermare le stragi. De Donno ha anche puntualizzato che “Vito Ciancimino non ha portato elementi utili alla cattura di Riina. Del resto lui era stato arrestato a dicembre. Le indagini che portarono alla cattura di Riina non furono in nessuna maniera aiutate da Ciancimino. Le piantine che portai a Ciancimino sono state poi acquisite dalle procura di Palermo”.

“Quando Paolo Borsellino ci chiese di riprendere l’indagine ‘mafia e appalti’ pensava di poter arrivare ai mandanti occulti della strage di Falcone. Proprio su questo punto si confrontarono e entrarono in contrasto anche i due pm in aula, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Il riferimento di De Donno ai due pm richiama una fase dell’ inchiesta sulla strage quando la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta seguivano indirizzi diversi. De Donno ha ricordato che Di Matteo sembrava più convinto del fatto che la pista ‘mafia-appalti’ potesse rappresentare un possibile movente dell’attentato di Capaci. Ingroia avrebbe avuto un’opinione meno convinta. L’ex ufficiale, che ha rivendicato spesso il merito di avere condotto un’indagine a largo spettro sulle connessioni tra la mafia e la politica nella gestione degli appalti, ha parlato anche del clima che si respirava al palazzo di giustizia di Palermo dopo la morte di Giovanni Falcone. “In quel periodo – ha detto – i rapporti tra Paolo Borsellino e il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, erano pessimi. Borsellino era assolutamente contrario al modo in cui veniva gestita la Procura. Questo lo sapevano tutti”.  ANSA Marzo 2011a svela il suo segreto


Informativa Mafia Appalti 1991 L’informativa Mafia Appalti è stata la prima operazione che ha fatto luce sulle connessioni mafioso-politico-imprenditoriali, svolta in Sicilia.
L’informativa Mafia Appalti, nasce dalla collaborazione di Giovanni Falcone, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno ma era contrastata oltre che dai mafiosi, dai politici, dagli imprenditori, perfino da diversi elementi della procura stessa di Palermo: l’ordinanza fu congelata per 5 mesi, dal procuratore capo di Palermo, che sosteneva l’inutilità di una tale inchiesta, poi l’inchiesta fu inviata a tutte le procure della Sicilia, fu inviata a Roma, fu data per intero agli avvocati degli indagati, fu data sottobanco ai politici e mafiosi[15], in modo da avvisare i delinquenti mafiosi interessati e dare loro tempo di scappare. Infine su 45 richieste di custodia cautelare di mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani, 24 di loro per associazione mafiosa e 21 di loro per associazione per delinquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici, ne furono eseguite solo 5 personaggi. 
L’inchiesta su mafia e appalti inizia nel 1988, in seguito ad una delazione ricevuta dai carabinieri che indagano sull’assassinio di un allevatore in un comune delle Madonie
Il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti[, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte. Il ROS indicò in Angelo Siino[ il riferimento centrale per la gestione illecita di tutte le gare pubbliche in Sicilia. Il dossier fu dato a Giovanni Falcone depurato dei nomi di politici, Salvo LimaRino Nicolosi, presidente della Regione Siciliana e Calogero Mannino. Il 9 luglio 1991, furono arrestati Angelo Siino organizzatore, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Giuseppe Jato. Il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli imprenditori Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici. All’inizio del 1992, si aggiungeranno Vito Buscemi e Rosario Cascio.
Angelo Siino in particolare spiegò che da un dato momento in poi Cosa Nostra non si accontentò più di estorcere tangenti, ma passò direttamente a far aggiudicare gli appalti a imprese a lei sottomesse. Dirigevano gli appalti Salvatore RiinaBernardo Provenzano, Antonino Buscemi, Giuseppe Lipari, Giovanni Bini responsabile della Calcestruzzi Spa del gruppo Italcementi, di proprietà Ferruzzi, Antonino Reale, Benedetto D’Agostino, Agostino Catalano (amministratore della Reale costruzioni e consuocero di Vito Ciancimino). Paolo Borsellino aveva deciso di approfondire l’indagine mafia e appalti. Pietro Giammanco, procuratore capo della Repubblica a Palermo, il 13 luglio 1992, fece depositare da Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato e controfirmò il 22 luglio la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, che venne eseguita il 14 agosto 1992. wikiwand


Estratto di verbale di sommarie informazioni testimoniali di FERRARO Liliana del 14 ottobre 2009, reso alla procura di Caltanissetta.  Dalla Sentenza con rito abbreviato  Borsellino quater.  “Quanto al colloquio che ebbi col dott. BORSELLINO nella saletta dell’aeroporto di Fiumicino, posso dire che lo stesso avvenne anche alla presenza della moglie, anche se ricordo che per brevi momenti ci siamo spostati anche fuori per effettuare alcune telefonate.

Ricordo che feci anche una telefonata al Procuratore GIAMMANCO, in cui sollecitai lo stesso a concentrare sul dott. BORSELLINOle indagini antimafia come mi aveva chiesto lo stesso BORSELLINO.

Ricordo che il discorso col dott. BORSELLINO nacque affrontando il tema dei colloqui investigativi che erano in corso in quel periodo, in particolare di Gaspare MUTOLO e di Gioacchino SCHEMBRI.

Tra gli altri argomenti che ho affrontato col dott. BORSELLINO ricordo di aver parlato anche della tematica degli appalti. Ho memoria del fatto di aver affrontato col dott. BORSELLINO il tema del rapporto mafia-appalti poiché lo stesso sapeva della mia conoscenza di tale rapporto. Ed invero nell’agosto dell’anno prima, in una giornata di sabato, il dott. FALCONE mi contattò telefonicamente per dirmi che avevano portato un plico al Ministro MARTELLI e voleva che fossi io a prenderlo e ad esaminarlo, cosa che effettivamente feci.

Il giorno seguente il dott. FALCONE mi contattò nuovamente, chiedendomi di fare in fretta ad esaminare i documenti e a sigillarli nuovamente.

Il plico in questione venne poi restituito alla Procura di Palermo e ricordo che in una occasione entrai nella stanza del dott. FALCONE il quale era in conversazione telefonica col dott. BORSELLINO cui disse che ero stata io a redigere la lettera, unitamente a lui, con la quale il plico venne restituito alla Procura di Palermo. Ricordando tale ultimo episodio, il dott. BORSELLINO volle sapere quale fu la reazione del dott. FALCONE a quella vicenda.

Ricordo, inoltre, che sempre nel corso del colloquio avuto all’aeroporto di Fiumicino il dott. BORSELLINO mi disse che “era solo” ed Agnese Borsellino, udendo tale frase, si inserì nel discorso chiedendomi più volte di convincere il marito a non andare avanti poiché non voleva che i suoi figli rimanessero orfani del padre.

Riferii poi al dott.  BORSELLINO della visita del cap. DE DONNO negli stessi termini in cui ho oggi riferito alle SS.LL. ivi compreso il fatto che avevo detto al capitano di accennare a lui la questione — ed il dott. BORSELLINO non ebbe alcuna reazione, mostrandosi per nulla sorpreso e quasi indifferente alla notizia, dicendomi comunque che “se ne sarebbe occupato lui”.

In ogni caso devo dire che il dott BORSELLINO, così come del resto il dott. FALCONE, era solitamente molto riservato in merito alle indagini che stava conducendo, limitandosi a darmi notizie solo allorché ciò necessitava per essere agevolati nel loro lavoro.

Escludo che durante tale colloquio il dott. BORSELLINO mi abbia riferito di aver incontrato il DE DONNO e MORI e di aver affrontato con loro queste tematiche Sono portata ad escludere che Agnese BORSELLINO abbia percepito l’esatto tenore della conversazione intercorsa col dott. BORSELLINO; ella era infatti molto agitata e preoccupata per la sorte del marito tanto che aveva deciso di accompagnarlo al convegno di Giovinazzo per non lasciarlo da solo. Durante la mia conversazione talvolta si allontanava per leggere qualcosa, altre volte eravamo io e Paolo che uscivamo fuori dalla stanza per telefonare, per non dire che i nostri dialoghi avvenivano “parlottando” sottovoce per non coinvolgere Agnese BORSELLINO in discussioni che avrebbero potuto turbarla ancor di più. Anche se non lo ricordo, ritengo di aver riferito al dott. BORSELLINO che anche il Ministro era stato informato della visita del cap. DE DONNO.

Verosimilmente avrò parlato col Ministro MARTELLI della visita del cap. DE DONNO, e credo che ciò sia avvenuto nel suo ufficio all’interno del Ministero; tenderei ad escludere che ciò possa essere avvenuto in occasione della Messa del trigesimo del dott. FALCONE. Ricordo, comunque, che il Ministro approvò il comportamento che avevo tenuto col cap. DE DONNO ed in particolare disse “ha fatto benissimo, che cosa vogliono, vadano nelle sedi opportune”. Ritengo verosimile che il Ministro MARTELLI possa aver fatto riferimento ad un’ingerenza del ROS in compiti che riteneva in quel momento di stretta competenza della neo istituita DIA, poiché effettivamente alla base della creazione di tale ultimo organismo vi era l’idea di un riordino delle competenze in tema di antimafia. All’epoca dei fatti conoscevo MORI e con lo stesso avevo avuto molte più occasioni di incontri che non con il cap. DE DONNO. L’Ufficio dà atto che alla data del 28 giugno 1992 dell’agenda grigia del dott. BORSELLINO risulta un’annotazione alle ore 17.30 “Giovinazzo (Riva del Sole)” alle ore 19 Bari Palese, alle ore 20.30 “Fiumicino (Ferraro)”

Prendo atto che dall’esame dell’agenda grigia del dott. BORSELLINO si ricava che questi si recò a Giovinazzo il 27 giugno 1992 e fece ritorno a Palermo il 28 giugno 1992. A questo punto posso quindi affermare con certezza che l’incontro di cui sto facendo menzione si svolse nel pomeriggio del 28 giugno 1992.

Ribadisco che l’incontro col cap. DE DONNO avvenne qualche giorno prima, nell’arco della settimana che va dal 21 giugno al 28 giugno 1992, anche perché, qualora fosse passato più tempo, avrei certamente informato telefonicamente il dott. BORSELLINO di quanto avvenuto.

A.D. R Dopo il 28 giugno 1992 non ho avuto più alcun colloquio col dott. BORSELLINO o col Ministro MARTELLI in merito ai fatti che sto riferendo alle SS.LL., né su questi temi fui più contattata da Ufficiali de ROS . Ricordo di aver avuto, successivamente a tale data, un colloquio telefonico col dott. BORSELLINO sabato 18 luglio 1992 in cui lo stesso mi disse che era in partenza il lunedì successivo e che al ritorno si sarebbe fermato a Roma per avere un altro colloquio con me perché voleva parlarmi di tutte le questioni che avevamo in sospeso. Più esattamente mi disse ” poi dobbiamo parlare” sicché ritenni che vi potesse essere un nesso con le discussioni avvenute il 28 giugno 1992.”

FIAMMETTA BORSELLINO : Cosa disse mio padre su mafia appalti? Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla procura di palermo avente come oggetto la questione del dossier mafia appalti proprio perchè i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò anche Paolo Borsellino. La figlia ha fatto un’ottima domanda: “Qualcuno tra gli addetti ai lavori mi saprà dire cosa disse mio padre?”. La questione, infatti, è tutta lì. Cosa chiese ai suoi colleghi visto che lui non aveva la delega per l’indagine? Spero che qualcuno sappia risponderle. La verità, a parer mio, è racchiusa tutta lì. VIDEO

Borsellino e verità nascoste: “Mafia e appalti” al tribunale di Avezzano ESCLUSIVO – Improvvida querela per diffamazione rischia di squarciare alcuni dei misteri sulla morte di Paolo Borsellino. Polemica su pubblicità delle udienze: tribunale di Avezzano nega la diretta del processo su Radio radicale

Estratto dalla relazione del dr Giovanni Falcone al convegno ” le infiltrazioni della criminalità organizzata neipubblici appalti “, tenutosi a Castel Utveggio, Palermo, 14/15 marzo 1991.   “Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all’origine, ossia nel momento della scelta delle imprese (e questo a prescindere da qualsiasi sistema più o meno sofisticato sul tipo e sui criteri di assegnazione degli appalti), e sia nella fase dell’esecuzione degli appalti medesimi. Quindi, abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle. Un condizionamento mafioso nella fase della individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare, ed un condizionamento in tutta quella complessa attività che concreta la realizzazione degli appalti in questione. Ed abbiamo soprattutto, e questo nel futuro verrà fuori chiaramente, una distinzione fra imprese meridionali e imprese di altre zone d’Italia, per quanto attiene il loro condizionamento e il loro inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa.

  • È illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre realtà socio-economiche, nel momento in cui partecipano a gare che dovranno essere realizzate in determinate zone del mezzogiorno d’Italia, rimangano immuni da un certo tipo di collegamenti, p sia che lo vogliano e sia che non lo vogliano. Sono state acquisite, tramite intercetta zioni telefoniche, chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative dell’organizzazione mafiosa, a cui tutti devono sottostare se non vogliono subire conseguenze gravissime, a meno che non si vogliano autoescludere dal mercato. Molto spesso non è necessaria una azione di rappresaglia, forte e violenta; questo avviene soltanto’ all’ultimo e nei confronti di coloro che veramente non vogliono capire. Ci sono tali e tanti di quei passaggi intermedi, per cui qualsiasi impresa finisce per comprendere che, volente o nolente, è questo il sistema a cui deve sottostare e non ci sono possibilità di uscirne fuori. Già ai tempi delle dichiarazioni di Antonino CALDERONE, questa realtà era emersa in tutta la sua inquietante pericolosità.
  • È importante un fatto che viene riferito da GIACCONE(ex sindaco di Baucina, N.D.S) e che merita comunque una verifica sul campo. Egli afferma che le opere vengono finanziate soltanto dopo che si è trovata l’impresa che è gradita a questo o a quel partito, e soltanto dopo che in sede locale il capo mafia abbia dato l’assenso. Io direi che siamo in presenza di ulteriori conferme di quanto accade, per cui emerge ormai l’imprescindibile necessità di impo stare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto sinora.
  • Certamente la materia del traffico degli stupefacenti è importantissima perché costituisce uno dei più lucrosi affari illeciti ” détta mafia, come anche la materia dette estorsioni sistematizzate è una delle piaghe che affligge l’imprenditoria, soprattutto la piccola imprenditoria nelle città; ma io credo, e tutti quanti siamo d’accordo, che la materia dei pubblici appalti sia la più importante. È indubbiamente la più importante perché è quella che consente di fare emergere, come una vera cartina di tornasole, quel connubio, quell’ibrido intreccio fra mafia o mafie; quando dico mafie intendo dire camorra, ’ndrangheta, affarismo, amministrazioni locali, condizionamento dell’elettorato, che è quanto di più pericoloso possa affliggere la nostra società attuale.

Io credo quindi che su questo versante così essenziale si possono e si debbono impostare le indagini finalmente in una maniera più adeguata, e per fare questo, come ho detto all’inizio, non vi sono ostacoli processuali e non vi sono ostacoli di altro genere : occorre approfittare e sperimentare la disponibilità offerta anche degli organismi non appartenenti alla polizia giudiziaria, come l’Ufficio dell’Alto Commissario. Se si riesce a coordinare e a collegare questo tipo di interventi, io credo che riusciremo a fare qualcosa di buono, qualche passo avanti di notevole portata.” L’intervento si può ascoltare su radio radicale al seguente link AUDIOA cura di Gabriella Tassone – Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino

Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!»

Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti   Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.

Tensione durante la riunione del 14 luglio  Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».

Aveva studiato il dossier dei Ros  Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino.

Alberto Di Pisa ha lavorato con Falcone e Borsellino. Dopo l’accusa di essere il “corvo” gli fu tolta e archiviata l’inchiesta su mafia.appalti palerm…  «Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”.  In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.

Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?  Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando fu nominato procuratore aggiunto a Palermo, mi congratulai  con lui e mi disse che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?

No, mi dica.  Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione.

Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.  Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo.

Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?  Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece.

Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla? In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva.

Perché, chi è morto per gli appalti?  Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier.

A lei ne ha mai parlato?  No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza.

A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?  Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?  No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato.

L’ex presidente dell’antimafia al processo di appello sulla presunta trattativa. È stato ascoltato per fornire I necessari chiarimenti   «Giammanco mi chiese di incontrarci prima delle stragi. Più volte mi chiese di incontrami e cercava di illuminarmi sull’inconsistenza di quel rapporto riferendosi appunto all’indagine mafia- appalti. Mi colpiva l’insistenza di Giammanco di definire quel rapporto privo di fondamento». Sono le parole di Luciano Violante, ex presidente della Commissione antimafia negli anni delle stragi del ‘ 92 e del ‘ 93. Già sentito in primo grado, è stato risentito ieri al processo d’appello sulla trattativa fra Stato e mafia per chiarire alcuni aspetti.

Durante l’audizione emerge la questione inedita dell’ex capo della Procura di Palermo, Pietro Giammanco, proprio sul dossier mafia appalti. Parliamo dell’indagine del Ros dei carabinieri, nata sotto la spinta di Falcone, che riguarda il monopolio degli appalti pubblici e privati da parte della mafia di Riina, dove erano coinvolte aziende importanti a carattere nazionale.

Violante ha espresso quindi delle perplessità circa il singolare tentativo di convincimento portato avanti da Giammanco. Ma poi ha aggiunto anche un altro particolare: «Eravamo molto amici io e Falcone, ricordo che lo vidi molto preoccupato come mai lo avevo visto prima e fece un accenno a questa questione: riteneva importante quell’indagine mafia- appalti». La richiesta di archiviazione è stata redatta il 13 luglio del 1992, poi depositata formalmente tre giorni dopo la morte di Borsellino. L’archiviazione poi è stata firmata dal Gip in meno di un mese, ovvero il 14 agosto del ’ 92.

Violante è stato ascoltato per fornire i necessari chiarimenti su modalità e circostanze dei suoi reiterati contatti, tra ottobre e novembre del 1992, con il generale Mario Mori alla luce delle spontanee dichiarazioni rese sul punto dallo stesso Mori all’udienza del 21 gennaio del 2016; nonché su sue eventuali interlocuzioni da cui avrebbe tratto timori circa possibili iniziative in ordine al mancato rinnovo dei decreti applicativi del 41 bis nel mese di novembre del 1993, ed ancora chiarimenti sulle ragioni della mancata audizione di Vito Ciancimino dinnanzi alla Commissione antimafia da lui presieduta. Per quanto riguarda il 41 bis, Violante ha spiegato quanto il regime duro fosse particolarmente penoso e restrittivo per i detenuti. «All’epoca quel regime carcerario – ha spiegato Violante – era stato deciso anche per persone per cui non ricorrevano particolari elementi di pericolosità. Ora non posso escludere di aver fatto delle richieste per avere un report sull’andamento di quel regime all’epoca al ministro Conso, col quale avevo un certo rapporto, ma non ci fu risposta e non ho mai sollevato formalmente in ambito politico la questione».

Per quanto riguarda la mancata audizione di Vito Ciancimino, Violante ha spiegato: «Mori mi chiese di sentirlo riservatamente, ma io risposi subito che non facevo incontri riservati. ‘ Come cortesia’, disse ancora lui, perché Ciancimino aveva delle cose rilevanti da dire. Una richiesta che non mi sembrò inerente ad alcuna trattativa, ma una normale negoziazione di polizia. Conoscendo Mori, non mi stupì che potesse prendere un’iniziativa del genere». Un metodo, secondo Violante, che avrebbe spesso portato a dei risultati investigativi importanti.

Entrambi, sia Violante che Mori, intanto, ricordano i tre distinti incontri, ma li collocano in date diverse. «Ciancimino chiedeva di essere sentito senza condizioni tramite una lettera il 29 ottobre. Sulla busta non c’è francobollo né timbro postale e quindi presumo che sia stata consegnata a mano – ha raccontato Violante -. Se davvero Ciancimino avesse deciso di venire in Antimafia prima del 20 ottobre sarebbe singolare l’attesa di dieci giorni per l’invio della richiesta formale. Più credibile mi sembra che egli abbia comunicato al colonnello Mori tale decisione dopo il 22, data nella quale io non ne avevo parlato in Commissione perché non conoscevo questa intenzione, e prima del 27, data nella quale io, informato dal colonnello, informai a mia volta l’ufficio di presidenza. Così potrebbe spiegarsi la consegna alla Commissione della lettera di Ciancimino il 29 ottobre». Violante ha raccontato che Ciancimino intendeva fornire motivazioni politiche degli omicidi di mafia. «Non volevamo offrire un palcoscenico a un personaggio discutibile. Comunque il 29 ottobre proposi alla Commissione di sentirlo, lui poi fu arrestato il 19 dicembre ‘ 92 e venne ascoltato dall’autorità giudiziaria per tutto il ‘ 93».

Scarpinato ha firmato la richiesta?  Il Procuratore generale Scarpinato, come sempre, pone dei problemi molto seri, che sarebbe sbagliato nascondere. Nella storia d’Italia ci sono dei buchi neri che riguardano le stragi rimaste senza colpevoli, e riguardano anche i rapporti che organizzazioni criminali come la mafia hanno avuto con l’economia. Sappiamo poco di questi argomenti.

Naturalmente la storia d’Italia non è solo questo. Come spiega molto bene il dottor Peppino Di Lello nel suo intervento che raccontiamo ampiamente su questo numero del giornale, la storia d’Italia è fatta soprattutto di lotte, di movimenti, di conflitti, di battaglie parlamentari, di impegni dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari. Servono nuove indagini per capire cosa c’è dentro i buchi neri? Può darsi. Purché si facciano seriamente e sulla base di fatti reali e accertati, non di fantasie, di ipotesi letterarie e illogiche. Oppure di tesi politiche confezionate a tavolino per colpire qualche avversario.

Cosa è successo davvero nel ’ 92 e nel ’ 93 quando furono uccisi Falcone e Borsellino e quando poi la mafia organizzò varie stragi nella Penisola? E perché furono uccisi Falcone e Borsellino?  In questi giorni noi abbiamo pubblicato una ricostruzione di ciò che successe in quei mesi insanguinati. E soprattutto ci siamo occupati del dossier “mafia e appalti”, preparato dal generale Mori, sul quale lavorò Falcone e avrebbe poi voluto lavorare Borsellino. Che non fece in tempo. Perché fu ucciso. Quel dossier, fu archiviato pochi giorni dopo la morte di Borsellino. La sua archiviazione era stata chiesta pochi giorni prima della morte di Borsellino dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato. Perché? Fu un errore molto grave. Archiviando quelle indagini, alle quali Falcone teneva moltissimo, fu buttato a mare un pezzo molto importante dell’impegno antimafia dello Stato italiano.

Oggi il dottor Scarpinato può dirci perché chiese quella archiviazione? Può spiegarci se ricevette pressioni? E perché il dossier non arrivò mai a Borsellino? Nessuno dubita della buonafede di Scarpinato, neppure lontanamente, ma se lui stesso sollecita trasparenza sarebbe giusto innanzitutto che fosse lui stesso a offrire trasparenza, no?  Se invece non è stato lui a firmare la richiesta di archiviazione, allora temo che mi prenderò una querela. Ma a me risulta che fu lui a firmare.

Era la mattina del 19 luglio 1992, il pomeriggio ci fu la strage Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…»

«Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu“ ( affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi.

Quindi, ritornando alla testimo- nianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega?

Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo».

L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa.

L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo».

Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone.

Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento». Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti. Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco. Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

IL DUBBIO

La svolta su Borsellino e sulla vicenda mafia-appalti: intervista ad Ermes Antonucci da Francesco d’Errico | Lug 26, 2019. Ventisette anni fa, esattamente il 19 Luglio 1992, perdevano la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, lacerati dall’esplosione di una Fiat126 imbottita di tritolo, per mano di Cosa Nostra. A quasi trent’anni dalla strage di via d’Amelio, le vicenda della morte del p.m. palermitano è stata ed è tutt’ora avvolta da una cortina di incertezze, mezze verità e piste false. Piste false come i depistaggi confermati dalla sentenza emessa nel 2017 dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, avvenuti per mano di diversi pentiti e che hanno portato all’incarcerazione di ben otto innocenti. Tuttavia, grazie ad un’inchiesta de Il Foglio realizzata da Ermes Antonucci, emergono nuovi dettagli importanti circa le vicende che hanno preceduto e seguito la morte di Borsellino. Si tratta di aspetti inediti prodotti dalle difese dei due processi di Palermo ed Avezzano, il primo sulla ben nota Trattativa Stato Mafia e il secondo sulla querela dei pm palermitani, promossa contro i giornalisti de Il Dubbio Piero Sansonetti (anche direttore allora) e Damiano Aliprandi per l’inchiesta dagli stessi svolta un anno fa nel mese di maggio a proposito del dossier dei Ros Mafia Appalti, della sua archiviazione e delle vicende che lo avevano riguardato nella Procura dei veleni. Le novità che emergono nell’articolo de Il Foglio a firma di Ermes Antonucci potrebbero fare luce su quei temi fondamentali per la storia di Borsellino, relativi ai suoi rapporti col Ros e alla famosa inchiesta mafia-appalti. Ecco la nostra intervista a Ermes Antonucci:

La fonte principale della tua inchiesta sono le audizioni al Csm dei magistrati della procura di Palermo avvenute tra il 28 e il 31 Luglio del 1992, a pochi giorni dalla morte di Borsellino. Cosa emerge di nuovo e di così importante da queste audizioni?  R: Emergono due elementi inediti sugli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino. Entrambi ruotano attorno a una riunione che avvenne il 14 luglio 1992, quindi cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, alla procura di Palermo, in cui parteciparono tutti i magistrati in servizio. La prima novità è che in quell’occasione Borsellino chiese ripetutamente spiegazioni e chiarimenti sull’indagine mafia e appalti, l’indagine voluta da Falcone (e poi ripresa dallo stesso Borsellino), realizzata dai carabinieri del Ros e incentrata sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi. Nella riunione Borsellino chiese conto dei motivi che avevano indotto i vertici della procura di Palermo a dare scarso seguito alle risultanze dell’indagine compiuta dal Ros, in particolare nei confronti dei politici e degli imprenditori che venivano indicati nel dossier. La sentenza Borsellino quater sulla strage di Via D’Amelio individua proprio nell’interesse riposto da Borsellino all’indagine mafia e appalti una delle ragioni che avrebbero indotto Cosa nostra a uccidere il magistrato. Tuttavia, la sentenza di primo grado sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha voluto riscrivere la storia, affermando addirittura che Borsellino non conoscesse il contenuto di quel dossier. Ma il duro confronto avuto con i colleghi nella riunione del 14 luglio dimostra che Borsellino, pochi giorni prima di morire, era fortemente interessato a sviluppare l’indagine mafia e appalti. La seconda novità è costituita dal fatto che, in quella riunione, Borsellino chiese spiegazioni sull’indagine mafia e appalti difendendo l’operato dei carabinieri, che si attendevano risultati giudiziari di maggiore respiro, a conferma della profonda fiducia che a soli cinque giorni dalla strage di Via D’Amelio ancora vi era tra il magistrato e il Ros. Ciò contrasta drasticamente con un altro punto del teorema della “trattativa Stato-mafia”, secondo cui Borsellino il 28 giugno 1992 sarebbe rimasto sconvolto dalla scoperta dei contatti tra i Ros e Vito Ciancimino. E’ difficile immaginare che ciò sia avvenuto, visto che sedici giorni dopo, nella riunione in procura, Borsellino difese proprio i Ros.

La figlia di Borsellino, Fiammetta, si batte da tempo per fare luce sull’ archiviazione della inchiesta mafia-appalti tanto cara a suo padre. Anche alla luce delle novità emerse dall’inchiesta ti sei fatto un’idea a riguardo? R:Le novità emerse dalla mia inchiesta, che si rifanno ad atti mai resi pubblici e ora recuperati dagli avvocati Simona Giannetti e Basilio Milio, rendono ancor più necessari chiarimenti sulla tempistica che ha caratterizzato l’archiviazione dell’indagine mafia e appalti. Abbiamo visto che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima di essere ammazzato, Borsellino era molto concentrato sugli sviluppi dell’indagine. Eppure, il giorno prima, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato decisero di redigere la richiesta di archiviazione dell’indagine (di cui non si fece menzione nella riunione successiva con Borsellino). Non solo. La richiesta di archiviazione venne vistata dal procuratore Giammanco e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. L’indagine venne poi archiviata a tempo record, il 14 agosto, quindi in pieno periodo ferragostano, dal gip Sergio La Commare. Perché questa fretta? Per questa semplice domanda Lo Forte e Scarpinato hanno querelato l’ex direttore del Dubbio, Piero Sansonetti, e il giornalista Damiano Aliprandi, ma si tratta di un quesito assolutamente legittimo, che mira a chiedere i dovuti chiarimenti su una vicenda importante e tutt’ora avvolta nell’oscurità.

Possiamo dire che anche Borsellino, dunque, grazie a quanto emerso dall’inchiesta, come Giovanni Falcone, non fosse particolarmente amato dai propri colleghi prima della tragica morte? Anche questo aspetto accomuna il vissuto dei due magistrati palermitani? R:Assolutamente sì. Basti pensare che il procuratore capo Giammanco negò a fino all’ultimo a Borsellino la delega per i grandi processi di mafia a Palermo, affidandogli solo le inchieste sulle cosche di provincia. Il contrasto emerso attorno all’indagine mafia e appalti conferma la debolezza di un rapporto già deteriorato.

Un’ultima domanda. La tua inchiesta, oggettivamente, mette in luce particolari inediti decisivi per fare luce sulla figura di Borsellino. Per quale motivo secondo te la notizia non è stata ripresa dai principali media proprio nei giorni di commemorazione del p.m.? R:Non è stata ripresa per un semplice motivo: rivela fatti inediti scomodi. Scomodi per la gran parte degli organi di informazione che da anni, pur di vendere qualche copia in più, pubblicare libri e persino realizzare film, alimenta il teorema sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, all’interno del quale si cerca di far ricadere lo stesso attentato in cui venne ucciso Borsellino. Così, ogni dato di fatto che contrasta con questo disegno viene sistematicamente ignorato. In fondo, è sufficiente osservare il silenzio con cui gli organi di informazione hanno accolto anche le dichiarazioni che Borsellino rese nel 1988 in un’audizione ora desecretata. In questa deposizione, Borsellino demolì proprio l’ipotesi dell’esistenza di un patto tra politica e mafia: “Mi sono formato la convinzione, tra l’altro condivisa dal collega Falcone dopo otto anni di indagini sulla criminalità mafiosa, che il famoso terzo livello di cui tanto si parla – cioè questa specie di centrale di natura politica o affaristica che sarebbe al di sopra dell’organizzazione militare della mafia – sostanzialmente non esiste. Dovunque abbiamo indagato, al di sopra della cupola mafiosa, non abbiamo mai trovato niente”, disse. Insomma, è lo stesso Borsellino, in maniera postuma, a sconfessare la tesi di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Eppure, i giornali hanno preferito ignorare queste parole per concentrarsi invece esclusivamente su altre audizioni in cui emergono le lamentele di allora di Borsellino per l’insufficiente disponibilità della scorta. Affermazioni ovviamente utilizzate, di nuovo, proprio per alimentare il teorema della trattativa e del tradimento di una parte dello Stato. Lo stesso silenzio, imbarazzato e imbarazzante, si è notato di fronte alla conferma in appello dell’assoluzione di Calogero Mannino nel processo stralcio sulla trattativa. Il teorema traballa sempre di più, e quindi ai giornalisti che lo hanno alimentato (spesso toccando vette di ridicolo, come quando venne dato credito al papello tarocco di Massimo Ciancimino) non resta che battere in ritirata e dare risalto solo alle notizie che convengono. Non c’è alcun interesse a rintracciare la verità, a dispetto dei propositi sbandierati. L’ennesimo insulto alla memoria dei due magistrati. EXSTREMARATIO 26.7.2019

 A cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro le Mafie – Progetto San Francesco