Agguati e vendette di Cosa nostra

 

LA GUERRA DEI CORLEONESI CHE CAMBIA PER SEMPRE COSA NOSTRA   Alla periferia dell’impero hanno già ucciso boss di peso come Giuseppe Di Cristina e Pippo Calderone, ma è a Palermo e nella sua provincia che si scatena l’attacco dei Corleonesi. È Totò Riina, il “contadino” sceso dalla Rocca Busambra, che in pochi mesi s’impadronisce della mafia dell’isola grazie ai traditori che ha all’interno di ogni “famiglia” palermitana e che gli svelano i movimenti e tutte le mosse di tutti i suoi nemici

  • La data ufficiale di questa mattanza risale esattamente a quarant’anni fa.
  • L’11 marzo del 1981 scompare Giuseppe “Piddu” Panno, il patriarca di Casteldaccia, un anziano capo che ha fatto parte anche della Cupola.
  • Dopo Giuseppe Panno, il 23 aprile di quel 1981 tocca a Stefano Bontate, il “Principe di Villagrazia”, il mafioso più influente di Palermo. L’11 maggio è il turno di Salvatore “Totuccio” Inzerillo, capo della “famiglia” di Passo di Rigano.

Passa alla storia come la “seconda grande guerra di mafia”, in realtà è uno sterminio che cancella dalla faccia delle terra tutti i capi dell’aristocrazia di Cosa Nostra siciliana. Alla periferia dell’impero hanno già ucciso boss di peso come Giuseppe Di Cristina e Pippo Calderone, ma è a Palermo e nella sua provincia che si scatena l’attacco dei Corleonesi contro il potere criminale costituito. E’ Totò Riina, il “contadino” sceso dalla Rocca Busambra, che in pochi mesi s’impadronisce della mafia dell’isola grazie ai traditori che ha all’interno di ogni “famiglia” palermitana e che gli svelano i movimenti e tutte le mosse di tutti i suoi nemici. La capitale della Sicilia diventa una tonnara. Omicidi e stragi, le strade di Palermo che ogni giorno s’insanguinano. E poi la lupara bianca, il sequestro senza ritorno. Uomini attirati in un tranello, rapiti, torturati e “interrogati”. Il loro corpo non verrà mai più ritrovato. La data ufficiale di questa mattanza risale esattamente a quarant’anni fa. E’ l’11 marzo del 1981 quando scompare Giuseppe “Piddu” Panno, il patriarca di Casteldaccia, un anziano capo che ha fatto parte anche della Cupola, il governo della Cosa Nostra. Da quel momento, e sino all’autunno del 1983, la “guerra” farà in Sicilia più di mille morti. Dopo Giuseppe Panno, il 23 aprile di quel 1981 tocca a Stefano Bontate, il “Principe di Villagrazia”, il mafioso più influente di Palermo, frequentatore dei salotti buoni, amico di uomini politici e dei pezzi grossi dell’imprenditoria palermitana. Dopo Stefano Bontate, l’11 maggio è il turno di Salvatore “Totuccio” Inzerillo, capo della “famiglia” di Passo di Rigano e con tanti “cugini” dall’altra parte dell’Atlantico, a Cherry Hill: i Gambino d’America. E poi tutti i loro alleati, i fidati guardaspalle, i figli, i padri e i fratelli. Di Inzerillo ne cadranno ventuno. Undici i Badalamenti uccisi. Undici anche i parenti di Tommaso Buscetta che verranno ammazzati. Buscetta poi, estradato dal Brasile dove era nascosto, si pentirà con il giudice istruttore Giovanni Falcone diventando il testimone chiave del maxi processo a Cosa Nostra.  ASSOCIAZIONE COSA NOSTRA 11.3. 2021


SCOMPARE UN PADRINO, UNA LUPARA BIANCA DÀ INIZIO ALLA MATTANZA DI PALERMO Le cause più profonde e generali della “seconda guerra di mafia”, al di là dei motivi specifici di ciascun omicidio, sono da ricercare nella gestione dei traffici gestiti da Cosa Nostra e, in particolare, quello degli stupefacenti

Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese e quella sul patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi, raccontiamo adesso la seconda guerra di mafia, quarant’anni dopo. Il 23 aprile 1981, in questa via Aloi, veniva ucciso, a colpi di lupara e di kalashnikov, STEFANO BONTATE, capo della “famiglia” di S. Maria di Gesù. Con questo eclatante omicidio veniva inaugurata – in seno a “Cosa Nostra” – una terribile teoria di assassinii, che alla fine vedeva vittorioso il gruppo di potere facente capo ai corleonesi. La faida, impropriamente definita “guerra di mafia”, é stata, in realtà, una vera e propria mattanza, condotta con lucida strategia dai corleonesi e dai loro alleati, mediante la creazione un sistema di alleanza con elementi chiave di ciascuna famiglia, attraverso cui individuare e colpire tutti i soggetti, ritenuti non affidabili, a qualunque famiglia appartenessero. Ben diversa era stata la prima guerra di mafia (quella degli anni 1960-63), che aveva visto lo scontro armato fra diverse famiglie contrapposte nel tentativo di conquistare una posizione di supremazia le une sulle altre. L’atipicità dello scontro aveva, per un certo periodo, fuorviato l’interpretazione della logica degli assassini: non si comprendeva, infatti, ad esempio, come mai le “famiglie” di capi carismatici come STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO non reagissero alle uccisioni dei loro capi né si comprendeva perché venissero uccisi elementi di spicco di altre “famiglie”. Anzi, si era portati a ritenere che tali delitti costituissero la reazione dei “perdenti” mentre, in realtà, si trattava della prosecuzione dell’opera di “bonifica” intrapresa dai corleonesi e dai loro alleati. Le cause più profonde e generali della seconda guerra di mafia, al di là dei motivi specifici di ciascun omicidio, sembrano da ricercare nelle modalità stesse dei traffici illeciti gestiti da “Cosa Nostra” e, in particolare, del contrabbando di tabacchi e del traffico di stupefacenti.

L’OMICIDIO DEL MARESCIALLO SORINO […] Intorno al 1975, […] i corleonesi non erano ancora riusciti ad egemonizzare completamente la “Commissione”. Infatti, ad eccezione di NENE’ GERACI, che era di provata fede “leggiana”, tutti gli altri componenti della Commissione subivano il forte ascendente di STEFANO BONTATE. Ma altri episodi contribuivano a sminuire il prestigio di quest’ultimo ed a segnare punti a favore dei corleonesi. Il 10.1.1974, veniva ucciso a San Lorenzo il maresciallo di Pubblica Sicurezza in pensione ANGELO SORINO, e la polizia ne riteneva ovviamente responsabile il “capofamiglia” della zona, FILIPPO GIACALONE, il quale veniva arrestato. Il delitto era stato consumato all’insaputa della Commissione e il BONTATE aveva preteso delle spiegazioni dal GIACALONE, il quale – però – si era detto estraneo all’omicidio e si era ripromesso, una volta tornato in libertà, di accertarne l’autore. Dimesso dal carcere, il GIACALONE aveva svolto le sue investigazioni e aveva riferito al BONTATE che il delitto era stato materialmente commesso da LEOLUCA BAGARELLA, su mandato dei corleonesi. Poco tempo dopo, il nominato GIACALONE scompariva e il BONTATE, nel commentare il fatto col BUSCETTA, si dichiarava convinto che era stato eliminato per averlo informato sull’autore della soppressione del maresciallo SORINO. Spazzato via il primo membro della Commissione favorevole al BONTATE, veniva nominato al suo posto nel 1978 FRANCESCO MADONIA, capo della “famiglia” di Resuttana e fedelissimo dei corleonesi. Frattanto, nel 1975, si verificava un altro gravissimo episodio lesivo del prestigio di STEFANO BONTATE. Il suocero dell’esattore NINO SALVO, LUIGI CORLEO, veniva sequestrato e fatto scomparire all’insaputa della Commissione. Sia GIUSEPPE DI CRISTINA sia GAETANO BADALAMENTI erano sicuri che autori del sequestro fossero i corleonesi; addirittura lo stesso BADALAMENTI, cui NINO SALVO si era rivolto per riavere almeno il cadavere del suocero, non aveva potuto far nulla. Ora, se si tiene conto di quanto fossero solidi i legami tra NINO SALVO e STEFANO BONTATE, é intuitiva la gravità dello smacco subito dal BONTATE che, dopo il CASSINA, non era riuscito a proteggere nemmeno una personalità del calibro di NINO SALVO. Nel 1977, veniva ucciso a Ficuzza (Corleone) il Tenente Colonnello dei CC. GIUSEPPE RUSSO, investigatore di razza, e – anche stavolta – né il BONTATE né la Commissione ne venivano preventivamente informati. Solo in un secondo momento, MICHELE GRECO comunicava al BONTATE che mandanti dell’omicidio erano stati i corleonesi ed autore materiale PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”; negava però, contro ogni logica, e benché un “uomo d’onore” della sua famiglia (PINO GRECO) avesse partecipato all’assassinio, di essere stato informato prima della consumazione dello stesso.

L’“ESPULSIONE” DI BADALAMENTI E L’UCCISIONE DI DI CRISTINA Il 1978 è l’anno della defenestrazione di GAETANO BADALAMENTI, capo della “Commissione”, espulso (“posato”) da “Cosa Nostra” per motivi che BUSCETTA non ha saputo o voluto dire. […] Nello stesso anno viene ucciso GIUSEPPE DI CRISTINA, fraterno amico di STEFANO BONTATE e di SALVATORE INZERILLO e loro potente alleato. […] L’assassinio avveniva in territorio controllato dalla “famiglia” di SALVATORE INZERILLO, dove, addirittura, veniva abbandonata l’autovettura usata dai killers. Ciò naturalmente provocava l’ira furibonda dell’INZERILLO poiché, oltre a costituire gravissima lesione del suo prestigio di capo della “famiglia” di Passo di Rigano, avrebbe attirato su di lui le attenzioni della polizia. […] Aggiungasi che il DI CRISTINA temeva di essere ucciso, tant’è che pochi giorni prima di morire si era presentato al Cap. PETTINATO dei CC. di Gela, esprimendo preoccupazione per la sua vita messa in pericolo dai corleonesi; […]. La reazione dell’INZERILLO per la inammissibile violazione del suo territorio era stata piuttosto energica, ma MICHELE GRECO si era schermito, adducendo che il DI CRISTINA era un confidente dei CC. e che era stato ucciso per motivi interni della sua “famiglia” (Riesi). La mafia, quindi, era a conoscenza, pochi giorni dopo, dell’incontro tra DI CRISTINA ed il Cap. PETTINATO, benché si sia trattato di un unico incontro, avvenuto nella più assoluta riservatezza. Il fatto che un omicidio tanto grave fosse stato deliberato all’insaputa di membri autorevoli della “Commissione” (INZERILLO, BONTATE ed anche ROSARIO RICCOBONO) era sicuro indice che quest’organo era stato esautorato dai corleonesi. Stranamente, né BONTATE né INZERILLO seppero trarre in tempo le conseguenze da quanto accadeva.

NUOVI EQUILIBRI IN “COMMISSIONE” Nel 1978, dunque, per effetto della eliminazione di FILIPPO GIACALONE e della espulsione di GAETANO BADALAMENTI la “Commissione” assumeva questa nuova composizione: MICHELE GRECO capo, ANTONIO SALAMONE (BERNARDO BRUSCA) , STEFANO BONTATE, SALVATORE INZERILLO, SALVATORE SCAGLIONE, GIUSEPPE CALO’, ROSARIO RICCOBONO, FRANCESCO MADONIA, NENE’ GERACI, CALOGERO PIZZUTO, SALVATORE RIINA (BERNARDO PROVENZANO). IGNAZIO MOTISI.

Nel 1979 veniva cooptato come capo mandamento anche il famigerato PINO GRECO SCARPUZZEDDA che aveva già ampiamente dimostrato la sua lealtà ai corleonesi uccidendo personalmente il Colonnello RUSSO.

Pertanto a quel tempo gli equilibri interni della Commissione erano cosi’ rappresentati: un gruppo fedele a BONTATE (INZERILLO, PIZZUTO); un gruppo di sicura fede leggiana (CALO’, MADONIA, BRUSCA, GERACI, SCARPUZZEDDA, MOTISI e, apparentemente, SALVATORE SCAGLIONE) ed un terzo gruppo (MICHELE GRECO, RICCOBONO, SALAMONE) non del tutto ostile a BONTATE ed INZERILLO, ma certamente avverso a GAETANO BADALAMENTI.

Come si vede, la presenza dei corleonesi era nettamente preponderante.

[…] MICHELE GRECO poi, il capo della “Commissione” – che avrebbe dovuto reggere le sorti di “Cosa Nostra” con energia e decisione -, era, secondo la concorde valutazione di BUSCETTA e CONTORNO, un personaggio scialbo e imbelle, sostanzialmente un ostaggio in mano ai “corleonesi”, tant’è che STEFANO BONTATE si lamentava con BUSCETTA che “SCARPUZZEDDA” era divenuto una sorta di diaframma fra lui e MICHELE GRECO, e addirittura i giorni delle riunioni della “Commissione” li fissava lui.

Frattanto la situazione interna di Cosa Nostra si evolveva in senso favorevole ai corleonesi.

Intorno al 1979-80, entrava in “Commissione” anche GIOVANNI SCADUTO, genero di SALVATORE GRECO FERRARA; in tal modo, aumentava ulteriormente il “peso” di MICHELE GRECO e dei corleonesi […]. In questa situazione la posizione di STEFANO BONTATE diventava ancor più difficile ed era ulteriormente aggravata dalla avversione sempre più esplicita mostrata nei suoi confronti dal fratello GIOVANNI. […] I contrasti insorti perfino tra fratelli danno la misura delle dimensioni e della natura del dissidio esploso in seno a “Cosa Nostra”: guerra aperta dei corleonesi e dei loro alleati contro tutti gli elementi ritenuti non affidabili.

GLI “OMICIDI ECCELLENTI” Nel 1978, veniva ucciso il Segretario Provinciale di Palermo della D.C., MICHELE REINA; nel 1979, venivano assassinati il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, BORIS GIULIANO, e l’On. CESARE TERRANOVA. Di questi fatti di sangue, né BONTATE né il gruppo a lui vicino (INZERILLO, RICCOBONO, PIZZUTO) venivano informati.

Era chiaro che i corleonesi avevano ormai saldamente in pugno la situazione.

L’anno successivo venivano uccisi il Presidente della Regione, PIERSANTI MATTARELLA, ed il Cap. CC. EMANUELE BASILE. anche a tali omicidi BONTATE e i suoi amici erano estranei; ma la reazione dello stato si dirigeva soprattutto su SALVATORE INZERILLO e sulla sua “famiglia”.

A questo punto l’INZERILLO decideva di rompere l’accerchiamento dei corleonesi con una plateale dimostrazione di potenza, e, all’insaputa della Commissione, uccideva il Procuratore della Repubblica di Palermo, GAETANO COSTA.

Ma la sua azione non sortiva l’effetto desiderato, anzi suscitava reazioni negative tanto che PIPPO CALO’, commentando l’omicidio, aveva detto che l’INZERILLO si era comportato da “bambino”.

E così, per motivi tanto abietti e futili, un integerrimo e valente Procuratore della Repubblica perdeva la vita.

L’INZERILLO, come egli stesso ebbe a precisare al BUSCETTA, non aveva motivi di risentimento nei confronti del COSTA per i provvedimenti restrittivi da lui personalmente adottati contro membri del suo clan; intendeva soltanto avvalersi dell’occasione “per dimostrare di essere tanto forte anch’egli per potersi comportare allo stesso modo dei corleonesi”.

LA “MEDIAZIONE” FALLITA DI BUSCETTA […] Nel giugno 1980, TOMMASO BUSCETTA, ammesso al regime di semilibertà durante l’espiazione di una residua pena inflittagli per traffico di stupefacenti, si allontanava arbitrariamente da Torino e si rifugiava a Palermo. […] BUSCETTA, giunto a Palermo, veniva avvicinato da VITTORIO MAGLIOZZO, “uomo d’onore” della sua stessa famiglia e persona di fiducia del CALO’, il quale gli faceva presente che CALO’ era pronto ad ospitarlo in un suo alloggio romano.

Dietro indicazione del MAGLIOZZO, TOMMASO BUSCETTA raggiungeva l’alloggio del CALO’ – localizzato in Roma via Aurelia 477 – e vi rimaneva ospite per diversi giorni.

[…] CALO’ e i corleonesi, nell’imminenza del conflitto contro BONTATE, avevano bisogno dell’appoggio di BUSCETTA e, cioè, di un personaggio che, col suo ascendente, fosse in grado di dare avallo e copertura ad un’operazione che si presentava rischiosa e traumatica; salvo, ovviamente, a far fuori anche il BUSCETTA al momento opportuno.

E difatti, riferisce BUSCETTA che il CALO’ gli aveva parlato in termini assai critici di STEFANO BONTATE, che si comportava male col fratello GIOVANNI e che aveva stretto alleanza con quel “bambino” di SALVATORE INZERILLO; e si era espresso dispregiativamente anche nei confronti di ROSARIO RICCOBONO, da lui chiamato “il terrorista” per la propensione a commettere omicidi senza pensarci due volte. Aveva – insomma – cercato di mettere in cattiva luce coloro che, in seno alla “Commissione”, non erano docili ai voleri dei corleonesi.

Il BUSCETTA, comunque, usando tutto il suo ascendente e memore dell’antica amicizia fra STEFANO BONTATE e CALO’, era riuscito a convincere quest’ultimo ad incontrarsi col BONTATE e con SALVATORE INZERILLO.

Rientrato a Palermo, aveva contattato più volte STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO per tentare un componimento dei contrasti con CALO’ e gli altri. Ma i due apparivano assai adirati: SALVATORE INZERILLO riaffermava le sue buone ragioni di uccidere GAETANO COSTA per protestare contro la decisione arbitraria di uccidere il Cap. BASILE e STEFANO BONTATE proclamava, lasciando esterrefatto BUSCETTA, che intendeva uccidere personalmente SALVATORE RIINA alla presenza degli altri membri della Commissione, essendo questa l’unica via per evitare di essere sopraffatto dai corleonesi, aggiungendo che aveva manifestato questa sua intenzione ad ANTONIO SALAMONE, il quale gli aveva promesso il suo appoggio, ma solo a cose fatte.

BUSCETTA si rendeva subito conto che BONTATE aveva sbagliato a fidarsi di un personaggio tanto enigmatico ed infido come il SALAMONE; ed invitava il suo capo a stare bene in guardia.

Per quanto riguardava PIPPO CALO’, STEFANO BONTATE era convinto che fosse ormai completamente asservito ai corleonesi, al punto che, nelle sedute della “Commissione”, quando questi ultimi esprimevano le loro opinioni, egli nemmeno parlava, ma si limitava ad annuire con cenni del capo.

Nonostante tutto, TOMMASO BUSCETTA riusciva a combinare un incontro tra BONTATE, INZERILLO e CALO’. L’incontro avveniva alle porte di Roma, nell’autogrill Pavesi sito nel tratto iniziale dell’Autostrada del Sole, dove i tre, apparentemente, raggiungevano un accordo, stabilendo di consultarsi prima di partecipare alle sedute della “Commissione”.

La realizzazione di tale incontro, fermamente voluto dal BUSCETTA in un momento in cui si decideva il destino dei vertici di “Cosa Nostra”, dà appieno la misura della carica carismatica di questo personaggio che certamente non era, come taluno vorrebbe sostenere, un vecchio rudere ormai superato dagli eventi, bensì un uomo “che contava”.

Del resto, è stata la stessa mafia, col suo selvaggio accanimento e con la feroce persecuzione contro i familiari del BUSCETTA, a dimostrare, senza possibilità di equivoci, la statura mafiosa del personaggio e l’estremo interesse ad eliminarlo, o, comunque, a ridurlo alla impotenza a qualsiasi costo.

LUPARA BIANCA PER GIUSEPPE PANNO Nonostante le pressioni dei suoi amici, TOMMASO BUSCETTA partiva per il Brasile nei primi giorni del gennaio 1981, nauseato, per sua stessa affermazione, di quanto stava accadendo.

Le sue conoscenze degli eventi successivi al gennaio 1981, pertanto, sono solo indirette; soccorrono, peraltro, quelle di SALVATORE CONTORNO, che sono ampiamente riscontrate.

Il 1981 segna l’inizio di un aperto scontro armato interno alla mafia.

Già il 13.8.1980 ERIC CHARLIER, un trafficante di stupefacenti di cui si è parlato più volte, essendosi incontrato a Palermo (per la consegna di danaro proveniente da detto traffico) con FRANCESCO MAFARA, aveva ricevuto da quest’ultimo (essendo egli implicato anche nel commercio delle armi) una richiesta per la fornitura di armi, cannocchiali per fucili di precisione, dispositivi per la visione notturna, giubbotti antiproiettile ed altro. Il MAFARA aveva motivato la richiesta asserendo di prevedere come imminente uno scontro armato fra opposte fazioni mafiose.

E così l’11 marzo 1981, scompariva, vittima della “lupara bianca”, GIUSEPPE PANNO, vecchio “capo-famiglia” di Casteldaccia e la sua soppressione, quali che ne fossero i reali motivi, contribuiva ulteriormente ad indebolire la posizione del BONTATE, poiché il PANNO era uno dei pochi mafiosi di prestigio dotati di buon senso. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo   11 marzo 2021 A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


I CORLEONESI AVEVANO L’OBIETTIVO DI FAR FUORI TUTTI I BOSS “INAFFIDABILI” La Seconda “guerra di mafia” non fu una guerra tra famiglie, ma una guerra tesa ad eliminare tutti coloro che, senza alcun riguardo per la “famiglia” di appartenenza, erano legati ai boss perdenti da vincoli troppo saldi per poterli ritenere “affidabili”

Il 15 giugno 81, verso le ore 16,50 circa, nella via Ugo Falcando, all’altezza di via Cataldo Parisio, veniva ucciso GNOFFO IGNAZIO mentre si accingeva a scendere dalla sua fiat 126 sulla quale viaggiava anche la moglie PILLITTERI CARMELA.

Nel corso del mortale agguato teso allo GNOFFO, la donna rimaneva gravemente ferita e, soccorsa da passanti, veniva accompagnata al posto di pronto soccorso dell’Ospedale “Villa Sofia”.

Nella immediatezza del fatto venivano sentiti molti commercianti della zona i quali, pero’, tutti concordemente, seppure con motivazioni diverse, negavano di aver assistito all’omicidio e solo qualcuno ammetteva di aver udito i colpi di arma da fuoco.

Non maggiore fortuna avevano gli inquirenti con i congiunti dello GNOFFO, i quali non sapevano dare indicazione alcuna sul probabile movente del delitto.

Solo MADDALONI ROSARIO – datore di lavoro dello GNOFFO – riferiva di aver assunto la vittima tre anni prima e di aver notato come questa, da due mesi, aveva mostrato una certa discontinuità nel lavoro, giustificandola con motivi di salute, mentre da una ventina di giorni non si era più presentato al lavoro.

Ciò, comunque, non lo aveva preoccupato, avendo già deciso di licenziare LO GNOFFO.

La PILLITTERI, successivamente ristabilitasi, riferiva che il giorno dell’omicidio lei e suo marito erano diretti al negozio di via Cataldo Parisio e, avendo trovato un posteggio per l’auto, si accingevano a scendere quando si sentiva colpita alle spalle e si accasciava al suolo.

Quasi contemporaneamente udiva degli spari e, poi, veniva accompagnata in ospedale da alcuni passanti.

La donna assumeva di non essere in grado di precisare chi avesse esploso i colpi di arma da fuoco ed, anzi, specificava di non essersi accorta dell’agguato teso al marito, anche se, secondo CIPOLLA GUIDO e VACCARO ROSARIO, la donna, da essi accompagnata a Villa Sofia, durante tutto il tragitto si era lamentata per l’uccisione dello stesso.

La PILLITTERI, inoltre, nulla voleva riferire circa i rapporti intercorsi tra il marito e INZERILLO SALVATORE, ucciso il precedente 11 maggio, anche se erano stati individuati alcuni assegni girati dal secondo al primo.

IGNAZIO GNOFFO, IL CAPO DELLA FAMIGLIA DI “PALERMO-CENTRO” Anche in assenza di un qualsiasi utile elemento rilevabile dalle dichiarazioni dei congiunti dello GNOFFO, gli inquirenti erano in grado di inquadrare l’omicidio nel contesto della guerra di mafia in corso, stante anche la appartenenza della vittima ad una delle “famiglie” mafiose del palermitano.

[…] Ed invero, lo GNOFFO aveva dovuto constatare che il 23 aprile era stato ucciso STEFANO BONTATE, mentre l’11 maggio era stato ucciso SALVATORE INZERILLO: caduto due mesi prima il BONTATE, aveva cominciato ad avere qualche timore per la sua sorte, tanto che anche la sua attivita’ lavorativa ne risentiva, mentre con l’uccisione dell’INZERILLO, proprio una ventina di giorni prima del suo stesso omicidio, aveva deciso di defilarsi, rinunciando anche al lavoro.

Un riscontro alle dichiarazioni del MADDALONI, circa lo stato di disagio dello GNOFFO, si poteva rilevare da quanto riferito da TOMMASO BUSCETTA.

Quest’ultimo, infatti, dichiarava: «BADALAMENTI mi riferì anche sull’omicidio di GNOFFO IGNAZIO. Debbo premettere che quest’ultimo faceva parte della “famiglia” di Palermo che, nel 1963, era capeggiata da ANGELO LA BARBERA. A seguito dei contrasti fra quest’ultimo e le altre famiglie palermitane, la famiglia di Palermo venne sciolta, essendo stato ritenuto dalla Commissione che la colpa di tutto quanto era avvenuto, di cui parlerò diffusamente in seguito, fosse da attribuire a LA BARBERA.

IGNAZIO GNOFFO, che era della “famiglia”, venne aggregato, quindi, a quella di STEFANO BONTATE (S. Maria Di Gesù), di cui ebbe modo di apprezzare l’intelligenza e l’equilibrio: verso il 1977, STEFANO BONTATE, dando ulteriore prova di buon senso, consentì a GNOFFO di ricostruire la “famiglia” di Palermo di cui divenne capo.

Quando, pertanto, vennero uccisi BONTATE e INZERILLO, la figura di GNOFFO destava preoccupazione, essendo noto il suo debito di gratitudine ed il suo affetto per BONTATE.

PIPPO CALO’, su mandato della Commissione, mandò più volte a chiamare GNOFFO, il quale, però, disertò gli appuntamenti, mandando a dire al CALO’ che non vi era alcun motivo per cui si dovessero incontrare. Ciò venne interpretato come una presa di posizione contro il CALO’ e la Commissione e, quindi, ne venne decretata la fine.

Il BADALAMENTI mi disse che GNOFFO era stato ucciso, alla presenza della moglie, mentre stava per salire in macchina in una via di Palermo».

Successivamente, il BUSCETTA aggiungeva che LO GNOFFO, secondo quanto riferitogli concordemente da STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO, era uno dei più attivi nel traffico di eroina, insieme con GIOVANNI BONTATE, i GRECO, i VERNENGO, gli SPADARO ed altri.

Lo stesso CONTORNO confermava i rapporti di amicizia esistenti tra STEFANO BONTATE e GNOFFO IGNAZIO.

SCOMPAIONO ANCHE I FRATELLI SEVERINO Non vi può essere, quindi, dubbio alcuno sul movente dell’omicidio dello GNOFFO anche perché la soppressione dello stesso avveniva nello stesso arco di tempo in cui scomparivano SEVERINO VINCENZO e SALVATORE, amici e dello GNOFFO e di SALVATORE INZERILLO.

Lo stesso giorno dell’omicidio dello GNOFFO, infatti, SEVERINO IGNAZIO si presentava negli uffici della Squadra Mobile di Palermo per denunciare la scomparsa dei figli VINCENZO e SALVATORE i quali, allontanatisi sin dal 28 o 29 maggio, non avevano più dato loro notizie.

Il SEVERINO precisava che i figli erano venuti a trovarlo a casa senza minimamente accennare ad una loro partenza da Palermo e che il suo terzo figlio – GIOVANNI – che li coadiuvava nella conduzione della macelleria di via Ruggerone Da Palermo, non aveva avuto notizie dei fratelli sin da quel giorno.

Successivamente, in data 20.4.82, il SEVERINO precisava che:

  • I figli, il giorno 29 maggio 81, verso le 8, si trovavano nella loro macelleria, insieme con il fratello GIOVANNI;
  • A questi avevano detto che si sarebbero assentati per breve tempo, senza specificare dove si recavano;
  • Erano usciti dal negozio a piedi e nessuno era ad attenderli;
  • I due erano amici di SALVATORE INZERILLO e di GNOFFO IGNAZIO, ma non era a conoscenza della natura dei rapporti che intercorrevano con questi.

I fratelli SEVERINO, quindi, proprio perché amici di personaggi di primo piano come l’INZERILLO e lo GNOFFO, non potevano non essere stati soppressi.

I rapporti con il capo della “famiglia” di Palermo-Centro (GNOFFO) ed il capo della “famiglia” di Passo Di Rigano (INZERILLO) dovevano essere fatali ai SEVERINO i quali venivano sicuramente soppressi con il famigerato metodo della “lupara bianca”.

Del resto si è già visto come lo stesso GNOFFO, proprio in concomitanza con gli omicidi di STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO, avesse mostrato di temere per la sua vita e ciò, sicuramente, non per caso.

IL PIANO DI RIINA & COMPAGNIA. Gli stessi, ripetuti, interventi di PIPPO CALO’ tesi, formalmente, a “convocare” lo GNOFFO per conto della Commissione, erano stati avvertiti da questo ultimo come segnali sicuri di una sua prossima eliminazione, tanto che, non potendo nulla di buono sperare da tali convocazioni, aveva disertato gli appuntamenti.

CORALLO GIOVANNI, poi, dal suo canto, non poteva essere estraneo alla eliminazione dello GNOFFO, dato che pronta era la sua successione a capo della “famiglia” di Palermo-Centro.

L’omicidio dello GNOFFO e’ una sicura riprova della tesi accusatoria secondo la quale la “guerra di mafia” non fu una guerra tra famiglie, ma una guerra tesa ad eliminare STEFANO BONTATE, SALVATORE INZERILLO e quanti, senza alcun riguardo per la “famiglia” di appartenenza, erano agli stessi legati da vincoli troppo saldi per poterli ritenere “affidabili” nel contesto di un progetto teso alla egemonia dei corleonesi su “Cosa Nostra”.

Nel caso, poi, come quello in esame, si fosse trattato di un capo o di un semplice “uomo d’onore”, era necessario il preventivo assenso della Commissione e dei preminenti personaggi all’interno della stessa “famiglia” di appartenenza della vittima designata, i quali ultimi, lungi dal reagire, ne avrebbero preso il posto.

Ciò comportava che la guerra di mafia, appunto, non scadesse in una generale guerra tra “famiglie”, ma si risolvesse in un ricambio di quadri senza ulteriori conseguenze nocive per l’associazione mafiosa nella sua interezza: l’esempio dello scontro tra i LA BARBERA e le altre “famiglie” mafiose aveva insegnato quanto potesse essere dannoso un conflitto generalizzato.

La strategia dei corleonesi, quindi, mirava proprio ad una sostituzione contrattata di elementi vicini al BONTATE ed ALL’INZERILLO con elementi ai primi fedeli, si’ che si potesse ottenere il duplice risultato di assicurare la loro egemonia e mantenere la massima armonia tra tutte le famiglie mafiose.

Eliminato IGNAZIO GNOFFO, il posto dello stesso come capo famiglia veniva preso da GIOVANNI CORALLO, grande amico proprio di PIPPO CALO’ con il quale, in tempi non sospetti, aveva lavorato in un negozio di tessuti.

Riferiva, infatti, il BUSCETTA: «Per quanto concerne il CORALLO posso solo dire che l’ho conosciuto negli anni ’60 quando lavorava come banconista, insieme con PIPPO CALO’, presso il negozio di tessuti GIARDINI. Allora egli non era nemmeno uomo d’onore ed ha costituito quindi, per me motivo di vera sorpresa l’apprendere da GAETANO BADALAMENTI che il CORALLO, a seguito dell’uccisione dello GNOFFO, era divenuto capo della famiglia di Palermo.

Infatti non avevo più sentito parlare del CORALLO e, in particolare, durante la mia detenzione all’Ucciardone nessuno mi aveva detto che era uomo d’onore».

Ciò, quindi, spiega anche l’interessamento del CALO’ nelle convocazioni dello GNOFFO, dato che, in ultima analisi, doveva preparare la successione a quest’ultimo nella persona del suo amico CORALLO.  Testi tratti dall’ordinanza del maxi processoA CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


I CORLEONESI FANNO PIAZZA PULITA, LUPARA BIANCA E LUPARA VERA PER I MAFARA Il 14 ottobre 1981, all’interno della Calcestruzzi di Maredolce, viene ucciso Giovanni Mafara. Subito dopo l’omicidio, la vedova, Giovanna Borgese, raccontava che anche il fratello della vittima, Francesco, era scomparso

Il 14 ottobre 1981, all’interno della “CALCESTRUZZI MAREDOLCE”, veniva ucciso MAFARA GIOVANNI.

L’omicidio aveva avuto diversi testimoni oculari e, pertanto, se ne poteva ricostruire la dinamica.

VILLAFRATE CARMELA MARIA, in particolare, riferiva che, mentre si trovava presso l’ingresso della palazzina adibita ad uffici, intenta a conversare con alcuni autisti di autobetoniere, aveva visto sopraggiungere due giovani a bordo di una moto.

I due si erano fermati davanti la porta d’ingresso e, quasi contemporaneamente, era giunta una auto di colore rosso amaranto che si era fermata vicino alla moto.

Il giovane che conduceva la moto, allora, aveva imbracciato un fucile a canne mozze, mentre l’altro giovane aveva impugnato una rivoltella, ed avevano, quindi, intimato a tutti di mettersi con la faccia al muro.

Sbirciando, aveva visto i due giovani entrare negli uffici ove qualche minuto prima si era diretto MAFARA GIOVANNI per compilare una bolletta di consegna di calcestruzzo.

Si erano, quindi, uditi degli spari e, subito dopo aveva visto i due uscire e fuggire con la moto.

Nulla la VILLAFRATE sapeva riferire sugli occupanti della autovettura rossa e nemmeno poteva dire se questi avessero o meno preso parte alla sparatoria.

Intuendo che, ormai, l’azione dei malviventi era stata portata a termine, la VILLAFRATE si era recata all’interno degli uffici ed aveva dovuto constatare che il MAFARA giaceva a terra, cadavere.

Dei due giovani dava una descrizione vaga e di nessuna utilità per la loro identificazione.

Queste della VILLAFRATE erano le dichiarazioni più complete ed esaurienti sulla dinamica dell’omicidio e nulla di ulteriore emergeva dal racconto degli altri testimoni oculari.

BORGESE GIOVANNA – moglie della vittima – riferiva di aver appreso dell’omicidio mentre si trovava al lavoro presso la “DAGNINO”.

Precisava che il marito si occupava, di fatto, della direzione della “CALCESTRUZZI MAREDOLCE”, mentre Amministratore della società era il fratello MAFARA GIUSEPPE.

La donna, comunque, aggiungeva che, dopo l’omicidio del marito, né MAFARA GIUSEPPE, né MAFARA PIETRO si erano più fatti vedere in famiglia, come pure non si era più fatto vedere MAFARA FRANCESCO che, tra l’altro, era latitante.

Nel rapporto di P.G. inoltrato dalla Squadra Mobile si riferiva che la BORGESE aveva oralmente riferito che i tre cognati, in realtà, avevano fatto avere loro notizie, ma non si erano più fatti vedere per motivi di sicurezza, temendo per la loro incolumità.

I MAFARA, I GRADO E IL NARCOTRAFFICO  […] Di tale grave fatto di sangue – una delle tappe salienti della guerra di mafia – si è già detto altrove e, comunque, appare inesatto inquadrare l’omicidio del MAFARA in un contesto di contrasti economici. Si è già parlato dell’importanza assunta dalle famiglie MAFARA e GRADO nel traffico internazionale di stupefacenti e si è già detto come dette famiglie fossero punti di riferimento specifico di “Cosa Nostra” nell’ambito di tale traffico.

I MAFARA ed i GRADO, inoltre, erano legati a STEFANO BONTATE: i primi, con SALVATORE e FRANCESCO, inseriti nella famiglia di Brancaccio capeggiata, sino alla sua uccisione, da GIUSEPPE DI MAGGIO, i secondi, con GAETANO e ANTONINO, inseriti nella stessa famiglia del BONTATE, Santa Maria di Gesù.

L’uccisione di MAFARA GIOVANNI coincide, temporalmente, con la scomparsa di MAFARA FRANCESCO e GRADO ANTONINO ed è da ritenersi sicura la eliminazione dei due ultimi ad opera dei clan “vincenti”, per quanto concordemente riferito da vari coimputati.

Pur avendo, infatti, la moglie di MAFARA GIOVANNI dichiarato informalmente alla polizia che il cognato FRANCESCO – latitante – dopo la uccisione del fratello si era fatto sentire in famiglia, vi è da credere che lo stesso sia stato eliminato.

Già STEFANO CALZETTA, parlando degli omicidi seguiti alla uccisione di STEFANO BONTATE, inseriva la soppressione di MAFARA GIOVANNI e la scomparsa di MAFARA FRANCESCO in tale contesto.

Più specificamente, il CALZETTA, parlando dei VERNENGO, aggiungeva: “Relativamente alla famiglia di quest’ultimo, inoltre, ricordo che due giorni prima dell’uccisione del fratello di CICCIO MAFARA io mi recai presso l’abitazione di PIETRO VERNENGO al Ponte Ammiraglio. Ciò feci perché avevo appreso che egli era appena uscito dal carcere (non so se di Mazara o di Marsala, ma credo, comunque Carcere Mandamentale).

Nell’occasione trovai intento a conversare con il citato VERNENGO tali SINAGRA (detto TEMPESTA) e COSTANTINO ANTONINO…………..mentre mi trovavo in casa del VERNENGO, si presentò CICCIO MAFARA che, ricordo perfettamente, calzava un berretto bianco. Questi, al momento di entrare in casa, venne apostrofato dal VERNENGO PIETRO con la frase “pezzo di merda” e nel contempo il MAFARA si avviò verso il COSTANTINO e gli altri che eravamo presenti baciandoci tutti quanti. Al momento di baciare COSTANTINO, il MAFARA tornò a baciare il medesimo, accompagnando l’effusione con la frase testuale: baciamoci un’altra volta.

Ciò, evidentemente, significava il desiderio del MAFARA di manifestare la sua sincerità e amicizia col COSTANTINO e col VERNENGO di cui, come ho detto, costui era il braccio destro.

Presente nell’occasione era pure il cugino di PIETRO, VERNENGO RUGGIERO, il quale, anzi, ci versò da bere.

Dopo essere rimasto un poco a conversare, io fui lasciato solo nella stanza da pranzo assieme al COSTANTINO e gli altri si allontanarono assieme al MAFARA tornando dopo circa altra mezz’ora. Non so cosa nel frattempo costoro abbiano fatto; so soltanto che da allora non vidi più il MAFARA e che dopo due giorni il fratello di costui venne ucciso all’interno della CALCESTRUZZI MAREDOLCE”.

Quanto riferito dal CALZETTA conferma, tra l’altro, i sicuri legami del MAFARA con i VERNENGO, anch’essi pienamente inseriti, come raffinatori, nel traffico internazionale di stupefacenti.

LE DICHIARAZIONI DI CONTORNO  Sulla contemporanea scomparsa di MAFARA FRANCESCO e GRADO ANTONINO riferiva, tra gli altri, SALVATORE CONTORNO, il quale precisava: “Ho appreso da mio cugino, BELLINI CALOGERO, che il giorno della uccisione di GIOVANNI MAFARA, ANTONINO GRADO (anch’egli mio cugino) e FRANCO MAFARA dovevano recarsi ad un appuntamento a Croce Verde Giardini, a casa di GIOVANNI PRESTIFILIPPO; dei due non si è saputo più nulla. Non escludo che il BELLINI sia stato ucciso per avere dato ospitalità a GRADO ANTONINO. Infatti, come mi ha detto, il GRADO e il MAFARA erano usciti da casa di esso BELLINI. Questa notizia è ben nota nell’ambito familiare. Io ho appreso questa notizia telefonando – credo da Roma e comunque da fuori Palermo – a casa del BELLINI, il quale, come sapevo, ospitava NINO GRADO.

Ovviamente ho telefonato al BELLINI per sapere se era vera la notizia della scomparsa di NINO GRADO, cugino di entrambi. NINO GRADO era stato da me informato dell’attentato che io avevo subito e, ciononostante, era rimasto a Palermo. Evidentemente riteneva di non correre pericoli per la propria incolumità. Quando gli dissi che sarei andato via da Palermo, non mi esternò preoccupazione per se stesso”. […].

Per spiegare, poi, la scomparsa del MAFARA, le famiglie vincenti avevano riferito agli americani che questi era un confidente della polizia responsabile degli arresti e del sequestro del denaro.

È, dunque, fuori dubbio che MAFARA FRANCESCO, GRADO ANTONINO, e MAFARA GIOVANNI siano stati soppressi proprio in connessione con la guerra di mafia e con la specifica eliminazione degli amici del BONTATE e del CONTORNO.

Ciò si rileva, inoltre, ancor più chiaramente dalle successive dichiarazioni di SALVATORE CONTORNO il quale parlando del periodo di detenzione trascorso nel carcere di Novara e dei colloqui ivi avuti con MASINO SPADARO e GAETANO FIDANZATI, riferiva: “Debbo dire che, a differenza dello SPADARO, GAETANO FIDANZATI giunse perfino ad altercare con me parlando dalle finestre delle nostre celle (non vi era, infatti, altra possibilità di parlare tra noi).

Quando, in particolare, io espressi parole di fuoco nei confronti di PIETRO LO IACONO, che, a mio avviso, era il responsabile dell’uccisione di GRADO ANTONINO e FRANCO MAFARA, il FIDANZATI mi rispose che non dovevo prendermela con LO IACONO ma con lui, perché era stato proprio esso FIDANZATI ad avvertire, a Milano, NINO GRADO che, secondo quanto aveva appreso da SALVATORE PRESTIFILIPPO, la “Commissione” voleva parlargli; ma anche secondo il FIDANZATI egli non aveva colpa dell’uccisione di NINO GRADO perché non credeva affatto che quest’ultimo fosse destinato ad essere ucciso. E devo rammaricarmi ancora una volta, perché il GRADO non ha ascoltato i miei consigli.

Quando, infatti, sono scampato fortunosamente all’attentato, mi sono reso conto che tutti i miei familiari correvano pericolo ed avevo consigliato anche allo stesso NINO GRADO a non recarsi ad alcuna riunione. Egli, invece, non volle ascoltarmi e, giunto a Palermo, si recò a casa di mio cugino BELLINI CALOGERO (LILLO L’ELETTRICISTA) dove, poi, venne rilevato da FRANCO MAFARA, secondo quanto mi disse il BELLINI. Da allora si sono perse le tracce di mio cugino e di FRANCO MAFARA”. È evidente, dunque, che alla ideazione ed esecuzione degli omicidi dei MAFARA e del GRADO abbiano partecipato personaggi quali il LO IACONO e che, quindi, tali delitti si inquadrino proprio nella strategia della eliminazione totale dei “perdenti”. […].  Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


LA MATTANZA DI NATALE, È UNA GUERRA CHE NON HA MAI UN GIORNO DI TREGUA Era da poco passata mezzanotte, il 26 dicembre 1982, quando una telefonata anonima avvisava di un duplice omicidio. Nell’area condominiale del civico n. 26 di via Salvatore Cappello, tra le auto parcheggiate, vi erano una Fiat Ritmo con all’interno il cadavere di Michele Ficano e una Fiat 127 con il cadavere di Gaspare Ficano

Alle ore 00,15 del 26 dicembre 1982, con una telefonata anonima, la centrale operativa del gruppo carabinieri di Palermo veniva avvisata di un duplice omicidio verificatosi poco prima nell’area condominiale del civico n. 26 di via Salvatore Cappello.

I militari dell’arma, recatisi sul posto, rilevavano che, tra le molte autovetture parcheggiate, vi erano una Fiat Ritmo targata PA-581281 con all’interno il cadavere di FICANO MICHELE, ed una Fiat 127 con il cadavere di FICANO GASPARE.

Gli stessi, attinti in più parti da colpi di arma da fuoco, erano rimasti esanimi nei rispettivi posti di guida.

Si apprendeva, inoltre, che CALABRESE ROSA – moglie di FICANO GASPARE e madre di FICANO MICHELE – al momento del fatto si trovava sull’auto del secondo e, rimasta illesa nel corso dell’attentato, era stata accompagnata in ospedale in stato di shock.

Veniva sentita informalmente in ospedale la vedova FICANO che riferiva come la figlia FRANCESCA fosse “fuggita” con GIOVANNI GRECO “GIOVANNELLO”, circostanza questa già conosciuta, come si dirà, dagli inquirenti i quali, proprio sulla base di questo legame affettivo tra i due citati GIOVANI, non avevano difficoltà ad inquadrare il duplice omicidio nel più generale contesto della “caccia” scatenata dalle cosche “vincenti” per scovare e sopprimere detto “GIOVANNELLO”.

Ed, infatti, nella impossibilità di conseguire quest’ultimo scopo, si stava attuando una azione tesa a fare intorno al predetto “terra bruciata” al fine – improbabile – di costringerlo a venir fuori o, quanto meno, di impedirgli, in caso di rientro a Palermo, un qualsiasi supporto “logistico”.

[…] FICANO MICHELE – cugino della omonima vittima – riferiva che la cugina FRANCESCA, con grande disappunto dei suoi, era fuggita con GIOVANNELLO GRECO e successivamente aveva regolarizzato la sua posizione sposando il giovane con il solo rito civile.

Aggiungeva che, malgrado l’iniziale opposizione dei familiari, la ragazza si era riappacificata con gli stessi tanto che qualche volta aveva notato il “GIOVANNELLO” nella abitazione dei suoceri.

[…] Esprimeva, infine, la convinzione che i due fossero stati soppressi proprio a causa del vincolo di affinità stretto con GIOVANNI GRECO, anche perché sapeva come analoga sorte fosse toccata al padre di quest’ultimo, GRECO SALVATORE, nonché allo zio CINA’ GIACOMO e a MARCHESE PIETRO.

Veniva sentita, inoltre, GRECO EVELINA fidanzata di FICANO MICHELE, la quale riferiva che il giovane aveva trascorso con lei la giornata precedente la sua uccisione, senza esternare alcuna preoccupazione per la sua incolumità.

Aggiungeva di essere a conoscenza del legame che univa FICANO FRANCESCA e “GIOVANNELLO” GRECO, notoriamente coinvolto in un grosso giro di mafia, e di avere esternato al fidanzato le sue preoccupazioni dopo la uccisione di altri parenti del primo, ma aveva ricevuto dal detto FICANO assicurazioni sulla estraneità sua e della famiglia ai fatti che vedevano coinvolti i citati GRECO.

Detto per inciso, GRECO EVELINA non risultava essere in alcun modo collegata con le famiglie GRECO che interessano il presente procedimento penale.

IL RACCONTO DELLA VEDOVA Veniva di nuovo sentita CALABRESE ROSA la quale, oltre a riferire di essere a conoscenza delle disavventure della figlia e di “GIOVANNELLO” GRECO, culminate con il loro arresto in Svizzera, aggiungeva che questa, posta in libertà dopo un breve periodo di detenzione, era tornata a Palermo ove era rimasta ospite dei suoi futuri suoceri.

Sull’ultima giornata dei suoi congiunti, riferiva di aver pranzato, insieme con il marito, presso il cognato FICANO UMBERTO il quale li tratteneva anche a cena, mentre il figlio MICHELE aveva trascorso quasi tutto il giorno con la fidanzata GRECO EVELINA.

Aveva avvisato il figlio che la Fiat 127 del padre, forse a causa della pioggia, non si metteva in moto per cui era necessaria la sua presenza per far ritorno a casa con l’altra auto, la Ritmo in suo possesso.

Il figlio, poco dopo, giungeva nella abitazione dello zio e provvedeva a far ripartire la Fiat 127 e, cosi’, mentre il marito si poneva alla guida della predetta auto, lei prendeva posto a bordo della Fiat Ritmo condotta dal primo.

Riferiva, altresì, che, raggiunta l’area condominiale dello stabile ove era ubicato l’appartamento, aveva udito ripetute deflagrazioni subito attribuite a colpi di arma di fuoco e, d’istinto, abbracciava il figlio per proteggerlo.

Scesa dalla vettura per chiedere aiuto al marito che si trovava dietro e che stava effettuando la manovra di parcheggio, doveva constatare che anche questi aveva subito la stessa sorte.

Non aveva notato i killers, data l’oscurità e il loro precipitoso allontanamento, ma ricollegava il duplice omicidio alla “parentela” con GIOVANNELLO GRECO, nonché agli omicidi di GRECO SALVATORE, CINA’ GIACOMO, MARCHESE PIETRO e SPICA ANTONINO.

Gli inquirenti ribadivano, quindi, il convincimento che la duplice esecuzione fosse da ricollegare alla strategia della “terra bruciata” cui prima si accennava, anche alla luce dei concomitanti avvenimenti culminati, quella stessa sera del 26 dicembre, nel triplice omicidio di GENOVA GIUSEPPE, D’AMICO ANTONINO e D’AMICO ORAZIO – genero, il primo, di TOMMASO BUSCETTA per averne sposato la figlia FELICIA -, nonché nel duplice omicidio di BUSCETTA VINCENZO e BUSCETTA ANTONINO, avutosi il successivo giorno 29 dicembre.

Ed, infatti, essendosi recato “GIOVANNELLO” GRECO in precedenza in Brasile, si poteva ipotizzare, in quei giorni di Natale, un rientro a Palermo sia di questi, sia di TOMMASO BUSCETTA con il quale il primo poteva essere in contatto, stante, appunto, quella trasferta brasiliana.

Il rilevante numero di omicidii avutisi proprio nel 1982 tra i congiunti ed amici e di “GIOVANNELLO” GRECO e di TOMMASO BUSCETTA, non ha consentito, per ragioni di sistemazione cronologica degli eventi, una trattazione contestuale degli stessi.

Un accorpamento, sulla base delle acquisizioni testimoniali, può essere operato in relazione agli omicidi dei FICANO e dei fratelli AMODEO, PAOLO e GIOVANNI, dovendosi ricercare la causale degli stessi nei legami di parentela e di amicizia che univa le vittime a “GIOVANNELLO” GRECO.

LA VENDETTA DEI GRECO DI CIACULLI Prima di passare ad esaminare le modalità delle esecuzioni degli AMODEO, sarà necessario riferire quanto dichiarato da CALZETTA STAFANO sui FICANO.

Sin dalle sue prime dichiarazioni, parlando degli omicidi seguiti a quello di STEFANO BONTATE il CALZETTA elencava le vittime e tra queste poneva “i FICANO padre e figlio uccisi in via Salvatore Cappello come ritorsione per il tentativo in danno di qualcuno dei GRECO, credo PINO GRECO, da parte di GIOVANNELLO GRECO…”.

Successivamente, parlando delle varie famiglie mafiose, aggiungeva significanti particolari su quanto avvenuto quel Natale del 1982.

“[…] Aspettai per quasi un’ora fintanto che non mi raggiunse ONOFRIO ZANCA. Gli chiesi che cosa fosse successo ed egli, che era visibilmente seccato, non mi rispose; insistetti ulteriormente ed egli mi rispose testualmente: “ci fu tufiata ai Ciaculli”, il che equivale a: “hanno sparato ai Ciaculli”. Chiesi altre spiegazioni ed ONOFRIO ZANCA mi disse: “vittiru a GIUVANNELLO GRECO cu l’AMERICANU”.

Dalle scarne delucidazioni che ONOFRIO ZANCA mi diede capii che GIOVANNELLO GRECO insieme all’AMERICANO erano andati ai Ciaculli per dare il cattivo Natale ai GRECO. L’AMERICANO è un individuo di circa 40-45 anni, quasi calvo, bassino, magro, brutto in viso che, prima che scoppiasse la guerra tra le famiglie mafiose, commerciava con gli stupefacenti con PATRICOLA STEFANO e MATRANGA GIOVANNI. Questo era chiamato l’AMERICANO perché aveva vissuto per alcuni anni negli Stati Uniti e si era allontanato da Palermo, come STEFANO PATRICOLA, perché faceva parte del clan BONTATE.

Queste notizie, sia pure scarse, le ricevetti grazie ai particolari rapporti amichevoli che avevo con ONOFRIO ZANCA, ma mai mi sarei sognato di fare tali domande a CARMELO ZANCA, il quale essendo il capo della “famiglia” non mi dava alcuna confidenza.

Quella stessa sera, ad ora molto tarda, uccisero i FICANO padre e figlio, rispettivamente padre e fratello della ragazza che era fuggita con GIOVANNELLO GRECO.

Compresi immediatamente che tale duplice omicidio era stata la risposta dei GRECO di Ciaculli alla sparatoria che GIOVANNELLO GRECO e l’AMERICANO avevano fatto la mattina del 25 dicembre 1982.

Io non so a chi GIOVANNELLO GRECO e l’AMERICANO hanno sparato, ma sono certo che si trattasse di qualcuno dei GRECO”.

“Ricordo che nei giorni successivi gli ZANCA erano piuttosto guardinghi ed evitavano di uscire la sera affermando che erano tempi brutti. Solo ultimamente li ho visti più tranquilli.

Ho appreso successivamente a tale episodio che la persona da me indicata come l’AMERICANO è stata uccisa negli Stati Uniti, all’incirca un mese e mezzo o due mesi addietro. Ho appreso altresì che la salma è stata trasportata dagli Stati Uniti a Palermo.

So pure che, lo stesso giorno di Natale, è scomparso un giovane abitante a Ciaculli, il cui fratello a nome ANGELO, abitante in Corso Dei Mille nell’edificio costruito da CAPITUMMINO FILIPPO, lavora in un deposito di ferro vecchio ubicato in via Macello. Non so quali siano le cause di questa scomparsa, ma mi sembra significativo che sia avvenuto nello stesso giorno della sparatoria ai Ciaculli”.

[…] A questo punto, riprendendo in esame l’ipotesi avanzata dagli inquirenti circa la probabile connessione tra gli omicidi del 26-29 dicembre e un rientro a Palermo di GIOVANNELLO GRECO e TOMMASO BUSCETTA, è opportuno ricordare quanto riferito da quest’ultimo sul punto: “…… faccio presente che il BADALAMENTI mi disse che il giorno prima dell’uccisione di mio genero, GENOVA GIUSEPPE, vi era stato un tentativo di uccidere PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” ai Ciaculli e che tale tentativo non era andato a buon fine; a questo punto, mi resi subito conto che tale attentato era collegato con la ritorsione nei confronti dei miei familiari, per cui contestai al BADALAMENTI di essere stato incauto nel chiamarmi in causa, facendolo sapere all’esterno, in vicende cui volevo rimanere estraneo”.

Il BUSCETTA – che ha sempre negato qualsiasi collegamento con GIOVANNELLO GRECO, nonché qualsiasi suo coinvolgimento in tentativi di “riscossa” quale, appunto, il tentato omicidio di “SCARPUZZEDDA” – confermava, per averlo appreso dal BADALAMENTI, la sparatoria ai Ciaculli del 25 dicembre.

[…] Orbene queste dichiarazioni del BUSCETTA costituiscono un ulteriore formidabile riscontro della veridicità delle affermazioni di STEFANO CALZETTA in relazione alla “tufiata” e, conseguentemente, al movente degli omicidi dei FICANO, dei D’AMICO, di GENOVA GIUSEPPE: non a caso, infatti, l’unico autore dell’attentato a “SCARPUZZEDDA” raggiunto dai killers era il ROMANO al quale non risultava utile nemmeno la fuga negli U.S.A. e che veniva soppresso proprio mentre era in compagnia di un fedele amico di TOMMASO BUSCETTA.

SI UCCIDE ANCHE IL 27 DICEMBRE Esaminato quanto emerso dal rapporto dei carabinieri e dalle dichiarazioni di CALZETTA STEFANO in merito alla soppressione dei FICANO, prima di vagliare criticamente le ipotesi accusatorie formulate dagli inquirenti, si procederà adesso all’esposizione delle circostanze della soppressione dei fratelli AMODEO e ad analizzare le testimonianze dei congiunti degli stessi per rilevare i nessi logici e probatori che legano tutti questi omicidi.

Il 27 dicembre 1982, verso le ore 10,30, agenti della Squadra Mobile si recavano in via Butera 44 ove era stato segnalato un omicidio, e, effettivamente, all’interno della salumeria contraddistinta da quel numero civico, trovavano il corpo esanime di un uomo colpito alla testa da numerosi colpi di arma da fuoco.

La vittima veniva identificata per AMODEO PAOLO e dal figlio della stessa, AMODEO GAETANO, che aveva assistito all’omicidio, si apprendeva che quest’ultimo alle ore 10,30, mentre era nel negozio del padre, aveva notato una fiat 131 di colore celeste con tre persone a bordo fermarsi poco più avanti. Delle tre, una rimaneva alla guida con il motore acceso, mentre altre due si avviavano verso la salumeria. Trattavasi, sempre secondo l’AMODEO, di due giovani di circa 20-25 anni, alti e snelli, con capelli scuri e corti, uno dei quali aveva un pantalone marrone ed un maglione, mentre l’altro aveva un giubbotto di renna marrone e si copriva un po’ il viso con una sciarpa.

Quest’ultimo faceva immediatamente fuoco sul padre, mentre il primo rimaneva sulla soglia della porta per poi fuggire insieme all’altro dopo aver ripreso posto sull’autovettura condotta dal terzo complice.

L’AMODEO riferiva, altresì, che negli ultimi tempi non aveva notato nulla di anormale nel padre, né sapeva di minacce dallo stesso ricevute.

[…] CROCE DOMENICO, firmatario di alcuni effetti cambiari trovati addosso al morto, riferiva di aver contratto un debito con l’AMODEO avendo da lui acquistato una auto, debito che stava saldando un po’ alla volta per sue difficoltà economiche.

Detto per inciso, CROCE DOMENICO – imputato in questo procedimento penale a seguito dell’emissione del mandato di cattura n.323/84 – risulta essere figlioccio di GRECO FERRARA SALVATORE “IL SENATORE”.

Poiché dalle indagini era emersa la amicizia tra la famiglia di AMODEO PAOLO e quella di GRECO SALVATORE – padre di GIOVANNELLO GRECO – veniva sentita nuovamente BONANNO SANTA e questa – confidenzialmente – riferiva che proprio la amicizia con GIOVANNELLO GRECO era stata la causa della morte del marito e del fratello di questi – AMODEO GIOVANNI – ucciso il successivo 16.3.83.

Dette dichiarazioni confidenziali la BONANNO, ovviamente, le rendeva in un secondo tempo e, cioè, dopo l’uccisione del cognato: il rapporto giudiziario relativo alla morte di AMODEO PAOLO, infatti, porta la data del 6 ottobre 1983.

Come già accennato, il 16 marzo 1983 veniva ucciso AMODEO GIOVANNI all’interno della salumeria di via Garibaldi 78 dallo stesso gestita.

Il figlio della vittima – AMODEO VINCENZO – si trovava nell’esercizio al momento del delitto per esservisi recato verso le ore 8, insieme con la madre e col padre. […] Verso le 9,30, mentre si trovavano tutti all’interno del negozio, improvvisamente udiva diversi colpi di arma da fuoco e notava un individuo che impugnava una pistola. Cercava di bloccarlo e riusciva a fargli cadere la pistola per terra, ma non poteva impedire che si divincolasse e fuggisse via. Descriveva il killer come un individuo piuttosto mingherlino che indossava una giacca di color marrone.

Precisava che il fucile trovato nel negozio era di sua proprietà e che tutti i giorni si recava in detto esercizio e rimaneva seduto dietro una “barriera” di latte di olio per controllare l’ingresso.

Dette precauzioni erano dovute al fatto che lo zio (PAOLO) era stato ucciso senza alcun motivo il giorno dopo il duplice omicidio dei FICANO, parenti dei GRECO di Ciaculli (SALVATORE e GIOVANNELLO) i quali ultimi erano legati da antica amicizia al proprio genitore.

L’IPOTESI INVESTIGATIVA […] A questo punto è necessario esaminare il perché di tanto accanimento profuso dalle cosche nella ricerca di GIOVANNELLO GRECO.

GIOVANNELLO GRECO era cognato di MARCHESE PIETRO per avere questo ultimo sposato la sorella ROSARIA, mentre detto MARCHESE era anche cognato di MARCHESE FILIPPO, per averne questi sposato la sorella.

I due – MARCHESE PIETRO e GIOVANNELLO GRECO – erano gli uomini di punta della nuova generazione all’interno della cosca di Ciaculli – Croceverde Giardini e, nella ricerca di nuovi spazi di potere, erano passati dalla parte di STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO.

Il 12 giugno 81, a Zurigo, la polizia svizzera arrestava MARCHESE PIETRO, la moglie GRECO ROSARIA, il fratello di questa GIOVANNELLO GRECO, FICANO FRANCESCA convivente di quest’ultimo, nonché SPICA ANTONIO figlioccio del MARCHESE, trovati tutti in possesso di documenti di identità falsi mentre tentavano di raggiungere in aereo il Brasile.

Il gruppo portava con sé anche la somma di lire 120.000.000 in banconote italiane, marchi tedeschi, dollari degli Stati Uniti ed altra valuta. Si accertava che parte delle banconote italiane provenivano dal riscatto pagato per il sequestro SUSINI, mentre poche altre banconote provenivano dal riscatto pagato per il sequestro ARMELLINI.

Lo SPICA riusciva ad evadere, ma veniva subito ripreso e, poco dopo, con il MARCHESE ed il GRECO, veniva estradato in Italia.

[…] Di ciò si è detto a proposito dell’omicidio dello SPICA, ma l’accenno a questi fatti serve a mostrare come spietata fosse la caccia ai traditori PIETRO MARCHESE e GIOVANNELLO GRECO. Ed, invero, il concomitante tentativo di fuga in Brasile sicuramente accomunava i tre giovani anche nelle ragioni di quella stessa fuga da Palermo e dall’Italia, ragioni che potevano essere ricercate anche nella eliminazione, poche settimane prima del giugno 81, dei capi mafia STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO.

La “ipotesi” del collegamento tra i tre giovani ed i bosses soppressi, avanzata dagli inquirenti con il citato rapporto del 13 luglio 82 (nel quale, appunto, si evidenziava come il BONTATE e l’INZERILLO avessero progettato la eliminazione dei bosses di Ciaculli e di Corleone cercando, ed ottenendo, l’aiuto di PIETRO MARCHESE e GIOVANNELLO GRECO), veniva indirettamente confermata da TOMMASO BUSCETTA, il quale era a conoscenza del “progetto”, ma non dei dettagli operativi che sicuramente includevano la utilizzazione dei due “traditori”.

[…] La “caccia” a PIETRO MARCHESE si doveva concludere nel carcere di Palermo ove questi veniva ucciso a coltellate, come pure, in modo cruento, si doveva concludere la caccia allo SPICA, al suo amico romano e a tanti altri di cui si è detto o si dirà.

Solo GIOVANNELLO GRECO riusciva a sottrarsi ai suoi inseguitori e, ottenuta la liberta’ provvisoria, si dileguava nel nulla.

Chiara, quindi, la necessita’ di trovarlo ad ogni costo e di impedirgli, comunque, un qualsiasi appoggio logistico nel caso fosse tornato a Palermo: per conseguire ciò, venivano trucidati il padre, GRECO SALVATORE, gli zii CINA’ GIACOMO e PESCO VINCENZO, i FICANO e gli AMODEO.

La lucida e dettagliata descrizione di quel Natale del 1982 fatta da STEFANO CALZETTA evidenzia come GIOVANNELLO GRECO fosse tornato a Palermo – insieme con ROMANO GIUSEPPE “L’AMERICANO” – per un disperato tentativo di eliminare PINO GRECO (SCARPUZZEDDA).

A seguito della “tufiata” vi era stata una immediata reazione delle cosche avversarie che individuavano proprio in GIOVANNELLO GRECO ed in TOMMASO BUSCETTA l’esecutore (il primo) ed il mandante (il secondo) dell’attentato. […] La sequenza degli omicidi è chiaramente indicativa del citato convincimento: 26 dicembre 82, vengono uccisi FICANO GASPARE e MICHELE, nonché GENOVA GIUSEPPE, D’AMICO ANTONIO e D’AMICO ORAZIO, rispettivamente genero e nipoti di TOMMASO BUSCETTA; 27 dicembre 82, viene ucciso AMODEO PAOLO, ritenuto amico di famiglia di GIOVANNELLO GRECO; 29 dicembre 82, vengono uccisi BUSCETTA VINCENZO e BUSCETTA BENEDETTO, rispettivamente fratello e nipote di TOMMASO BUSCETTA; 8 febbraio 83, a Fort Lauderdale (Florida), vengono uccisi ROMANO GIUSEPPE “L’AMERICANO” e il suo amico, nonché amico di TOMMASO BUSCETTA, TRAMONTANA GIUSEPPE; 16 marzo 83, viene ucciso AMODEO GIOVANNI, amico di famiglia di GIOVANNELLO GRECO.

Il nesso logico che lega questi omicidi è, dunque, chiaramente rinvenibile nella deliberata – ed attuata – strategia di soppressione degli amici e dei congiunti dei “traditori” e degli avversari, strategia della quale i FICANO e gli AMODEO erano consapevoli, come emerge dalla citata testimonianza di AMODEO VINCENZO. […]. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo 29 marzo 2021 A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA



ANTONIO SALAMONE E IL PIANO PER UCCIDERE BUSCETTA IN BRASILE 
Antonio Salamone era il capo della famiglia di San Giuseppe Jato, mentre il reggente della stessa era Bernardo Brusca. Proprio il Brusca era diventato estremamente potente mentre il vecchio capo si trovava in Brasile. Oltreoceano, agli inizi del 1982, si trovavano anche Tommaso Buscetta e Geatano Badalamenti. E fu allora che i “Corleonesi” pensarono di far eliminare Don Masino   

[…] L’allontanamento del BUSCETTA dall’Italia nel gennaio del 1981, con il viaggio in Brasile preceduto da un pranzo offerto in suo onore da STEFANO BONTATE ed al quale aveva partecipato anche il SALAMONE, aveva convinto i corleonesi della volontaria autoemarginazione dello stesso dalla lotta in corso per l’egemonia di “Cosa Nostra”.

Non a caso per oltre un anno dall’omicidio del BONTATE e nonostante i saldi vincoli di amicizia che legavano la vittima a TOMMASO BUSCETTA, nessuna azione delittuosa era stata intrapresa nei confronti dei di lui familiari rimasti a Palermo.

Il BUSCETTA, infatti, si era mantenuto rigorosamente estraneo alla contesa nonostante i pressanti inviti rivolti a lui anche dai SALVO, per il tramite di IGNAZIO LO PRESTI, di tornare per accertare quanto stava accadendo.

GAETANO BADALAMENTI, però, sempre fermo nel suo desiderio di rivincita, si era a sua volta recato in Brasile per tentare di convincere il BUSCETTA a tornare a Palermo per capeggiare i perdenti: tale sua intenzione era ben conosciuta all’interno di “Cosa Nostra” tanto che il SALAMONE, residente in Brasile, era già informato del prossimo arrivo del BADALAMENTI e dei suoi bellicosi propositi.

Lo stesso BUSCETTA, infatti, ha ipotizzato che il BADALAMENTI aveva tutto l’interesse a far sapere che lui era dalla sua parte, proprio perché ciò poteva rivelarsi un elemento di fiducia in più negli avversari dei corleonesi e li poteva spingere a concretizzare ipotesi di riscossa.

Ed, infatti, a meno di un mese dall’arrivo del BADALAMENTI in Brasile, si determinava il primo, gravissimo, episodio di ritorsione nei confronti del BUSCETTA con la soppressione dei suoi due figli.

A ciò, inoltre, si aggiungeva l’ideazione di un piano teso alla soppressione del BUSCETTA stesso, da affidare, come si vedrà, allo stesso SALAMONE che, residente in Brasile, era in grado di portarlo a termine.

Nel corso delle indagini effettuate a carico della organizzazione criminosa denunciata con il rapporto del 7.2.83 a carico di BONO GIUSEPPE + 159, venivano intercettate conversazioni telefoniche inerenti ad un grave, ed allora incomprensibile problema, a seguito del quale SALAMONE ANTONIO decideva di lasciare il Brasile e tornare in Italia ove raggiungeva il comune di Sacile, sede del soggiorno obbligato assegnatogli dal Tribunale di Palermo.

[…] Si rilevano i seguenti punti di interesse per l’episodio cui sopra si accennava.

SALAMONE ANTONIO è sempre stato il capo della “famiglia” di S. Giuseppe Jato ed il reggente della stessa è BERNARDO BRUSCA.

Della stessa “famiglia” fanno parte BONO ALFREDO, GANCI GIUSEPPE, SALAMONE NICOLO’ (fratello di ANTONINO), ENEA SALVATORE (“ROBERTO”), ENEA ANTONINO.

C’È UN “PROBLEMA” A SAN GIUSEPPE JATO Il 21 maggio 82 viene intercettata una telefonata tra BONO ALFREDO e SALAMONE ANTONIO e dalla stessa si evince che vi è un problema di contrasti all’interno della “famiglia” di S. Giuseppe Jato riguardante proprio il SALAMONE e generato da un personaggio che viene chiamato “Il GROSSO”.

Proprio in ordine a tale problema, ALFREDO BONO si era recato a parlarne a Palermo con un personaggio con ruolo di preminenza in seno all’organizzazione, il quale ultimo aveva preannunciato come “il problema” sarebbe stato posto in discussione il successivo giovedì, riservandosi di dare un giudizio definitivo dopo essersi consultato anche con il proprio “COMPARE”. È intuitivo che il BONO, essendosi recato a Palermo per parlare di tale “problema” insorto all’interno della “famiglia” con un personaggio importante, doveva aver parlato con BERNARDO BRUSCA, il vice. Ciò, comunque, è confermato dalla conversazione del 20 luglio 82, nel corso della quale SALAMONE ANTONIO e suo fratello NICOLO’, parlando del personaggio indicato dal BONO, lo chiamano con il suo nome e, cioè, “BERNARDO”.

Sempre dalla stessa telefonata del 21 maggio citata, si evince che SALAMONE ANTONIO e BONO ALFREDO si erano da poco incontrati in una riunione tenutasi a Parigi, alla quale aveva partecipato anche SALAMONE NICOLO’ e nel corso della quale si era discusso di dicerie messe in bocca ad ANTONIO SALAMONE da terza persona e dalla stessa riferite al BRUSCA.

Coinvolto in tale discussione era anche un personaggio soprannominato “IL GROSSO” e, cioè, GANCI GIUSEPPE, così indicato perché corpulento.

Che si tratti del GANCI, oltre a ciò, si evince dal fatto che, sempre nel corso di detta conversazione telefonica, lo stesso viene indicato come “PINUZZU”.

[…] È, quindi, verosimile supporre che a tale riunione fosse stato presente anche il GANCI.

Individuato nel “GROSSO” GANCI “PINUZZU” e nel personaggio importante il BRUSCA, è facile comprendere come il “COMPARE” di quest’ultimo, cui lo stesso doveva rivolgersi per consiglio dopo la riunione del “consiglio di amministrazione” (e, cioè, della “famiglia”) altri non sia se non SALVATORE RIINA, potente reggente della “famiglia” di Corleone i cui rapporti con il BRUSCA sono stati ampiamente illustrati dal BUSCETTA.

Il 25 giugno 82 ALFREDO BONO chiama NICOLO’ SALAMONE e gli chiede notizie del fratello ANTONINO e questi lo mette al corrente dell’intenzione di venire in Europa il 15 o il 20 luglio e, quindi, senza fargliene il nome, lo informa di essersi recato dal BRUSCA il giorno prima e di averlo rassicurato circa la disponibilità del BONO a mettersi a sua disposizione in qualsiasi momento.

[…] Da altre telefonate intercettate si evince che la riunione di alcuni membri della “famiglia” si doveva tenere a Parigi il 14 luglio ed alla stessa dovevano partecipare ALFREDO BONO e SALAMONE NICOLO’, mentre PIETRO SALAMONE e FRANCESCO DI MATTEO avrebbero dovuto raggiungere, in un secondo momento, ANTONIO SALAMONE in Svizzera.

Al rientro in Italia, NICOLO’ SALAMONE, il 20 luglio, telefona al fratello e gli fa un ampio resoconto sulla situazione relativa al “problema” in argomento, riferendogli delle conversazioni avute con BERNARDO BRUSCA e con GIUSEPPE BONO (fratello di ALFREDO e capo della “famiglia” di Bolognetta).

Da tale conversazione telefonica poteva arguirsi che:

– Il “COMPARE” di ANTONIO SALAMONE si era incontrato ad un matrimonio con GANCI GIUSEPPE e, nell’occasione, uno dei due aveva raccontato all’altro la storia relativa ai SALAMONE;

– Dopo alcuni giorni il “COMPARE” aveva telefonato ad ANTONIO “come per fargli le condoglianze” e gli aveva riferito il contenuto della conversazione avuta con GANCI;

– SALAMONE ANTONIO aveva risposto al “COMPARE” di non sapere nulla di ciò che gli stava raccontando e che, avendo avuto bisogno, si era rivolto allo stesso GANCI il quale, invece di aiutarlo, gli aveva dato bastonate;

– A raccontare tutta la vicenda al BRUSCA sarebbe stato proprio GANCI, il quale aveva divulgato false notizie sul loro conto, come quella di aver espulso dall’organizzazione, arbitrariamente, delle persone;

– Secondo il BRUSCA, per ridimensionare la vicenda, era necessario che SALAMONE ANTONIO lasciasse il Brasile e che in questo paese venisse condotta a termine una non meglio specificata azione delittuosa contro una non meglio indicata persona;

– SALAMONE NICOLO’ si era messo a disposizione del BRUSCA, promettendogli di essere pronto ad agire in qualsiasi momento anche a costo della vita;

– All’azione in Brasile avrebbe dovuto partecipare anche BONO ALFREDO; comunque, PIPPO BONO non credeva il SALAMONE responsabile dei fatti attribuitigli dal GANCI;

– Secondo i due fratelli SALAMONE, il vero responsabile di tutta questa vicenda era BERNARDO BRUSCA, anche perché nessuno più di lui era interessato all’allontanamento del SALAMONE dall’organizzazione. Da altre telefonate intercettate il 30 luglio ed il 3 agosto si evince che la situazione per il SALAMONE era peggiorata e che, secondo SALAMONE NICOLO’, si rendeva necessario compiere quella azione delittuosa in Brasile, azione per la quale anche “PINE’” GRECO “SCARPUZZEDDA” avrebbe fornito dei “picciotti”.

I BRUSCA VOGLIONO PRENDERSI LA “FAMIGLIA” ANTONIO SALAMONE, tra l’altro, si dimostrava molto preoccupato del BRUSCA e raccomandava ai suoi accoliti (congiunti e BONO) di venire in Brasile e di rendere visita al BRUSCA ed ai GRECO prima di far ciò, sempre per non destare ulteriori sospetti in questi.

Il 31 agosto, in particolare, ANTONIO SALAMONE, conversando con il figlio PIETRO chiede dei cugini ed il figlio gli risponde che questi non sono facilmente rintracciabili anche perché non uscivano più di casa ed, anzi, si accingevano a riparare altrove.

Il 2 settembre 82 NICOLO’ SALAMONE informa il fratello di aver parlato il giorno prima con il BRUSCA e di averlo trovato irremovibile circa la sua decisione che all’azione delittuosa in Brasile partecipasse lo stesso ANTONIO SALAMONE.

Lo informa anche di aver preso tempo con il BRUSCA e di averlo assicurato della fattiva partecipazione di ANTONIO il quale, però, a sua volta, faceva presente la difficoltà di localizzare la persona oggetto dell’azione delittuosa.

Il 28 settembre ANTONIO SALAMONE, che si era recato a Parigi, da lì partiva per Los Angeles dove incontrava MICHELE ZAZA che vi si era recato il 25.

Il 29 settembre il SALAMONE, mentre è con lo ZAZA, telefona al fratello NICOLO’ e gli chiede novità del BRUSCA. NICOLO’ gli riferisce che il BRUSCA si era calmato e che, “cornuto com’è” gli aveva inviato anche tanti saluti.

Nella circostanza, il BRUSCA era in compagnia del “CORTO” (così è inteso RIINA SALVATORE).

Il 6 ottobre ANTONIO SALAMONE telefona ad ALFREDO BONO e questi gli dice di essersi recato dal BRUSCA il quale si era mostrato disposto ad accettare i loro piani per l’operazione in Brasile, a patto che vi partecipasse lo stesso SALAMONE.

Il BRUSCA, comunque, avrebbe informato del fatto anche il suo “COMPARE” (TOTO’ RIINA), BONO GIUSEPPE, i “PARENTI” (i GRECO) in modo che, in seguito, nessuno avrebbe avuto modo di ridire ed, anzi, avrebbe loro chiesto anche qualche “picciotto” da inviare in Brasile per aiutarli nella ricerca del personaggio da sopprimere.

Il 13 ottobre SALAMONE ANTONIO richiama BONO ALFREDO per informarsi sugli umori del BRUSCA e il BONO gli dice di essere in attesa di sue disposizioni per poi recarsi dal BRUSCA per chiedere i “picciotti” da portare in Brasile. Il SALAMONE gli risponde che, una volta rientrato in Brasile, organizzerà i supporti logistici alla spedizione e, quindi, lascerà quel paese.

Subito dopo il BONO telefona a SALAMONE NICOLO’ e gli riferisce della precedente telefonata avuta con il fratello, invitandolo a mettersi in contatto con il BRUSCA per la faccenda dei “picciotti.

Il SALAMONE gli fa presente che, per il momento, era impossibile incontrare il BRUSCA in quanto lo stesso stava vendemmiando. Il BONO, quindi, gli chiede se fosse possibile incontrare “L’ALTRO” che, spiega, è “PINE’” (“SCARPUZZEDDA”) e non “IL CORTO” (RIINA) come aveva inteso il SALAMONE”. Quest’ultimo, chiarito l’equivoco, riferisce al BONO di aver incontrato due giorni prima il “PINE’”, ma di non avergli parlato dei “picciotti” in quanto non aveva avuto ancora disposizioni.

Il 16 ottobre ENEA ANTONINO telefona a BONO GIUSEPPE e lo informa che a Palermo sono venuti in possesso della documentazione scritta in lingua straniera.

Il giorno successivo SALAMONE NICOLO’ telefona al fratello ANTONIO e dal tenore della conversazione si evince che il primo ha ricevuto da GANCI GIUSEPPE (“U BUFALUTU”) la relazione relativa a servizi di sorveglianza svolti nei confronti loro della D.E.A.: NICOLO’ prega ANTONIO di mettersi in contatto con il GANCI per saperne di più. Sempre lo stesso giorno SALAMONE ANTONIO torna sull’argomento con BONO ALFREDO e dalla conversazione si arguisce che il primo sospetta della “spiata” alla D.E.A. una persona residente negli Stati Uniti e vicina al GANCI e che il primo, qualche giorno prima, aveva parlato con il GANCI (il cornuto di BUFFALO) il quale gli aveva preannunciato di aver inviato a NICOLO’ il documento, mentre il SALAMONE ANTONIO aveva, con tono minaccioso, manifestato la sua intenzione di recarsi dal GANCI per farsi raccontare tutta la verità sui fatti.

Il 24.10.82 in Palermo venivano tratti in arresto BONO ALFREDO, CRISTOFALO MATTEO e DI MATTEO FRANCESCO. In locali di pertinenza di quest’ultimo veniva rinvenuto la traduzione in lingua italiana di un rapporto di servizio della D.E.A. concernente la sorveglianza svolta nei confronti dei SALAMONE nel mese di luglio.

Il successivo giorno 25 ANTONIO SALAMONE faceva rientro in Italia e si presentava nel comune ove doveva scontare la misura del soggiorno obbligato.

Tutta questa storia è, per molti versi, emblematica ed offre molti riscontri a quanto si è detto sulla organizzazione mafiosa e la sua struttura in generale e su alcune vicende in particolare.

È, in primo luogo, dimostrato come saldi siano i vincoli con il capo della famiglia (nella specie, il SALAMONE) anche quando questi si trovi in paesi lontanissimi, […].

Vi è, poi, la dimostrazione delle “trame” dei corleonesi per imporre la propria egemonia: il SALAMONE, scomodo capo famiglia, deve essere in qualche modo “spodestato” per far posto al fido alleato BRUSCA.

Ciò si ottiene proprio mettendolo in disgrazia presso i suoi con false accuse, pretendendo, poi, come dimostrazione di “lealtà”, che organizzi e partecipi direttamente alla eliminazione fisica di un “personaggio” residente in Brasile.

[…] Il terrore che incutono i corleonesi tramite il BRUSCA è, anch’esso, senza limiti “spaziali” tanto che il SALAMONE deve costantemente raccomandare ai suoi di informare puntualmente il BRUSCA dei loro movimenti e delle loro partenze, sì da non destare sospetti: i cugini del SALAMONE, comunque, già non escono da casa e si apprestano a rifugiarsi altrove.

L’uomo da eliminare in Brasile è un personaggio molto importante, tanto che, per l’agguato, sono pronti a partire i “picciotti” da Palermo.

L’organizzazione, poi, è anche in grado di entrare in possesso di documenti della D.E.A.

Ed anche ciò, molto probabilmente, convince il SALAMONE a sentirsi ormai “venduto” dai suoi, tanto da ritenere che responsabile della “soffiata” sia un personaggio vicino al GANCI.

Siamo nel maggio-ottobre del 1982 e, visto l’inizio della operazione “TERRA BRUCIATA” che in Palermo proprio nel settembre è iniziata nei confronti del BUSCETTA con la soppressione dei suoi figli BENEDETTO e ANTONINO, non si può non ritenere che il “personaggio” da eliminare in Brasile sia proprio TOMMASO BUSCETTA il quale, così, viene aggredito da più lati: quello familiare e quello personale. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 28 marzo 2021


CACCIA GROSSA A GIOVANNELLO GRECO, IL CAPO DEGLI “SCAPPATI” DI PALERMO I Corleonesi compiono una serie di omicidi per arrivare a Giovannello Greco. Perché era ritenuto un mafioso capace di riorganizzare una controffensiva contro i “vincenti”

Si è creduto opportuno raggruppare alcuni degli omicidi consumati dalle cosche mafiose al fine di fare “terra bruciata” intorno a GIOVANNI GRECO detto “GIOVANNELLO”, per meglio evidenziare il nesso logico che, ispirato al citato fine perseguito dai suoi nemici, li lega.

Dopo aver trattato degli omicidi di GRECO SALVATORE, di CINA’ GIACOMO e PESCO VINCENZO, rispettivamente padre e zii del predetto, ci si occuperà degli omicidi di FICANO GASPARE e FICANO MICHELE, rispettivamente padre e fratello di FICANO FRANCESCA, convivente di GIOVANNELLO GRECO, nonché dei fratelli AMODEO, PAOLO e GIOVANNI, amici e dei GRECO e dei FICANO.

La figura di GIOVANNELLO GRECO, per evitare inutili ripetizioni, verrà brevemente tratteggiata in occasione di questo secondo gruppo di omicidi proprio per l’importanza che FICANO FRANCESCA ha avuto nelle varie “traversie” dello stesso.

Non si insisterà qui nel sottolineare come questi omicidi siano tutti collegati alla necessità di stanare GIOVANNELLO GRECO o, quantomeno, impedirgli qualsiasi possibilità di rientro a Palermo e trovare in questa città un qualche supporto logistico, dato che lo stesso era ritenuto un elemento capace di riorganizzare una controffensiva con grande pericolo per i “vincenti” come dimostra il tentato omicidio di “SCARPUZZEDDA”.

Basterà ripercorrere solo la cadenza cronologica degli omicidi stessi per avere una ulteriore conferma di quanto detto:

  • Il 21 luglio veniva ucciso GRECO SALVATORE, il padre;
  • Il successivo 24 luglio 82 veniva ucciso CINA’ GIACOMO, lo zio materno, fratello della madre CINA’ ANTONINA;
  • Il 26 dicembre 82 venivano uccisi FICANO GASPARE e FICANO MICHELE, rispettivamente padre e fratello della convivente FICANO FRANCESCA;
  • Il successivo 27 dicembre veniva ucciso AMODEO PAOLO, ritenuto amico della famiglia GRECO;
  • Il giorno 8 febbraio 83, negli USA a Fort Lauderdale venivano uccisi ROMANO GIUSEPPE amico di GIOVANNELLO e suo complice nel tentato omicidio di PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” in Palermo il 25 dicembre 1982, nonché TRAMONTANA GIUSEPPE, amico del ROMANO;
  • Il 16 marzo 83 veniva ucciso AMODEO GIOVANNI, amico delle famiglie GRECO e FICANO;
  • Il successivo 17 marzo veniva ucciso PESCO VINCENZO, zio di GIOVANNELLO GRECO in quanto fratello di PESCO ROSARIA coniugata con il nonno dello stesso, GRECO GIOVANNI.

UN CLIMA DI TERRORE Tornando ai singoli omicidi si rileva che il 21 luglio 82 riparava al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civico di Palermo GRECO ANGELA – sorella di GIOVANNELLO – la quale riferiva di essere stata ferita poco prima da ignoti che avevano ucciso il proprio genitore GRECO SALVATORE.

Portatisi in via Ciaculli 21, gli agenti constatavano che in detta abitazione vi era il cadavere del GRECO, crivellato da numerosi colpi di arma da fuoco.

Qualche minuto dopo sopraggiungeva GRECO GIUSEPPE il quale, nel corso della sparatoria, era stato ferito ad una spalla e si era sottratto con la fuga agli attentatori.

Veniva sentito LA ROSA GIOVANNI – vicino di casa dei GRECO – il quale riferiva che, mentre era nella sua abitazione, aveva sentito chiamare “GRECO, GRECO” e, affacciatosi, aveva visto di spalle tre individui con divise da carabinieri.

Constatato che i tre si dirigevano verso l’abitazione dei GRECO, era rientrato, ma subito dopo aveva udito la esplosione di numerosi colpi di arma da fuoco.

Accertatosi che la sparatoria era cessata, era uscito di nuovo ed aveva notato il cadavere di GRECO SALVATORE. Nulla sapeva dire dei killers in quanto, avendoli scambiati per carabinieri, non li aveva osservati con attenzione.

GRECO ANGELA riferiva che, mentre si trovava nella sala da pranzo e stava per portarsi nel soggiorno, aveva udito colpi di arma da fuoco. Nell’immettersi nel corridoio, veniva attinta al braccio da un colpo e contemporaneamente notava il genitore a terra per cui perdeva i sensi e cadeva.

Precisava che, al momento del fatto, in casa vi erano solo i genitori, una sua sorella, il fratello GIUSEPPE e lei. Non era in grado di riferire ulteriori notizie.

GRECO GIUSEPPE dichiarava che, verso le 20,30, mentre si trovava in casa con le sorelle e i genitori, aveva notato il padre dirigersi verso la porta d’ingresso forse perché qualcuno aveva bussato. Istintivamente lo aveva seguito, ma contemporaneamente aveva udito la esplosione di colpi di arma da fuoco e notato il genitore rotolare a terra. Era stato ferito anche lui e, per timore di essere ucciso, si era dato alla fuga cercando di fermare qualche auto di passaggio per farsi accompagnare al pronto soccorso. Aveva, poi desistito ed era tornato a casa ove aveva trovato la polizia.

CINA’ ANTONINA, moglie di GRECO SALVATORE, riferiva che, la sera del delitto, il marito, avendo sentito bussare alla porta secondaria d’ingresso, si era alzato per andare ad aprire.

Non appena aperto, era stato fatto segno a numerosi colpi di arma da fuoco alcuni dei quali avevano raggiunto anche i figli GIUSEPPE ed ANGELA.

Nulla era in grado di riferire sui killers.

Appena qualche giorno dopo, il successivo 24, nella stessa via Ciaculli, vicino al civico n.78, veniva ucciso CINA’ GIACOMO mentre si trovava nei pressi di una fontanella pubblica.

Tranne il ritrovamento di una autovettura Renault 14 incendiata, gli inquirenti non riuscivano a raccogliere nessuna notizia utile per la ricostruzione della dinamica dell’omicidio.

Gli stessi abitanti del cortile ove detta auto era stata trovata, dichiaravano di non essersi accorti di nulla.

La Renault 14 risultava essere stata sottratta a ARENA FRANCESCO l’8.6.82 e questi aveva prontamente sporto denuncia per il furto.

Nessun elemento utile sapevano indicare CINA’ VINCENZO e CINA’ ANGELA, figli della vittima, mentre PICCIURRO ANTONINA, moglie del defunto, riferiva di avere udito dei colpi mentre era in casa e, affacciatasi, aveva notato a circa 50 metri il corpo senza vita del marito.

Aggiungeva che sia lei che il marito erano andati ai funerali di GRECO SALVATORE e che lo stesso, per l’uccisione del cognato, non aveva manifestato propositi di vendetta, nè timore.

Anche dopo i funerali, si erano recati a casa della famiglia del cognato, ma senza far alcun commento sull’omicidio.

CINA’ ANGELA precisava che al funerale del padre non aveva partecipato nessun figlio maschio.

Tale era, dunque, il clima di terrore da “consigliare” gli stessi figli a non partecipare ai funerali del proprio genitore.

Detto per inciso, gli organi inquirenti non esprimevano alcun dubbio sul movente dei due delitti, dovendosi sicuramente collegare gli stessi alla “caccia” a GIOVANNELLO GRECO.

Il 17 marzo 83 (il precedente giorno 16 era stato ucciso AMODEO GIOVANNI) in corso dei mille, all’interno di una sala di bigliardini, veniva ucciso PESCO VINCENZO.

Gli agenti, accorsi sul luogo verso le ore 15, trovavano il locale deserto, mentre su un tavolo vi era un giornale aperto e un paio di occhiali posati, abbandonati da qualcuno che era andato via.

Alcuni flippers avevano palline non giocate, segno che le partite erano state interrotte da poco da individui che si erano precipitosamente allontanati dal locale.

Si accertava che il locale era gestito da MANCINO GIACOMO il quale, in compagnia del figlio, si presentava dopo circa mezz’ora dal delitto e riferiva di aver chiuso il bigliardo alle ore 13,30 circa per recarsi a mangiare e di aver lasciato all’interno, seduto presso la porta del civico n.86, PESCO VINCENZO.

Dopo aver pranzato era uscito di casa verso le ore 14,15 in compagnia del figlio ALESSANDRO ed aveva fatto ritorno al locale.

Aveva riaperto la porta del civico n.88, era rientrato insieme al figlio e, prese 500 lire, si era diretto con questi alla stazione centrale per acquistare una copia de “L’Ora”.

Con il giornale in mano erano tornati al locale ed, affacciatosi alla porta del civico n.86, aveva visto il PESCO seduto e questi gli aveva chiesto se il giornale aveva pubblicato la foto degli uccisi di Corso Dei Mille.

Era, quindi, andato verso il suo tavolo per leggere il giornale, ma, immediatamente, aveva ricordato di dover effettuare dei pagamenti presso l’Ufficio Postale sito alle spalle di Corso Dei Mille e, sempre in compagnia del figlio, si era recato presso tale ufficio, lasciando il PESCO all’interno del locale.

Tornato, aveva trovato numerose auto della polizia presso il suo locale.

MANCINO ALESSANDRO, pur confermando sostanzialmente i movimenti del padre e i suoi, affermava di non aver visto il PESCO all’interno del locale e di aver acquistato “L’Ora” presso la edicola di via Lincoln, contrariamente al padre, secondo il quale il giornale era stato acquistato presso la edicola della Stazione Centrale.

Tali discordanti dichiarazioni dimostrano che almeno uno dei due si trovava all’interno del locale quando vi avevano fatto irruzione i killers e si era, poi, allontanato per farvi ritorno dopo aver concordato con l’altro una versione dei fatti che lo escludesse come testimone oculare. Tale previo accordo, però, non era stato raggiunto pienamente, dato che i due MANCINO, asseritamente assenti dal locale al momento del delitto, pur avendo fatto gli stessi movimenti, non risultavano aver fatto le stesse cose.

Le dichiarazioni dei MANCINO, però, se pur palesemente reticenti, nulla toglievano alla individuazione del movente del delitto che andava ricercato nella parentela che legava la vittima a GIOVANNELLO GRECO.

Il PESCO, come si è detto, era il cognato di GRECO GIOVANNI, nonno di GIOVANNELLO ed era stato sicuramente soppresso per i motivi già ampiamente illustrati in relazione agli omicidi di GRECO SALVATORE e di CINA’ GIACOMO.

Come dichiarato da GIUFFRE’ DOMENICO – cognato della vittima – il PESCO, vedovo e senza figli, viveva solo ed era pensionato.

Nulla è risultato a carico del predetto circa coinvolgimenti in attività illecite e, quindi, la sua unica pericolosità derivava dal fatto che, vivendo solo, poteva costituire un valido punto di riferimento per il nipote a Palermo.

A ciò si aggiunga che, proprio il giorno prima, era stato ucciso AMODEO GIOVANNI, grande amico della famiglia di GIOVANNELLO GRECO e tale collegamento cronologico tra i due omicidi rafforza la convinzione della identità dei moventi – e dei mandanti – dei due crimini.

SICARI E MANDANTI Ulteriore, imponente, riscontro oggettivo di quanto detto in relazione agli omicidi del PESCO, del GRECO e del CINA’ si è avuto con la relazione di perizia balistica effettuata sui reperti provenienti dalla stragrande maggioranza di omicidi di cui tratta il presente procedimento penale e sulle armi sequestrate ad alcuni imputati.

Nella specie, durante i rilievi tecnici eseguiti dalla Squadra Mobile in merito all’omicidio di CINA’ GIACOMO, in un raggio di un metro dal cadavere venivano rinvenuti molti reperti dei quali utile per la comparazione, risultava un proiettile blindato CAL. 38 SPL. S.P. con 5 righe destrorse, di GR. 9,00 (perizia balistica SPAMPINATO).

Tra le armi sequestrate a MARCHESE ANTONINO vi era un revolver SMITH & WESSON (5 camere), CAL. 38 SPL, modello 60, canna corta e con matricola punzonata con i marchi del banco nazionale di prova dell’anno 1981, efficiente ed in buone condizioni conservative, con il numero d’ordine 62/A della perizia (PER. SPAMPINATO).

Effettuate le prove balistiche, il proiettile di cui sopra risultava essere stato esploso dal revolver SMITH & WESSON sequestrato a MARCHESE ANTONINO (PER. SPAMPINATO).

MARCHESE ANTONINO – figlio di VINCENZO e nipote di FILIPPO MARCHESE – risulta essere uno dei killers più spietati della cosca di Corso Dei Mille, imputato anche per gli omicidi di LO JACONO CARMELO e PERI ANTONINO dei quali tratta il presente procedimento penale.

Mandante di questi ultimi due omicidi, per le riscontrate e puntuali dichiarazioni di SINAGRA VINCENZO, risulta essere lo stesso FILIPPO MARCHESE il quale, “territorialmente competente” per la consumazione degli omicidi del LO JACONO e del PERI, non poteva non essere anche il mandante dell’omicidio CINA’, dato, appunto, che esecutore dello stesso era il nipote ANTONINO, suo nipote e killer della sua famiglia mafiosa.

Non v’è, quindi, nessun dubbio – e per la prova logica sopra evidenziata e per la individuazione dell’autore dell’omicidio CINA’ – che i responsabili dei delitti dei congiunti di GIOVANNELLO GRECO vanno individuati nei componenti la “Commissione” di “Cosa Nostra” e nei capi famiglia interessati direttamente a tali uccisioni. […]. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo a cura COSA VOSTRA


UNA CALIBRO 9 PARABELLUM FIRMA L’OMICIDIO ECCELLENTE DI ANTONINO GRADO Il 9 gennaio 1982, viene ucciso Antonino Grado. E’ il rappresentate di una famiglia che gestiva il traffico di stupefacenti, alleata da sempre con Stefano Bontate e Totuccio Inzerillo

Il 9 gennaio 1982 – alle ore 12 circa – veniva ucciso GRADO ANTONINO, dipendente dell’Ente Autonomo Teatro Massimo di Palermo.

Il GRADO, al momento dell’agguato, si trovava proprio all’interno del laboratorio scenotecnico dell’Ente – ove prestava la propria attività come aiuto consegnatario – in compagnia di AMATO DOMENICO e DI MAGGIO SALVATORE.

Secondo la ricostruzione dei fatti operata sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali raccolte, ad un certo punto si era udito bussare alla finestra del locale di cui sopra ed il GRADO, alzatosi dalla scrivania, si era avviato verso la stessa per aprirla.

Appena questi aveva aperto la finestra, era stato fatto segno a colpi di arma da fuoco esplosi dall’esterno da due individui.

L’AMATO e il DI MAGGIO si erano istintivamente buttati a terra per cercare scampo, mentre il GRADO si era diretto verso la parte opposta del locale ove, però, veniva raggiunto da due individui.

Tornava, quindi, indietro verso la scrivania e riusciva ad aprirne il cassetto, ma veniva raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco che lo attingevano alla testa ed in altre parti del corpo.

Il GRADO decedeva all’istante, data anche la devastante azione dell’arma usata dai killer, una pistola calibro 9 Parabellum.

Nel cassetto della scrivania veniva rinvenuta una rivoltella “RUGER” calibro 357 magnum, con sei cartucce inserite nel tamburo e con il numero di matricola abraso.

Era evidente l’estremo tentativo fatto dal GRADO di difendersi, come pure evidente era la consapevolezza della vittima di essere nel mirino dei killers, consapevolezza che lo aveva portato a detenere nel posto di lavoro una arma di provenienza illecita.

Dalla descrizione dei killers non si traevano elementi utili alla loro identificazione, come pure nessun utile elemento sul movente dell’omicidio emergeva dalle dichiarazioni dei congiunti della vittima.

Dagli stessi, in particolare, si avevano le solite notizie “rassicuranti” sulla condotta del GRADO, sulla sua dedizione al lavoro ed alla famiglia e sulla sua estraneità ad attività illecite.

Veniva rinvenuta una agenda del GRADO con dei nominativi annotati, ma anche l’esame testimoniale delle persone indicate negli appunti dava uno sconfortante esito negativo.

Venivano, inoltre, rinvenute nella abitazione del GRADO delle bustine contenenti polveri sospette che, però, ad un ulteriore esame, si rivelavano di nessun interesse.

I CUGINI GRADO E IL NARCOTRAFFICO  STEFANO CALZETTA, inseriva l’omicidio del GRADO nel contesto dell’azione di sterminio dei seguaci di STEFANO BONTATE, precisando, appunto, che la vittima – dipendente del Teatro Massimo – era uno dei tanti uomini del BONTATE uccisi dopo l’eliminazione del capo.

Ed, invero, la causale dell’omicidio del GRADO va trovata proprio nella parentela con GRADO VINCENZO e i suoi fratelli, dei quali il primo era cugino.

Come ampiamente dimostrato nella parte che tratta del traffico di stupefacenti, i GRADO erano un potente clan in posizione di preminenza in tale commercio ed alleati, da sempre, di STEFANO BONTATE e TOTUCCIO INZERILLO.

Il cugino di questi, quindi, poteva costituire un valido punto di appoggio per i componenti della famiglia che si erano allontanati al nord per sottrarsi ai killers dei “vincenti”.

Ed ANTONINO GRADO risultava ancor più pericoloso perché la sua attività si svolgeva proprio in via Conte Federico, ove aveva sede il laboratorio scenotecnico dell’Ente.

In tale zona, infatti, non erano più stati “tollerati” i possibili alleati del BONTATE e del CONTORNO, al quale ultimo la vittima era legata da vincoli di parentela.

Si è già detto, inoltre, che il GRADO doveva aver avvertito il pericolo incombente, tanto da esporsi al rischio di detenere un’arma con matricola abrasa, e ciò è una conferma della causale dell’omicidio.

Ulteriore elemento che conferma la causale sopra esposta può ravvisarsi nella successione cronologica tra questo omicidio ed altri di cui si e’ già detto.

Il GRADO, infatti, veniva ucciso il 9 gennaio 82, appena un giorno dopo il duplice omicidio di IENNA MICHELE e TERESI FRANCESCO PAOLO e nello stesso giorno in cui veniva ucciso DI FRESCO GIOVANNI.

Come si è già visto, i tre erano stati uccisi con la stessa pistola semiautomatica “BROWNING” calibro 7,65 e tale particolare è emerso dalla relazione di perizia tecnico-balistica del Prof. MORIN e dalle indagini balistiche del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica di Palermo.

Il contesto temporale di detti omicidi, il legame delle vittime con SALVATORE CONTORNO (e la “sua” via Conte Federico) e con i BONTATE, le risultanze peritali, inducono a stabilire, con tutta serenità, anche una comunanza di causale. […]. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 26 marzo 2021

 

E NEL PORTABAGAGLI DI UN’AUTO RUBATA C’È UN CADAVERE “INCAPRETTATO” L’8 novembre 1981, nei pressi della caserma della Guardia di Finanza di via Cavour, viene ritrovata un’automobile rubata. All’interno del bagagliaio, c’è il corpo di Antonino Rugnetta. Una corda passa tra le caviglie e le braccia, un nodo al collo

Il giorno 8 novembre 1981, verso le ore 18,30 circa, Agenti della Squadra Mobile rinvenivano una Fiat 131 targata PA-619110 che risultava sottratta al proprietario ZARCONE ANGELO.

L’autovettura si trovava parcheggiata nei pressi della caserma della Guardia di Finanza “CANGIALOSI” di via Cavour.

Mentre si procedeva alla riconsegna dell’autovettura allo ZARCONE, nel corso di una sommaria ispezione della stessa al fine di accertare eventuali danni, all’interno del cofano posteriore veniva rinvenuto un sacco di plastica dell’A.M.N.U. contenente il cadavere di RUGNETTA ANTONINO, pregiudicato per reati contro il patrimonio e per contrabbando di T.L.E..

Il corpo del RUGNETTA si presentava con le caviglie legate con tre giri di corda di canapa, corda che, risalendo lungo la schiena, andava a stringere il collo con un nodo scorsoio.

Le indagini non approdavano a risultati concreti, anche perché i congiunti del RUGNETTA non sapevano dare nessuna indicazione utile alle stesse, né sembrava conducente l’indagine volta ad accertare eventuali motivi di rancore serbati alla vittima dalla famiglia della moglie, SORBI MARIA, dal RUGNETTA abbandonata circa dieci anni prima.

La convivente del RUGNETTA, TRAINA MARIA, riferiva che lo stesso era uscito di casa quella mattina verso le ore 8 a bordo della Fiat 127 targata PA552119 e non era rincasato per il pranzo, né si era recato alla stazione di Terrasini ove avrebbe dovuto rilevare alcuni suoi congiunti.

L’auto del RUGNETTA veniva rinvenuta, successivamente, in via Messina Marine nei pressi dei Bagni VIRZI’.

Le circostanze – certe e di un qualche rilievo – possono individuarsi

  1. A) Nel ritrovamento dell’auto con il cadavere nei pressi della caserma della Guardia di Finanza;
  2. B) Nel ritrovamento dell’auto del RUGNETTA nei pressi dei Bagni VIRZI’;
  3. C) Nell’essere il RUGNETTA un contrabbandiere di tabacchi.

Al RUGNETTA accennava una prima volta STEFANO CALZETTA, il quale riferiva come, dopo l’uccisione di STEFANO BONTATE fossero stati eliminati molti dei suoi amici, tra i quali RUGNETTA ANTONINO “fatto trovare cadavere all’interno di un’autovettura parcheggiata davanti la Prefettura di via Cavour, che era uomo di fiducia di TOTUCCIO CONTORNO”.

Il CALZETTA ribadiva tali dichiarazioni successivamente, spiegando come quel tipo di morte (per autostrangolamento) gli fosse stato riservato in quanto non avrebbe voluto rivelare il luogo ove si nascondeva il CONTORNO.

I FRATELLI SINAGRA SINAGRA VINCENZO di ANTONINO, determinatosi a confessare gli atti delittuosi di cui era stato autore, sin dalle prime dichiarazioni rese il 12 novembre 83, riferiva quanto a lui noto sull’omicidio del RUGNETTA. Il SINAGRA, infatti, diceva di sapere di un omicidio di “un uomo che fu assassinato per aver aiutato un uomo della vecchia mafia” soprannominato “CURIANO” che era appena uscito dal carcere. Aggiungeva che la vittima, con una scusa, era stata prelevata dal cugino SINAGRA VINCENZO e da ROTOLO SALVATORE ed era stata portata in un magazzino di piazza Sant’Erasmo ove erano lui ed il cugino ANTONIO.

Sempre secondo il SINAGRA, l’uomo, dopo essere stato interrogato era stato strangolato, posto nel baule di una Fiat 131 o 132, il cui proprietario solo in un secondo tempo si era accorto della presenza del cadavere.

Ricordava come FILIPPO MARCHESE avesse telefonato o al Giornale Di Sicilia o alla Guardia di Finanza per avvertire che nell’auto vi era un cadavere, ma, a causa della incompletezza delle informazioni, l’auto non era stata ritrovata subito.

Indicava come autori dell’omicidio i citati ROTOLO, MARCHESE, SINAGRA VINCENZO e ANTONIO, PIPPO MARCHESE – nipote di MARCHESE FILIPPO -, SINAPA (SENAPA), “GIOVANNELLO GRECO” e un non identificato “UOMO GROSSO”.

In un successivo interrogatorio, il SINAGRA riferiva con maggior dovizia di particolari il fatto e, nel raccontare come fosse stato “cooptato” nel gruppo di MARCHESE FILIPPO, aggiungeva di essere stato quasi subito chiamato ad una prima impresa consistita nell’omicidio di un uomo che aveva aiutato un componente della cosca avversa a quella dei MARCHESE.

Quest’ultimo – per averlo appreso dal cugino VINCENZO – veniva chiamato “CORIOLANO o CURIANO DELLA FLORESTA” e, riuscito a fuggire, era ancora latitante.

Cosi’ continua l’agghiacciante racconto del SINAGRA: “La persona che l’aveva aiutato io non la conoscevo di nome e cognome e nemmeno di vista. Il compito che a me venne assegnato da parte di mio cugino VINCENZO fu di andare in una casa in piazza S. Erasmo (casa che sarei in condizione di indicare) e di attendere li’ una persona che mi avrebbero portato con la scusa di fargli vedere una partita di sigarette di contrabbando per l’eventuale acquisto. Mio cugino mi spiego’ che la persona avrebbe certamente accettato, perché si trattava di un contrabbandiere non solo di droga ma anche di sigarette e mi disse che l’andava a prendere da SPANO’ o ai Bagni VIRZI’. Io e SINAGRA ANTONINO dovevamo aspettare al piano superiore mentre con mio cugino VINCENZO andava ROTOLO SALVATORE. In effetti, dopo un po’ ritornarono i due con questa persona che fu fatta salire al piano superiore e non appena sbucò dalla scala fu afferrata e legata da me e da mio cugino ANTONIO.

Sopraggiunsero immediatamente PIETRO VERNENGO, FILIPPO MARCHESE, GIUSEPPE MARCHESE, SENAPA PIETRO, persone tutte che conosco personalmente. Con loro c’era un uomo grosso che non fu presentato e che non conosco ed un altro uomo che mio cugino VINCENZO mi indico’ col nome di GIOVANNELLO GRECO”.

Stante la evidente erronea indicazione del “GIOVANNELLO GRECO” tra i componenti del gruppo facente capo a MARCHESE FILIPPO, il P.M. faceva esaminare al SINAGRA l’album fotografico e alla foto n.72 l’imputato riconosceva il predetto “GIOVANNELLO”.

La effigie, in realtà, corrispondeva a quella di GRECO GIUSEPPE n. a Palermo il 4.1.52 (“SCARPUZZEDDA”), mentre la indicazione dello stesso come “GIOVANNELLO GRECO” non poteva non essere uno scherzo giocato da ENZO SINAGRA “TEMPESTA” ai danni del cugino, il quale ultimo ignorava come il “GIOVANNELLO” fosse uno degli avversari ricercati con più accanimento da FILIPPO MARCHESE e dai “vincenti”.

Continuava, quindi, il SINAGRA il suo racconto, aggiungendo: “tutte quelle persone mi fecero allontanare perché avevano intenzione di interrogare l’uomo legato, tanto che il GRECO si era fornito di una penna e di un foglio di carta. D’altra parte io allontanandomi mi sono portato in una stanzetta adiacente allo stesso piano e ho potuto sentire che l’uomo legato veniva richiesto di indicazioni sul luogo dove si nascondeva il “CURIANO o CORIOLANO”. Egli rispondeva di non saperlo e pregava di liberarlo promettendo che lo avrebbe individuato e fatto trovare da loro.

Tutto ad un tratto però, mi sono accorto attraverso una finestrella della stanza che il GRECO GIOVANNELLO prendeva una corda e gliela metteva al collo tirandola con forza assieme agli altri che lo interrogavano.

Dopo che l’uomo fu ucciso venni richiamato per aiutare SINAGRA VINCENZO a caricarsi l’uomo sulle spalle ed a portarlo dentro il bagagliaio di una automobile che poi lasciammo in prossimità della caserma della Guardia di Finanza di via Cavour. Si trattava di una 131 o una 132 rubata e poi ho letto sul giornale che il proprietario si era accorto che c’era un cadavere nel bagagliaio soltanto dopo aver portato la macchina in garage”.

Concludeva il SINAGRA che il “fatto” era avvenuto di giorno e, precisamente, di mattina verso le ore 10,30-11 e che non vi furono preoccupazioni per la segretezza del trasporto del cadavere “in quanto la casa e’ abbastanza internata e peraltro se qualcuno vede non ha il coraggio di parlare”.

Prima di esaminare le responsabilità individuali in ordine all’omicidio del RUGNETTA, occorre rilevare la perfetta concordanza tra le dichiarazioni del SINAGRA e quanto oggettivamente emerso nel corso delle indagini.

IL PERCHÉ DELL’INCAPRETTAMENTO […] Dalla relazione di perizia medico-legale si rileva come il RUGNETTA sia morto per strangolamento, senza nessun accenno ad una ipotesi di autostrangolamento. Ed, invero, lo stesso SINAGRA aveva chiarito che “i cadaveri degli strangolati vengono legati con le mani e i piedi dietro la schiena e la corda al collo (cosiddetti incaprettati) non già come voi ritenete e come pubblicano i giornali per dare la morte per autosoffocamento bensì perché è la posizione più comoda per infilarli dentro un bagagliaio o comunque dentro i sacchi.

L’operazione di legatura viene fatta immediatamente dopo che ci si e’ accorti che la persona è morta. lo strangolamento avviene invece con una corda a cappio tirata da una parte mentre qualcuno tiene per i piedi la vittima”.

Il SINAGRA aveva riferito, inoltre, di aver potuto osservare da una finestrella della stanza come il “GRECO GIOVANNELLO” avesse strangolato l’uomo. Le foto dei luoghi mostrano, infatti, come da una finestra della stanza adiacente a quella ove venivano “interrogate” le vittime sia possibile guardare in questa ultima.

Il movente dell’omicidio del RUGNETTA è indicato, sia dal SINAGRA che dal CALZETTA, nella necessità di conoscere ove si nascondesse “CORIOLANO DELLA FLORESTA” – alias TOTUCCIO CONTORNO – e ciò è confermato dallo stesso racconto del primo che distintamente aveva udito le domande rivolte alla vittima. La stessa circostanza secondo cui “SCARPUZZEDDA” si era munito di carta e penna per annotare eventuali risposte, indica chiaramente come dal RUGNETTA ci si attendesse l’indicazione di un indirizzo o di una località da ricordare con precisione e, quindi, da trascrivere.

Autori materiali dell’omicidio del RUGNETTA sono stati, senza dubbio alcuno, SINAGRA VINCENZO di ANTONINO e SINAGRA ANTONINO (che, nella casa di piazza S. Erasmo erano in attesa del RUGNETTA), SINAGRA VINCENZO di SALVATORE e ROTOLO SALVATORE (che ebbero a prelevare il RUGNETTA), PIETRO VERNENGO, FILIPPO MARCHESE, GIUSEPPE MARCHESE e SENAPA PIETRO (che sopraggiunsero appena il RUGNETTA venne portato nella citata casa), GRECO GIUSEPPE “SCARPUZZEDDA” (che materialmente ebbe a strangolare il RUGNETTA) ed un “uomo grosso”, di cui si dirà in seguito.

[…] Come si e’ detto, il SINAGRA riferiva che, tra gli autori dell’omicidio del RUGNETTA, dovesse annoverarsi un “uomo grosso”, alla cui identificazione si giungeva con sicurezza dopo una serie di dichiarazioni. […] È, quindi, indubbio che dell’omicidio del RUGNETTA debba rispondere ARGANO GASPARE, mentre ARGANO FILIPPO, raggiunto per tale omicidio dall’ordine di cattura del 2.1.84, deve essere prosciolto per non aver commesso il fatto. […]. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA



PROIETTILI E CONFETTI, AGGUATO DI MAFIA DURANTE UN MATRIMONIO A CARINI 
Stefano Gallina, fedelissimo di Gaetano Badalamenti, viene ucciso dopo aver assistito al matrimonio del nipote. Nell’agguato viene ferita anche la moglie Maria che, insieme al marito, stava andando al banchetto nuziale  

Il 1° ottobre 1981 – alle ore 13,30 circa – alcune telefonate anonime giunte alla Stazione dei Carabinieri di Carini segnalavano come da poco fosse stato consumato un omicidio nei pressi del passaggio a livello di detto centro.

I carabinieri, giunti sul posto, constatavano che all’altezza del civico 21 della via Provinciale sostava una BMW targata PA-544227 – posta in mezzo a detta strada – con senso di marcia verso la SS.113.

Sul sedile anteriore sinistro giaceva, privo di vita, GALLINA STEFANO, dagli stessi carabinieri ben conosciuto perché diffidato.

Si apprendeva, altresì, che la moglie della vittima, SIMONETTA MARIA, era rimasta a sua volta ferita ed era stata accompagnata presso l’Ospedale di Carini.

L’autovettura, come detto, era ferma al centro della strada, con il senso di marcia verso Palermo, e presentava numerosi fori prodotti da colpi di arma da fuoco sul parabrezza e sulla carrozzeria, mentre i vetri degli sportelli anteriori erano frantumati e il pneumatico anteriore sinistro risultava forato.

Il GALLINA, in sede autoptica, risultava essere stato attinto in varie parti del corpo da sette proiettili calibro 38.

In località “Foresta” di Carini, veniva, inoltre, rinvenuta una Alfa Romeo Giulietta completamente distrutta dal fuoco ed i VV.FF. provvedevano a spegnerne le ultime fiamme.

L’auto era di proprietà di MERCADANTI NATALE ed allo stesso era stata sottratta la notte del 18 agosto 1981 in Palermo.

Trattavasi, molto probabilmente, dell’auto usata dai killer per l’agguato al GALLINA, stante le modalità della sua distruzione nello stesso arco di tempo in cui era stato consumato il delitto.

SIMONETTA MARIA riferiva che il giorno dell’omicidio, verso le ore 14, dopo aver assistito al matrimonio del nipote SIMONETTA DOMENICO presso la Chiesa Madre di Carini, con il marito si stava dirigendo in località “Foresta” ove, nel ristorante “LA CAMPAGNOLA”, si sarebbe dovuto tenere il banchetto nuziale.

Lungo la via, la BMW del marito veniva sorpassata da altra autovettura i cui occupanti, dopo aver bloccato il mezzo, esplodevano numerosi colpi di arma da fuoco.

In preda al panico, la donna non sapeva dare nessuna altra utile indicazione sui killer, sulle armi adoperate o sulla dinamica del fatto.

LICASTRI EMILIO riferiva che, precedendo con la sua auto quella di GALLINA STEFANO, stava recandosi al ristorante “LA CAMPAGNOLA” per partecipare al banchetto nuziale.

A circa 250 metri dal passaggio a livello ferroviario notava una autovettura ferma in senso trasversale rispetto all’asse della strada. Detta auto impegnava il senso di marcia opposto al suo, anche se con la parte anteriore rivolta verso la SS.113.

Notava, altresì, quattro uomini fermi sul margine destro della strada, uno accanto all’altro, intenti a guardare verso il centro della carreggiata, tanto da dargli l’impressione che si fosse verificato un incidente stradale.

Subito dopo aver superato detta auto e, comunque, dopo circa 60/70 metri, udiva dei colpi di arma da fuoco per cui, istintivamente, bloccava il suo mezzo e si rannicchiava per proteggersi.

Proprio in quel momento, percepiva il rumore di un’autovettura che proseguiva ad alta velocità in direzione della SS.113 e riusciva a leggere, a distanza di circa 40 metri, le ultime due cifre della targa, indicandole in “38”.

Il mezzo che si allontanava era lo stesso poco prima avvistato fermo in mezzo alla carreggiata ed era di colore giallo.

Il LICASTRI, quindi, riferiva di essere sceso e di essersi avvicinato alla BMW del GALLINA ed aveva constatato come questi fosse morto, mentre la moglie veniva soccorsa da un parente.

Sul luogo del delitto, poco dopo, sopraggiungeva il carabiniere TAORMINA ANGELO – originario di Carini ed in servizio presso la Stazione di Palermo – Borgo Nuovo – il quale riferiva che:

– Verso le ore 13,30 si trovava a transitare a bordo della sua auto, proveniente da Palermo per far ritorno a Carini;

– Giunto a circa 200 metri dal passaggio a livello di Carini aveva notato una BMW con a bordo una donna in preda a forte agitazione;

– Nel frattempo aveva notato a circa 15-20 metri dalla sua auto una Alfa Romeo Giulia di colore giallo con a bordo un individuo dalla apparente eta’ di 30-35 anni che effettuava una repentiva inversione di marcia per poi dirigersi velocemente verso Palermo;

– Aveva intuito che era accaduto qualcosa di grave e, quindi, effettuata a sua volta l’inversione di marcia, si era posto all’inseguimento della Giulia, riuscendo a riprendere contatto con la stessa nei pressi della Zona Industriale di Carini;

– Aveva constatato che gli sarebbe stato impossibile raggiungere l’auto che procedeva a velocita’ sostenuta ed aveva desistito dall’inseguimento, mentre la predetta auto imboccava lo svincolo autostradale per Palermo;

– Era riuscito, comunque, a rilevare il numero di targa che indicava in PA-453236.

– Le immediate indagini facevano rilevare come detta targa appartenesse proprio ad una Alfa Romeo Giulietta di colore giallo intestata ad ALIMENA PROVVIDENZA, residente in Isola Delle Femmine, via Volta n.6.

BRUNO ANTONINO – marito della ALIMENA – dichiarava che detta auto era stata prelevata il mattino del 1 ottobre dal figlio BRUNO FRANCESCO.

Il BRUNO non veniva rintracciato, nè i di lui genitori erano in grado di fornire utili indicazioni per localizzarlo, anche se, concordemente, dichiaravano che lo stesso era uscito di casa quel 1 ottobre verso le ore 7-7,30.

L’ALIBI SMASCHERATO […] Le indagini istruttorie, dunque, avevano acclarato come il BRUNO si fosse presentato in cantiere la mattina del 1 ottobre e, allontanatosi, non era stato più visto, nè quel giorno, nè nei successivi giorni.

Il tentativo di fornire un alibi al BRUNO da parte dei suoi soci VITALE e BIONDO era miseramente naufragato: i due, infatti, erano stati smentiti dai dipendenti della impresa sulla presenza del BRUNO in cantiere nel corso della giornata del 1 ottobre, come pure erano stati smentiti dal LUPARELLO sulla recinzione del villino per tracciare la quale tutti e tre i soci sarebbero rimasti a lavorare sino al primo pomeriggio di quel fatidico 1 ottobre.

Tornando alla scena del delitto e, segnatamente, alla BMW del GALLINA, si deve osservare come sulla stessa fossero state rinvenute tracce di una lunga striatura dalla lunghezza di mt.2 sulla fiancata sinistra, dal parafango posteriore allo sportello posteriore, prodotta verosimilmente da collisione con altro autoveicolo, nonché tracce di vernice, presumibilmente beige.

Veniva disposta perizia tecnica per accertare la natura e le caratteristiche chimico-fisiche e meccaniche di alcune impronte e tracce esistenti sulla carrozzeria della BMW.

Il perito riferiva come l’esame, effettuato con adeguata attrezzatura, avesse permesso di accertare che l’impronta in argomento consisteva in un “riporto di smalto di finitura di tipo sintetico termoindurente a tono cromatico giallo chiaro e doveva ritenersi l’esito di un urto di tipo superficiale, ad andamento continuo, fra l’unita’ in esame ed altra autovettura, con carrozzeria definita a mezzo prodotti sintetici (smalti) a tono cromatico giallo”.

In breve, il perito rilevava come la striatura fosse stata prodotta dall’urto con altra autovettura di colore giallo.

[…] La relazione permetteva di far naufragare anche questo ulteriore tentativo di maldestra difesa approntato dal BRUNO e dai suoi genitori. […] Il BRUNO, cioè, 12 o 16 mesi prima dell’accertamento, aveva provveduto a far riparare la carrozzeria e a far riverniciare di giallo l’auto, con prodotti diversi da quelli impiegati dalla casa costruttrice.

Così facendo, l’imputato eliminava le tracce di striature riportate a causa dell’impatto con la BMW del GALLINA e sostituiva la vernice, sicché non vi fosse più corrispondenza alcuna tra le tracce di vernice lasciate sulla BMW e la vernice della sua “Giulia”: tali si rivelavano le conclusioni da trarre e dalla perizia e dai successivi accertamenti richiesti dal P.M. ed effettuati dal G.I.

[…] L’auto, subito dopo l’impatto con la BMW del GALLINA, era stata fatta riparare ed era stata nascosta in un garage non di pertinenza del BRUNO, si che era stato impossibile rinvenirla.

Se il BRUNO, non avesse avuto nulla da temere, avrebbe subito messo a disposizione degli inquirenti detta auto.

Aveva, invece, occultato la stessa anche per non farne rilevare i lavori di riverniciatura effettuati e, dopo oltre 16 mesi, quando già si conoscevano i risultati degli accertamenti cromatici effettuati sulla BMW del GALLINA, aveva tentato di giocare la carta dell’esame peritale sulla stessa, sicuro della diversità delle vernici e della eliminazione delle striature.

Che il BRUNO sia l’autore materiale dell’omicidio del GALLINA, comunque, è evidenziato anche dal falso alibi allo stesso fornito dal VITALE e dal BIONDO e di cui si è ampiamente detto. […].

IL MOVENTE DELL’OMICIDIO GALLINA STEFANO apparteneva ad una famiglia (I “Malavita”) tristemente famosa nella zona di Villagrazia di Carini per vari episodi delittuosi. GALLINA VITO – suo cugino – era stato ucciso in Fabriano il 4.2.74, mentre un altro suo cugino – GALLINA GIOVANNI – era stato ucciso a Carini subito dopo, il 26.5.74.

GALLINA SALVATORE, fratello dei suddetti VITO e GIOVANNI, era stato tratto in arresto dai CC. di Palermo il 22.10.80 perché implicato in fatti connessi al traffico di stupefacenti, mentre un altro GALLINA SALVATORE, pure cugino della vittima, risulta essere latitante perché colpito da mandato di cattura emesso dal G.I. di Palermo per traffico di stupefacenti.

PIPITONE ANGELO ANTONINO – elemento di spicco della mafia di Carini – e imputato nel presente procedimento penale, è implicato nel traffico di stupefacenti: lo stesso è un altro cugino della vittima.

Nell’agosto del 1980, proprio dietro l’abitazione del predetto PIPITONE veniva scoperta una raffineria di eroina (GERLANDI ALBERTO ed altri), mentre nei pressi di detta abitazione e della raffineria si trovava la villa “bunker” di BADALAMENTI ANTONINO (ucciso il 18 agosto 81), reggente della famiglia mafiosa di Cinisi, succeduto a GAETANO BADALAMENTI nel controllo di detta famiglia.

L’omicidio del GALLINA, quindi, si inquadra perfettamente nella strategia di eliminazione dei “fedelissimi” di GAETANO BADALAMENTI.

Ed, invero, dopo la eliminazione di alcuni dei suoi cugini, dopo l’arresto e la latitanza di altri, GALLINA STEFANO aveva assunto un ruolo di preminenza all’interno di detta famiglia, venendo, cosi’, ad essere un punto di riferimento e di forza per tutti gli altri amici del BADALAMENTI.

Non va, infatti, dimenticato come per isolare il potente boss di Cinisi siano stati eliminati BADALAMENTI SILVIO (Marsala 2.6.83), BADALAMENTI NATALE (Carini, 21.11.1983) BADALAMENTI AGOSTINO (20.2.84) BADALAMENTI SALVATORE (Cinisi, 19.11.1982) BADALAMENTI ANTONINO (Carini, 18.8.1981).

La stessa successione cronologica tra gli omicidi di BADALAMENTI ANTONINO e STEFANO GALLINA è altamente indicativa se rapportata anche al ruolo assunto dai due all’interno della famiglia di Cinisi.

Secondo quanto riferito dal BUSCETTA e quanto oggettivamente emerso dalle indagini relative all’omicidio di BADALAMENTI NINO, come si è visto questi aveva sostituito, per decisione della Commissione, GAETANO BADALAMENTI come capo della “famiglia” di Cinisi.

Trattavasi, però, pur sempre di un BADALAMENTI e, con l’ex capo ancora libero ed attivo, rappresentava una minaccia alle mire egemoniche dei corleonesi.

BADALAMENTI NINO viene, cosi’, ucciso il 18.8.81 e, dopo due mesi appena, viene ucciso anche STEFANO GALLINA, mentre BADALAMENTI NATALE, altro componente della famiglia, viene ucciso nel novembre del 1983.

Il ruolo del GALLINA, si ripete, va valutato proprio in relazione alla soppressione di NINO BADALAMENTI, all’arresto e alla latitanza di alcuni cugini del primo: tutto ciò aveva posto il GALLINA stesso in una posizione di preminenza all’interno del clan BADALAMENTI e, quindi, nella logica dello sterminio degli amici e congiunti del vecchio capo, la sua eliminazione era inevitabile. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A cura Cosa Vostra 21.3.2021


LA FINE DEI SORCI, PRIMA ALLEATI DI BONTATE POI TRADITORI, INFINE ELIMINATI  Antonino Sorci, conosciuto come “Nino u riccu”, era stato uomo di fiducia del Principe di Villagrazia. «Era molto ricco – racconta Buscetta – e, in particolare, aveva fatto un mucchio di quattrini lottizzando, negli anni 50, il Parco D’Orleans, da lui acquistato in precedenza»

“Arrivai di mattina presto nell’aula dell’Ucciardone, con il mio block notes e una serie di matite e pennarelli, per realizzare le illustrazioni che sarebbero state pubblicate nella rubrica “cronache dal bunker”, ascoltavo con attenzione e osservavo, direi minuto per minuto, ogni momento della fasi di quell’evento storico”. Quel 10 febbraio di 35 anni fa è rimasto impresso nella memoria di Franco Donarelli, disegnatore di lungo corso. ANSA

Alle ore 20,40 circa del 12.4.1983 la Centrale Operativa del Gruppo Carabinieri di Palermo riceveva una segnalazione telefonica con la quale si rendeva noto che, poco prima, in via Valenza vi era stata una sparatoria nel corso della quale due persone erano rimaste ferite mortalmente.

I carabinieri, accorsi, accertavano la veridicità della notizia ed identificavano in SORCI ANTONINO – padre – e SORCI CARLO – figlio – le due vittime.

Si poteva, quindi, ricostruire la dinamica del duplice omicidio e si accertava che i SORCI, a bordo della Lancia Delta alla cui guida si trovava il CARLO, stavano per lasciare il proprio agrumeto di via Valenza per far ritorno nella abitazione di via Quintino Sella, quando, giunti allo incrocio tra la strada interpoderale del loro Fondo e la via Valenza venivano attinti da numerosi colpi di rivoltella e fucile Cal.12.

L’auto, priva di guida, andava ad urtare il cancello posto all’ingresso del Fondo e si fermava su un cumulo di letame.

DI BELLA SUSANNA – moglie di ANTONINO e madre di CARLO SORCI – riferiva che il marito, a causa dei suoi trascorsi giudiziari, si era trasferito a Rimini e soltanto da tre settimane circa si trovava a Palermo.

Secondo la DI BELLA, in quel periodo il figlio CARLO frequentava la casa dei genitori e mai, nei discorsi del figlio e del marito, erano affiorate preoccupazioni in ordine alla loro incolumita’.

Nessuna altra utile indicazione sapeva dare sugli affari del marito.

SORCI ANTONINO – cugino di ANTONINO e suocero di CARLO – riferiva che da tempo il predetto cugino si era trasferito a Rimini e gli interessi dello stesso erano curati in Palermo dal figlio CARLO.

Precisava che il genero mai gli aveva esternato preoccupazioni.

Nessuna utile indicazione sapevano fornire SORCI SANDRA – moglie di CARLO – e PIPITONE GIUSEPPE – dipendente dei SORCI e uomo di fiducia degli stessi nella conduzione del Fondo.

Il PIPITONE riferiva, comunque, che saltuariamente SORCI ANTONINO veniva a Palermo da Rimini e che, negli ultimi tempi, si recava sul Fondo giornalmente, per far ritorno a casa a sera inoltrata.

[…] Sottolineavano i carabinieri nel loro rapporto che SORCI ANTONINO, inteso “NINO ‘U RICCU”, era uno dei capi carismatici della mafia e che, pur trasferitosi a Rimini, manteneva intensi rapporti con Palermo ove si recava, per la stessa ammissione del suo uomo di fiducia PIPITONE, di frequente.

TOMMASO BUSCETTA, dopo aver indicato in NINO SORCI il capo della famiglia mafiosa di Villagrazia, precisava: «Sulla famiglia di Villagrazia posso precisare quanto segue. Ho conosciuto personalmente NINO SORCI (NINU U RICCU) a Rimini nel 1960; io mi trovavo in quel centro per villeggiatura, mentre il SORCI ivi era proprietario di una tenuta agricola, in società con certo Capitano DI CARLO, anch’egli da me conosciuto, corleonese ed estraneo alla mafia.

Il SORCI era molto ricco e, in particolare, aveva fatto un mucchio di quattrini lottizzando, negli anni 50, il Parco D’Orleans, da lui acquistato in precedenza. So che recentemente sono stati uccisi NINO SORCI ed il cugino SORCI FRANCESCO. La causale del delitto non può essere che la seguente. NINO SORCI, insieme con il Capitano DI CARLO, gestiva una società finanziaria con uffici in via Ruggiero Settimo, accanto al Cinema DIANA, in un appartamento in uno dei piani superiori dello stabile».

LA SCELTA DI ALLEARSI COI “VINCENTI” Prima di continuare con le rivelazioni del BUSCETTA, è utile evidenziare come esatto sia risultato il riferimento dello stesso alla società finanziaria tra il “CAPITANO” DI CARLO e NINO SORCI.

[…] Questa, dunque, la società finanziaria cui si riferiva il BUSCETTA e nella quale aveva interessi anche il CIANCIMINO, non a caso corleonese come il DI CARLO.

Proseguiva, dunque, il BUSCETTA: «Essendo il DI CARLO corleonese, LUCIANO LIGGIO pretendeva che il DI CARLO stesso gli erogasse somme di denaro, in relazione a tale sua attività.

Il DI CARLO, non potendone più, chiese aiuto al suo socio NINO SORCI, che fece intervenire “CICCHITEDDU”, il quale impose al LIGGIO di desistere dai tentativi di taglieggiamento. Ciò rese particolarmente furibondo il LIGGIO, il quale non si poteva dare pace del fatto che NINO SORCI proteggesse uno sbirro, e, cioè, una persona che non faceva parte della mafia.

Quando il BONTATE e gli altri suoi alleati vennero uccisi, il SORCI credette di risolvere ogni problema professando lealtà ai vincitori, ma non aveva tenuto conto evidentemente del suo screzio con LUCIANO LIGGIO risalente a diversi anni prima. Questa e non altra e’ l’unica causale possibile dell’uccisione di NINO SORCI e di suo cugino FRANCESCO, che vivevano molto ritirati e non si erano per nulla intromessi nelle questioni che avevano provocato la guerra di mafia.

Quanto a FRANCESCO SORCI, avevo trascurato di dire che il predetto era capo mandamento in seno alla commissione all’epoca di “CICCHITEDDU” e dello sconquasso provocato dai contrasti tra la commissione ed i LA BARBERA».

Nel corso di un successivo interrogatorio, il BUSCETTA riferiva altri illuminanti particolari sulla figura del SORCI e, segnatamente, sui rapporti, anche se indiretti, con gli altri capi.

Aggiungeva, infatti, il BUSCETTA: «Come ho già detto, capo della famiglia di Brancaccio era GIUSEPPE DI MAGGIO, della cui uccisione e della cui sostituzione quale capo famiglia con GIUSEPPE SAVOCA ho appreso da GAETANO BADALAMENTI.

Io sapevo che il DI MAGGIO era grande amico di STEFANO BONTATE. Un suo fratello, DI MAGGIO IPPOLITO, viveva a Rimini e lavorava nell’azienda agricola di NINO SORCI. Io stesso ho incontrato a Rimini DI MAGGIO IPPOLITO, durante la mia villeggiatura, negli anni ’60, e so che non era uomo d’onore. Del resto, conoscevo anche DI MAGGIO GIUSEPPE con il quale peraltro non ho avuto rapporti di alcun genere».

Se le dichiarazioni del BUSCETTA permettono di avere un quadro abbastanza esatto dello “spessore” mafioso di NINO SORCI, quelle di SALVATORE CONTORNO consentono di collocare lo stesso, definitivamente, nel novero degli amici di STEFANO BONTATE.

Il CONTORNO, dopo aver indicato in NINO SORCI ed in suo figlio CARLO, rispettivamente, il rappresentante della famiglia di Villagrazia ed un componente della stessa, ne ricordava, indirettamente, il ruolo assunto subito dopo l’omicidio di STEFANO BONTATE.

La famiglia SORCI, infatti, secondo quanto riferito dal BUSCETTA, dopo l’uccisione del capo di Santa Maria Di Gesù, doveva aver fatto profferte di lealtà verso i “vincenti”. Un riscontro significativo di quanto dichiarato dal BUSCETTA lo si ritrova nel racconto delle vicende relative alla eliminazione di GIROLAMO TERESI, GIUSEPPE DI FRANCO, ANGELO e SALVATORE FEDERICO, fatto dal CONTORNO.

Questo della contemporanea eliminazione di quattro dei più fidati amici del BONTATE, è uno dei più feroci episodi della guerra di mafia e nello stesso si ritrovano implicati i SORCI i quali, proprio per mostrare quanto leali fossero ai vincenti, avevano messo a disposizione degli stessi la loro proprietà per far cadere in trappola i predetti amici di STEFANO BONTATE. E ciò a meno di voler ritenere che neanche i SORCI fossero a conoscenza delle reali intenzioni di coloro che avevano fissato un appuntamento nel loro baglio ai quattro malcapitati.

[…] L’incontro, invece, si risolveva con la eliminazione dei quattro e ciò, presumibilmente, con il previo consenso del SORCI che, cosi’, mostrava la sua fattiva collaborazione con i vincenti.

Questi ultimi, però, non potevano dimenticare che, dopo tutto, il SORCI restava pur sempre un alleato infido, essendo stato un amico del BONTATE e, prima ancora, di “CICCHITEDDU”, attraverso il quale aveva inferto una bruciante sconfitta a LUCIANO LEGGIO che, come riferito dal BUSCETTA, aveva dovuto rinunciare a percepire somme dal DI CARLO.

Tutta la vicenda della scalata al potere dei corleonesi dimostra come questi abbiano sempre diffidato di “alleati” insicuri e ne abbiano sempre decretato la soppressione.

Vale, come esempio per tutte, la vicenda di NINO BADALAMENTI che, pur essendo stato chiamato a sostituire l’odiato cugino GAETANO, era stato ugualmente eliminato in quanto, pur sempre, rimaneva un “BADALAMENTI”.

LATITANTE ALL’INSAPUTA DELLA FAMIGLIA Eliminato, quindi, il SORCI, la stessa fine veniva riservata al cugino SORCI FRANCESCO, ucciso il 25 giugno di quell’anno, poco più di due mesi dopo, in via Agnetta, nella abitazione rurale vicina al fondo di NINO SORCI.

SORCI FRANCESCO – latitante a seguito dell’emissione del mandato di cattura emesso da questo Ufficio il 17.8.82 – era uno dei mafiosi inseriti nel rapporto redatto dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei CC. di Palermo a carico di GRECO MICHELE più 160.

SORCI FRANCESCA – figlia della vittima – dichiarava di aver rinvenuto il cadavere del padre verso le ore 18 – 18,30 di quella sera, mentre, in compagnia dei suoi tre figli minori, si recava a fargli visita nella casa di campagna ove costui abitava da solo.

Secondo la SORCI, dopo aver parcheggiato l’auto, si era avviata verso la casa ed aveva constatato come la porta d’ingresso fosse chiusa.

Entrata, aveva constatato che il padre giaceva a terra in una pozza di sangue e, pertanto, dopo essersi ripresa dallo shock, aveva avvisato telefonicamente gli altri congiunti.

La donna precisava di aver trovato il cancello che sbarra la via Agnetta regolarmente chiuso con il lucchetto le cui chiavi erano in possesso di tutti i suoi congiunti, nonché degli altri proprietari dei terreni limitrofi.

Tutti gli altri congiunti del SORCI – ad eccezione del figlio CARLO – dichiaravano di ignorare che il defunto fosse latitante e che, comunque, avesse esternato timori per la propria incolumità.

Nessuno, inoltre, era in grado di fornire notizie utili ai fini delle indagini.

Già si è visto, dalle dichiarazioni di TOMMASO BUSCETTA, che SORCI FRANCESCO, “uomo d’onore” della “famiglia” di Villagrazia, era capo mandamento in seno alla Commissione all’epoca di “CICCHITEDDU”.

Anche in ordine alla uccisione del predetto, quindi, è chiara la sussistenza della stessa causale concernente la eliminazione di “NINU U RICCU”.

La vittima, cioè, proprio a causa dei suoi stretti legami di amicizia con il BONTATE, era elemento non sicuro e rappresentava, al pari del cugino, un ostacolo alla espansione della egemonia di MICHELE GRECO e dei corleonesi.

[…] I due SORCI, dunque, secondo la perizia, erano stati uccisi anche con una COLT – COBRA sequestrata agli ABBATE, legati ai GRECO di Croceverde – Giardini da vincoli di parentela e di affari, nonché inseriti nella famiglia di Corso Dei Mille – Roccella come dichiarato da SALVATORE CONTORNO.

[…] E’, dunque, certo che i SORCI, legati da un rapporto di totale adesione ai gruppi mafiosi “vincenti”, pur avendo tentato di ingraziarsi i GRECO ed i corleonesi dopo l’omicidio BONTATE, non erano riusciti nel loro intento.

Questo intenso legame con gli altri gruppi mafiosi è, tra l’altro, dimostrato dalla seguente circostanza: ANTONINO SORCI aveva venduto il terreno sul quale era stata edificata la villa di via Valenza in Villagrazia di Palermo e nella quale, il 19 ottobre 81, la polizia interrompeva un summit mafioso.

Tale villa era circondata da altre ville di personaggi di spicco all’interno di “Cosa Nostra”, tra i quali, lo stesso SORCI CARLO, MARCHESE ROSARIO, MARCHESE SALVINO, MONDINO GIROLAMO, GRECO TOMMASO padre di GRECO CARLO, DI MAGGIO IPPOLITO zio dei fratelli MAFARA e fratello di GIUSEPPE DI MAGGIO, rappresentante della famiglia di Brancaccio prima che tale carica fosse assunta da PINO SAVOCA.

Gli omicidi dei SORCI, quindi, si inquadrano nel contesto della eliminazione di quanti, già, amici del BONTATE, non venivano ritenuti dei sicuri alleati dei gruppi “vincenti”. […]. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo a cura di COSA VOSTRA


 

E C’È LO SFRATTO DI MASSA DEGLI “INAFFIDABILI” DALLA BORGATA DI CIACULLI  Agli abitanti del quartiere inviate lettere come questa: «Caro Francesco, hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli con tutta la tua famiglia. Hai poi un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli ricadranno su di te e ai tuoi cari gravi disgrazie, addio»

Il 9.9.1982, con la contemporanea scomparsa di ANTONIO e BENEDETTO BUSCETTA, figli di primo letto di TOMMASO, aveva inizio una feroce persecuzione contro quest’ultimo.

Come si è accennato, TOMMASO BUSCETTA era partito per il Brasile nei primi giorni del gennaio 1981, dopo avere salutato gli amici in un pranzo di addio offerto da STEFANO BONTATE.

Il suo allontanamento aveva indotto i corleonesi a ritenere che egli si fosse voluto autoemarginare per tenersi fuori dalla mischia, tant’è che, per oltre un anno dopo l’omicidio di STEFANO BONTATE, nessuna rappresaglia era stata compiuta nei confronti di suoi parenti e amici benché fosse ben nota la sua fraterna amicizia col defunto “rappresentante” di “S. Maria di Gesù”.

Egli, del resto, aveva accuratamente evitato, fino ad allora, di farsi coinvolgere nella guerra di mafia ed aveva perfino declinato, avvedutamente, l’invito rivoltogli dai SALVO, per il tramite di IGNAZIO LO PRESTI, di tornare a Palermo per verificare cosa stava accadendo.

Ma la venuta di GAETANO BADALAMENTI in Brasile con lo scopo di convincere il BUSCETTA ad aiutarlo nei suoi propositi di rivincita mutava completamente il quadro della situazione e determinava il coinvolgimento del BUSCETTA, suo malgrado, nella c.d. “guerra di mafia”.

GAETANO BADALAMENTI, infatti, voleva a qualunque costo tentare di riprendere in mano la situazione, come egli stesso aveva confidato a VINCENZO GRADO, dicendo che sperava di ottenere l’appoggio della mafia calabrese, e come risulta da alcune telefonate intercettate di prossimi congiunti del detto BADALAMENTI, in cui si parla dell’invio in Sicilia di una squadra per compiere eclatanti uccisioni di avversari.

Egli, quindi, andando a trovare BUSCETTA in Brasile voleva convincerlo a scendere in campo contro i corleonesi.

Stranamente ANTONIO SALAMONE, residente in Brasile come BUSCETTA, era già informato dell’arrivo e delle intenzioni del BADALAMENTI ancor prima che questi giungesse in Brasile, benché non si potesse ritenere di certo un suo amico. Ciò probabilmente si può spiegare ipotizzando, come prospettato da BUSCETTA, che BADALAMENTI avesse intenzionalmente diffuso tra amici ed avversari la voce che BUSCETTA era ormai dalla sua parte, perché Ciò sarebbe stato un fattore catalizzatore della dissidenza interna contro i corleonesi.

Il BUSCETTA, comunque, non si era lasciato convincere dai bellicosi propositi di riscossa del BADALAMENTI, il quale gli aveva pure suggerito di fare uccidere in carcere LUCIANO LEGGIO, sfruttando l’amicizia stretta nelle carceri italiane con elementi della malavita catanese e milanese. I corleonesi, però, certi della sua alleanza con BADALAMENTI, gli mandavano, a meno di un mese dell’arrivo di quest’ultimo in Brasile, un sinistro e spietato avvertimento, sopprimendogli ben due figli.

Dopo questo evento, BADALAMENTI si incontrava ancora col BUSCETTA in Brasile e gli rinnovava la proposta di allearsi con lui per capeggiare la riscossa, avendo adesso un motivo in più: quello di vendicare la morte dei figli.

Ma il BUSCETTA, a sua detta, respingeva nuovamente l’invito del BADALAMENTI, sperando che, di fronte a questa sua mancata reazione, i corleonesi avrebbero desistito dalla feroce persecuzione contro i suoi familiari.

Alla luce degli eventi successivi, e pur riconoscendo al BUSCETTA lealtà nella collaborazione con la giustizia, è lecito nutrire qualche perplessità sulla sua mancanza di propositi di rivincita dopo la crudele uccisione dei suoi figli.

ROSARIO RICCOBONO IL TRADITORE Giova precisare, però, che, ad avviso di chi scrive, sono del tutto ingiustificati i sospetti che, per un certo tempo, anche fra gli inquirenti, si sono addensati sul BUSCETTA, quale ispiratore delle uccisioni e delle improvvise sparizioni di elementi di spicco della “famiglia” di ROSARIO RICCOBONO, E forse anche della scomparsa di quest’ultimo, avvenute nel novembre 1982. Addirittura, era circolata la notizia, proveniente dalle solite incontrollabili fonti confidenziali, secondo cui BUSCETTA, rientrato clandestinamente a Palermo, aveva invitato ad un pranzo di pacificazione ROSARIO RICCOBONO con una quindicina degli elementi di maggiore spicco della sua “famiglia” e li aveva avvelenati.

Ora, a parte che non vi è assolutamente traccia dell’allontanamento del prevenuto dal Brasile in quel periodo e semmai vi è la prova del contrario, un minimo di logica avrebbe evitato di portare avanti una simile ipotesi, che non resiste al vaglio di una critica anche superficiale.

Non è ipotizzabile, anzitutto, che un personaggio astuto e perfido come il RICCOBONO, il cui tradimento degli alleati di un tempo era ben noto a tutti, accettasse un invito da parte di BUSCETTA, notoriamente affezionato a STEFANO e – in quel momento – vicino a GAETANO BADALAMENTI.

è, poi, da considerare che, oltre alla scomparsa di entrambi i generi di ROSARIO RICCOBONO (MICHELE MICALIZZI e SALVATORE LAURICELLA) e, forse, dello stesso RICCOBONO, è stata registrata anche l’uccisione di elementi di fiducia della “famiglia” del RICCOBONO (CANNELLA VINCENZO e FILIANO GIOVANNI), avvenuta nel corso di una sparatoria al Bar Singapore, eventi – tutti – che hanno colpito la famiglia del RICCOBONO, schieratasi coi corleonesi.

Ebbene, tali fatti non hanno comportato nessuna apprezzabile e tempestiva reazione contro chicchessia, quale, purtroppo, avviene ogni volta che il clan dei corleonesi subisce una perdita.

La conclusione, dunque, non può che essere una sola.

RICCOBONO – che erroneamente aveva creduto di riscattarsi dai suoi trascorsi con BONTATE tradendo anche i suoi migliori amici (EMANUELE D’AGOSTINO e NINO BADALAMENTI) – alla fine o è stato eliminato a sua volta o, comunque, è stato costretto alla fuga, lasciando il campo ad un personaggio come PORCELLI ANTONINO, suo vice, ritenuto dai corleonesi di gran lunga più affidabile del BALZANO e imprevedibile cugino.

CIACULLI, IL REGNO DEL POTERE MAFIOSO Nello stesso periodo, e, cioè, il 19.11.1982, veniva consumato un altro crimine efferato: l’uccisione del giovanissimo figlio (appena diciassette anni) di NINO BADALAMENTI, SALVATORE. Era un chiaro “avvertimento” a GAETANO BADALAMENTI, dopo l’analogo avvertimento a TOMMASO BUSCETTA.

Di fronte a siffatta, inarrestabile furia sanguinaria il fronte dei “perdenti” decideva di passare al contrattacco, tendendo un agguato ad uno degli avversari più feroci, PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”.

[…] La reazione dei “vincenti” a questo attentato era immediata e feroce. Il giorno successivo, 26.12.1982, venivano uccisi a Palermo FICANO GASPARE e FICANO MICHELE, onesti lavoratori colpevoli solo di essere padre e fratello della convivente di GIOVANNELLO GRECO, nonché GENOVA GIUSEPPE, genero di TOMMASO BUSCETTA (avendone sposato la figlia FELICIA), e due suoi cugini, D’AMICO ANTONIO e D’AMICO ORAZIO. Tutti questi delitti venivano consumati con la stessa pistola.

Ma la strage non era ancora finita: il 27.12.1982, veniva ucciso AMODEO PAOLO, ottimo amico della famiglia di GIOVANNELLO GRECO, e, il 29.12.1982, il fratello di TOMMASO BUSCETTA, VINCENZO, nonché il figlio di quest’ultimo, BENEDETTO.

La vendetta proseguiva negli U.S.A., dove, a Fort Lauderdale, l’8.2.1983, veniva ucciso ROMANO GIUSEPPE (“U MIRICANU”), coinvolto nella “tufiata” dei Ciaculli, nonché GIUSEPPE TRAMONTANA, un vecchio amico del BUSCETTA che si trovava in compagnia del ROMANO. Il 16.3.1983, poi, veniva ucciso AMODEO GIOVANNI, fratello di PAOLO.

L’attentato a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” denunciava, però, l’esistenza di una pericolosa crepa nello stato della sicurezza ambientale della borgata “Ciaculli”, per la presenza di famiglie, in un modo o in un altro, legate a SALVATORE GRECO “CICCHITTEDDU”, GIOVANNELLO GRECO e SALVATORE CONTORNO.

Il problema veniva risolto subito ed in radice.

Tutte le famiglie men che affidabili venivano costrette ad abbandonare precipitosamente le loro abitazioni ai Ciaculli, e le strade interpoderali della borgata, come è emerso dalle indagini di polizia e carabinieri, venivano munite di un sistema tale di cancelli e di transennature da rendere presso che impossibile un’agevole circolazione e quindi un fattivo intervento delle forze dell’ordine.

Appena la polizia giudiziaria aveva notizie, da fonte confidenziale, dell’esodo di diverse famiglie da Ciaculli subito dopo l’attentato a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, eseguiva numerose perquisizioni domiciliari e, nell’abitazione di tale BONACCORSO FRANCESCO (che appariva abbandonata), rinveniva le seguenti lettere anonime, che giova riportare integralmente.

La prima risulta spedita il 7.1.1983 ed è del seguente tenore: “Caro FRANCESCO hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli con tutta la tua famiglia. Hai poi un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli ricadranno su di te e ai tuoi cari gravi disgrazie, addio”.

La seconda, ancora più perentoria, è del 18.1.1983: “Caro FRANCESCO, ti comunichiamo che a partire da oggi 19.1.1983 hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli insieme alla tua famiglia. Poi hai un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli si riverseranno su di te gravi conseguenze. Addio”. La terza, spedita dopo che il BONACCORSO aveva abbandonato la propria abitazione, è del seguente tenore: “Caro FRANCESCO, se vediamo un’altra volta tua moglie a Ciaculli saremo costretti a prendere gravi provvedimenti nei tuoi confronti. Quindi se tu vuoi evitare questo ti preghiamo di non far salire più tua moglie a Ciaculli.

Guarda che questo e l’ultimo avvertimento e che questa è l’ultima lettera che ti mandiamo. Allora a partire dal giorno che riceverai questa lettera non ti dovrai far vedere più”.

In concomitanza con quest’ultima lettera, il 9.11.1983, venivano date alle fiamme le autovetture della moglie e del cognato del BONACCORSO, parcheggiate in via Ciaculli, 160, ma costoro, in sede di denunzia, dichiaravano, contrariamente al vero, di non avere subito intimidazioni o minacce da parte di chicchessia.

I coniugi BONACCORSO – MERLINO, come è stato accertato, hanno abbandonato un confortevole appartamento sito nella via Ciaculli 160 ed hanno sospeso i lavori di costruzioni di un edificio nella stessa borgata, per andare a convivere in via Pianel presso la figlia. MERLINO ROSA, interrogata, ha dichiarato di essersi trasferita presso la figlia per motivi personali e non ha voluto dire nulla né in ordine alle lettere anonime ricevute dal marito né su analoghe lettere anonime ricevute da altri abitanti della borgata.

Tanti altri appartamenti della borgata sono stati trovati disabitati; quattro – però – sono stati trovati, oltre che aperti, anche con tracce di effrazione e precisamente: l’appartamento sito in via Ciaculli, 7 appartenente al defunto PIETRO MARCHESE, cognato di GIOVANNELLO GRECO; quello di GRECO SALVATORE, padre del GIOVANNELLO (via Ciaculli 21) ucciso, come si è visto, al pari di PIETRO MARCHESE; quello di GRECO SALVATORE “CICCHITTEDDU” (via Ciaculli, 209), vecchio capo carismatico della mafia palermitana, deceduto nel 1978, odiato cugino di MICHELE GRECO; quello di GIUSEPPE (PINE’) GRECO (via Ciaculli, 279), fratello di “CICCHITTEDDU”, per il quale, come si è visto, ANTONIO SALAMONE aveva ottenuto da MICHELE GRECO l’impunità ed il permesso di allontanarsi da Palermo.

La villa di SALVATORE CONTORNO, costruita in territorio di Ciaculli col “permesso” di MICHELE GRECO (come ha riferito lo stesso CONTORNO), oltre ad essere aperta ed in stato di abbandono, presentava evidenti segni di vandalismo sia nelle strutture murarie sia nei mobili.

Questa storia di case danneggiate costituisce una ulteriore conferma degli schieramenti mafiosi, e dell’attendibilità di BUSCETTA e CONTORNO.

Veniva, poi, accertato, nel corso di sopralluoghi, che in Ciaculli, nei punti di congiunzione delle stradelle interpoderali con le strade urbane, erano stati installati alti cancelli chiusi con lucchetti e che, all’interno della rete viaria interpoderale, erano state apposte robuste catene, anch’esse assicurate con lucchetti, che impedivano di percorrere le stradelle a chi non fosse munito delle relative chiavi.

Queste vicende offrono il quadro desolante di un’intera borgata praticamente in mano alla mafia che detta legge con la violenza e l’intimidazione.

LA MATTANZA CHE NON FINISCE MAI Il 16.3.1983 riprendeva l’offensiva dei vincenti con l’uccisione, a Palermo, di AMODEO GIOVANNI, fratello di PAOLO (già ucciso, come si è visto, il 27.12.1982) e di BELLINI CALOGERO (“LILLO L’ELETTRICISTA”), cugino dei GRADO e di CONTORNO, il quale aveva dato ospitalita’ a GRADO ANTONINO, prima che questi si recasse, con FRANCO MAFARA, all’appuntamento dal quale non aveva fatto più ritorno.

Il 17 marzo 1983, era la volta di PESCO VINCENZO, zio di GIOVANNELLO GRECO.

Il 2.6.1983, a sottolineare il perdurante pericolo che GAETANO BADALAMENTI rappresentava per i suoi avversari, veniva ucciso, a marsala, il di lui nipote, SILVIO BADALAMENTI, un giovane inizialmente arrestato perché ritenuto coinvolto nelle illecite attività dello zio, ma successivamente scarcerato essendo stata accertata l’inconsistenza degli indizi a suo carico.

[…] Il 12.4. ed il 5.6.1983, venivano eliminati SORCI ANTONINO, “rappresentante” della famiglia di Villagrazia, il figlio CARLO ed il fratello FRANCESCO.

Con questi assassinii venivano ulteriormente consolidate le posizioni dei corleonesi e dei loro alleati, poiché venivano eliminati dei soggetti che, come ha riferito BUSCETTA, non erano ritenuti, per gli antichi contrasti tra ANTONINO SORCI e LUCIANO LEGGIO, del tutto affidabili, malgrado la prova di “lealtà” di NINO SORCI, che aveva addirittura consentito che nel suo baglio venissero uccisi GIROLAMO TERESI, GIUSEPPE DI FRANCO e i due FEDERICO.

Il 22.8.1983, veniva assassinato MARCHESE GIUSEPPE, fratello dell’ucciso MARCHESE PIETRO.

Questo omicidio aveva una evidente finalità deterrente in quanto MARCHESE GIUSEPPE avrebbe potuto, prima o poi, accarezzare l’idea di vendicare il fratello.

Il 21.11.1983, la strage proseguiva con l’uccisione, nell’ospedale di Carini dove era ricoverato, di BADALAMENTI NATALE, un fedelissimo di GAETANO BADALAMENTI.

Il 20.2.1984, a Solingen (RFT), veniva ucciso il figlio di GAETANO BADALAMENTI, AGOSTINO, sicuramente estraneo a qualsiasi attività criminosa.

Per tale delitto l’autorità giudiziaria di Wuppertal ha emesso ordine di arresto nei confronti di ANTONIO VENTIMIGLIA (in Italia, allo stato, si procede ancora contro ignoti). Si è già avuto modo di parlare di questo assassinio nella parte concernente il traffico di eroina negli U.S.A., gestito e diretto da GAETANO BADALAMENTI, ed in quella sede si è riportata la telefonata fra due donne del clan di quest’ultimo, in cui si commentava amaramente la triste sorte di AGOSTINO BADALAMENTI, che era stato brutalmente seviziato ed ucciso.

Si è, inoltre, già puntualizzata la significanza dell’accertato coinvolgimento – nell’omicidio in questione – di ANTONIO VENTIMIGLIA, un personaggio originario di Terrasini implicato nel traffico internazionale degli stupefacenti sotto l’aspetto finanziario, e si sono esposti i nessi che legano il VENTIMIGLIA ad ANTONINO ROTOLO e a MADONIA ANTONINO, figlio di MADONIA FRANCESCO, rappresentante, quest’ultimo, della “famiglia” di Resuttana e fidatissimo alleato dei corleonesi.

Anche se per tale omicidio, quindi, l’istruttoria non è ancora completa, si può senz’altro affermare che le risultanze finora acquisite ne confermano integralmente l’inquadramento nella c.d. guerra di mafia, come rappresaglia nei confronti di GAETANO BADALAMENTI.

GAETANO BADALAMENTI, UN MAFIOSO “SFUGGENTE” Nella lunghissima serie di delitti che hanno caratterizzato la c.d. guerra di mafia, nemmeno uno si può attribuire ai perdenti, ad eccezioni dell’attentato del Natale 1982 contro PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, andato a vuoto. […]

Per quanto riguarda il ruolo di TOMMASO BUSCETTA nella guerra di mafia è opportuno fare alcune precisazioni.

Ben sette persone della sua famiglia sono state eliminate nel 1982. Nel dicembre 1984, poi, e cioè dopo che egli aveva cominciato a collaborare con la giustizia, gli è stato ucciso il cognato, PIETRO BUSCETTA, per rappresaglia.

Nonostante tutto, TOMMASO BUSCETTA, a suo dire, non ha mai avuto alcuna intenzione di reagire con le armi; ed anzi, ha sempre respinto le offerte di GAETANO BADALAMENTI di unirsi a lui per vendicare i morti, malgrado il contrario convincimento dei corleonesi.

I suoi pregressi comportamenti (abbandono di “Cosa Nostra” ed emigrazione in Brasile; rifiuto di ritornare a Palermo dopo l’omicidio di BONTATE ed INZERILLO, nonostante le sollecitazioni dei Salvo) sembrerebbero confermare le sue parole, ma rimangono ancora dei punti da chiarire.

Desta, infatti, qualche perplessità la presenza, tra gli attentatori di PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, di quel ROMANO GIUSEPPE che sarebbe stato ucciso, dopo pochi mesi, a Fort Lauderdale (U.S.A.), insieme con TRAMONTANA GIUSEPPE, quest’ultimo amico di TOMMASO BUSCETTA.

Lasciano poi da pensare le dichiarazioni di FABRIZIO SANSONE e di GIUSEPPE BIZZARRO, secondo cui il BUSCETTA si è recato in Europa (probabilmente in Spagna) nell’estate del 1983.

Il SANSONE ha – comunque – escluso che BUSCETTA sia venuto in Sicilia, perché, durante la sua detenzione in Brasile con quest’ultimo, lo aveva sentito lamentarsi del fatto che il BADALAMENTI gli aveva promesso di farlo accompagnare in Sicilia da un figlio o da un uomo di fiducia, senza però mantenere l’impegno.

Ma è proprio la presenza del BUSCETTA in Spagna che lascia adito a sospetti, ove si consideri che, in quel paese, si erano rifugiati i fratelli GRADO; che in Spagna è stato arrestato GAETANO BADALAMENTI il 9.4.1984 con PIETRO ALFANO; e che in SPAGNA era diretto anche GIOVANNELLO GRECO, partito da Rio De Janeiro il 24.3.1984, usando il falso nome di RENATO PEREZ SILVA.

Diversa è stata la posizione di GAETANO BADALAMENTI, nella guerra di mafia.

Egli infatti, fino al momento del suo arresto, ha sempre cercato dichiaratamente la rivincita, nonostante gli arresti e le uccisioni di amici e parenti.

In un primo momento, dopo l’uccisione di STEFANO BONTATE, egli aveva offerto – ma senza successo – il suo aiuto a SALVATORE INZERILLO, come BUSCETTA ha appreso da ANTONIO SALAMONE.

Successivamente aveva tentato di convertire alla sua causa i GRADO, secondo quanto ha dichiarato TOTTA GENNARO, ma aveva ricevuto un rifiuto. Infine si era rivolto a BUSCETTA, il quale si sarebbe tirato indietro.

Quindi, un po’ tutti erano restii ad assecondare i propositi di vendetta del BADALAMENTI, forse anche a causa di qualcosa di grave – e tuttora oscuro – che lo riguardava. E’ certo – comunque – che il BADALAMENTI, nonostante la sua espulsione, continuava ad avere un ruolo non secondario in seno alla mafia e perfino nel traffico di stupefacenti e che – risulta dalle intercettazioni telefoniche – stava inviando un gruppo di suoi fidi in Sicilia, certamente per compiere azioni ritorsive.

A ciò si aggiunga che, nonostante la perdurante rappresaglia nei suoi confronti (vedi l’uccisione di AGOSTINO BADALAMENTI del 20.2.1984), il suo fido PIETRO ALFANO si era incontrato a New York, per motivi sicuramente attinenti al traffico di stupefacenti, con GIOVANNI CANGIALOSI da Borgetto, appartenente ai gruppi vincenti. A questo punto, a meno di ipotizzare che i suoi interlocutori ignorassero che ALFANO era l’emissario di BADALAMENTI (il che sembra, francamente, impossibile), è evidente che c’è qualcosa di sfuggente e di strano nel comportamento di quest’ultimo, che forse giustifica le riserve – un po’ di tutti – ad accettare le sue proposte di collaborazione. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


 

E C’È LO SFRATTO DI MASSA DEGLI “INAFFIDABILI” DALLA BORGATA DI CIACULLI Agli abitanti del quartiere inviate lettere come questa: «Caro Francesco, hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli con tutta la tua famiglia. Hai poi un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli ricadranno su di te e ai tuoi cari gravi disgrazie, addio»

Il 9.9.1982, con la contemporanea scomparsa di ANTONIO e BENEDETTO BUSCETTA, figli di primo letto di TOMMASO, aveva inizio una feroce persecuzione contro quest’ultimo.

Come si è accennato, TOMMASO BUSCETTA era partito per il Brasile nei primi giorni del gennaio 1981, dopo avere salutato gli amici in un pranzo di addio offerto da STEFANO BONTATE.

Il suo allontanamento aveva indotto i corleonesi a ritenere che egli si fosse voluto autoemarginare per tenersi fuori dalla mischia, tant’è che, per oltre un anno dopo l’omicidio di STEFANO BONTATE, nessuna rappresaglia era stata compiuta nei confronti di suoi parenti e amici benché fosse ben nota la sua fraterna amicizia col defunto “rappresentante” di “S. Maria di Gesù”.

Egli, del resto, aveva accuratamente evitato, fino ad allora, di farsi coinvolgere nella guerra di mafia ed aveva perfino declinato, avvedutamente, l’invito rivoltogli dai SALVO, per il tramite di IGNAZIO LO PRESTI, di tornare a Palermo per verificare cosa stava accadendo.

Ma la venuta di GAETANO BADALAMENTI in Brasile con lo scopo di convincere il BUSCETTA ad aiutarlo nei suoi propositi di rivincita mutava completamente il quadro della situazione e determinava il coinvolgimento del BUSCETTA, suo malgrado, nella c.d. “guerra di mafia”.

GAETANO BADALAMENTI, infatti, voleva a qualunque costo tentare di riprendere in mano la situazione, come egli stesso aveva confidato a VINCENZO GRADO, dicendo che sperava di ottenere l’appoggio della mafia calabrese, e come risulta da alcune telefonate intercettate di prossimi congiunti del detto BADALAMENTI, in cui si parla dell’invio in Sicilia di una squadra per compiere eclatanti uccisioni di avversari.

Egli, quindi, andando a trovare BUSCETTA in Brasile voleva convincerlo a scendere in campo contro i corleonesi.

Stranamente ANTONIO SALAMONE, residente in Brasile come BUSCETTA, era già informato dell’arrivo e delle intenzioni del BADALAMENTI ancor prima che questi giungesse in Brasile, benché non si potesse ritenere di certo un suo amico. Ciò probabilmente si può spiegare ipotizzando, come prospettato da BUSCETTA, che BADALAMENTI avesse intenzionalmente diffuso tra amici ed avversari la voce che BUSCETTA era ormai dalla sua parte, perché Ciò sarebbe stato un fattore catalizzatore della dissidenza interna contro i corleonesi.

Il BUSCETTA, comunque, non si era lasciato convincere dai bellicosi propositi di riscossa del BADALAMENTI, il quale gli aveva pure suggerito di fare uccidere in carcere LUCIANO LEGGIO, sfruttando l’amicizia stretta nelle carceri italiane con elementi della malavita catanese e milanese. I corleonesi, però, certi della sua alleanza con BADALAMENTI, gli mandavano, a meno di un mese dell’arrivo di quest’ultimo in Brasile, un sinistro e spietato avvertimento, sopprimendogli ben due figli.

Dopo questo evento, BADALAMENTI si incontrava ancora col BUSCETTA in Brasile e gli rinnovava la proposta di allearsi con lui per capeggiare la riscossa, avendo adesso un motivo in più: quello di vendicare la morte dei figli.

Ma il BUSCETTA, a sua detta, respingeva nuovamente l’invito del BADALAMENTI, sperando che, di fronte a questa sua mancata reazione, i corleonesi avrebbero desistito dalla feroce persecuzione contro i suoi familiari.

Alla luce degli eventi successivi, e pur riconoscendo al BUSCETTA lealtà nella collaborazione con la giustizia, è lecito nutrire qualche perplessità sulla sua mancanza di propositi di rivincita dopo la crudele uccisione dei suoi figli.

ROSARIO RICCOBONO IL TRADITORE Giova precisare, però, che, ad avviso di chi scrive, sono del tutto ingiustificati i sospetti che, per un certo tempo, anche fra gli inquirenti, si sono addensati sul BUSCETTA, quale ispiratore delle uccisioni e delle improvvise sparizioni di elementi di spicco della “famiglia” di ROSARIO RICCOBONO, E forse anche della scomparsa di quest’ultimo, avvenute nel novembre 1982. Addirittura, era circolata la notizia, proveniente dalle solite incontrollabili fonti confidenziali, secondo cui BUSCETTA, rientrato clandestinamente a Palermo, aveva invitato ad un pranzo di pacificazione ROSARIO RICCOBONO con una quindicina degli elementi di maggiore spicco della sua “famiglia” e li aveva avvelenati.

Ora, a parte che non vi è assolutamente traccia dell’allontanamento del prevenuto dal Brasile in quel periodo e semmai vi è la prova del contrario, un minimo di logica avrebbe evitato di portare avanti una simile ipotesi, che non resiste al vaglio di una critica anche superficiale.

Non è ipotizzabile, anzitutto, che un personaggio astuto e perfido come il RICCOBONO, il cui tradimento degli alleati di un tempo era ben noto a tutti, accettasse un invito da parte di BUSCETTA, notoriamente affezionato a STEFANO e – in quel momento – vicino a GAETANO BADALAMENTI.

è, poi, da considerare che, oltre alla scomparsa di entrambi i generi di ROSARIO RICCOBONO (MICHELE MICALIZZI e SALVATORE LAURICELLA) e, forse, dello stesso RICCOBONO, è stata registrata anche l’uccisione di elementi di fiducia della “famiglia” del RICCOBONO (CANNELLA VINCENZO e FILIANO GIOVANNI), avvenuta nel corso di una sparatoria al Bar Singapore, eventi – tutti – che hanno colpito la famiglia del RICCOBONO, schieratasi coi corleonesi.

Ebbene, tali fatti non hanno comportato nessuna apprezzabile e tempestiva reazione contro chicchessia, quale, purtroppo, avviene ogni volta che il clan dei corleonesi subisce una perdita.

La conclusione, dunque, non può che essere una sola.  RICCOBONO – che erroneamente aveva creduto di riscattarsi dai suoi trascorsi con BONTATE tradendo anche i suoi migliori amici (EMANUELE D’AGOSTINO e NINO BADALAMENTI) – alla fine o è stato eliminato a sua volta o, comunque, è stato costretto alla fuga, lasciando il campo ad un personaggio come PORCELLI ANTONINO, suo vice, ritenuto dai corleonesi di gran lunga più affidabile del BALZANO e imprevedibile cugino.

CIACULLI, IL REGNO DEL POTERE MAFIOSO Nello stesso periodo, e, cioè, il 19.11.1982, veniva consumato un altro crimine efferato: l’uccisione del giovanissimo figlio (appena diciassette anni) di NINO BADALAMENTI, SALVATORE. Era un chiaro “avvertimento” a GAETANO BADALAMENTI, dopo l’analogo avvertimento a TOMMASO BUSCETTA.

Di fronte a siffatta, inarrestabile furia sanguinaria il fronte dei “perdenti” decideva di passare al contrattacco, tendendo un agguato ad uno degli avversari più feroci, PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”.

[…] La reazione dei “vincenti” a questo attentato era immediata e feroce. Il giorno successivo, 26.12.1982, venivano uccisi a Palermo FICANO GASPARE e FICANO MICHELE, onesti lavoratori colpevoli solo di essere padre e fratello della convivente di GIOVANNELLO GRECO, nonché GENOVA GIUSEPPE, genero di TOMMASO BUSCETTA (avendone sposato la figlia FELICIA), e due suoi cugini, D’AMICO ANTONIO e D’AMICO ORAZIO. Tutti questi delitti venivano consumati con la stessa pistola.

Ma la strage non era ancora finita: il 27.12.1982, veniva ucciso AMODEO PAOLO, ottimo amico della famiglia di GIOVANNELLO GRECO, e, il 29.12.1982, il fratello di TOMMASO BUSCETTA, VINCENZO, nonché il figlio di quest’ultimo, BENEDETTO.

La vendetta proseguiva negli U.S.A., dove, a Fort Lauderdale, l’8.2.1983, veniva ucciso ROMANO GIUSEPPE (“U MIRICANU”), coinvolto nella “tufiata” dei Ciaculli, nonché GIUSEPPE TRAMONTANA, un vecchio amico del BUSCETTA che si trovava in compagnia del ROMANO. Il 16.3.1983, poi, veniva ucciso AMODEO GIOVANNI, fratello di PAOLO.

L’attentato a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” denunciava, però, l’esistenza di una pericolosa crepa nello stato della sicurezza ambientale della borgata “Ciaculli”, per la presenza di famiglie, in un modo o in un altro, legate a SALVATORE GRECO “CICCHITTEDDU”, GIOVANNELLO GRECO e SALVATORE CONTORNO.

Il problema veniva risolto subito ed in radice.

Tutte le famiglie men che affidabili venivano costrette ad abbandonare precipitosamente le loro abitazioni ai Ciaculli, e le strade interpoderali della borgata, come è emerso dalle indagini di polizia e carabinieri, venivano munite di un sistema tale di cancelli e di transennature da rendere presso che impossibile un’agevole circolazione e quindi un fattivo intervento delle forze dell’ordine.

Appena la polizia giudiziaria aveva notizie, da fonte confidenziale, dell’esodo di diverse famiglie da Ciaculli subito dopo l’attentato a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, eseguiva numerose perquisizioni domiciliari e, nell’abitazione di tale BONACCORSO FRANCESCO (che appariva abbandonata), rinveniva le seguenti lettere anonime, che giova riportare integralmente.

La prima risulta spedita il 7.1.1983 ed è del seguente tenore: “Caro FRANCESCO hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli con tutta la tua famiglia. Hai poi un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli ricadranno su di te e ai tuoi cari gravi disgrazie, addio”.

La seconda, ancora più perentoria, è del 18.1.1983: “Caro FRANCESCO, ti comunichiamo che a partire da oggi 19.1.1983 hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli insieme alla tua famiglia. Poi hai un anno di tempo per venderti tutto quello che hai. Se dopo il mese sarai ancora a Ciaculli si riverseranno su di te gravi conseguenze. Addio”. La terza, spedita dopo che il BONACCORSO aveva abbandonato la propria abitazione, è del seguente tenore: “Caro FRANCESCO, se vediamo un’altra volta tua moglie a Ciaculli saremo costretti a prendere gravi provvedimenti nei tuoi confronti. Quindi se tu vuoi evitare questo ti preghiamo di non far salire più tua moglie a Ciaculli.

Guarda che questo e l’ultimo avvertimento e che questa è l’ultima lettera che ti mandiamo. Allora a partire dal giorno che riceverai questa lettera non ti dovrai far vedere più”.

In concomitanza con quest’ultima lettera, il 9.11.1983, venivano date alle fiamme le autovetture della moglie e del cognato del BONACCORSO, parcheggiate in via Ciaculli, 160, ma costoro, in sede di denunzia, dichiaravano, contrariamente al vero, di non avere subito intimidazioni o minacce da parte di chicchessia.

I coniugi BONACCORSO – MERLINO, come è stato accertato, hanno abbandonato un confortevole appartamento sito nella via Ciaculli 160 ed hanno sospeso i lavori di costruzioni di un edificio nella stessa borgata, per andare a convivere in via Pianel presso la figlia. MERLINO ROSA, interrogata, ha dichiarato di essersi trasferita presso la figlia per motivi personali e non ha voluto dire nulla né in ordine alle lettere anonime ricevute dal marito né su analoghe lettere anonime ricevute da altri abitanti della borgata.

Tanti altri appartamenti della borgata sono stati trovati disabitati; quattro – però – sono stati trovati, oltre che aperti, anche con tracce di effrazione e precisamente: l’appartamento sito in via Ciaculli, 7 appartenente al defunto PIETRO MARCHESE, cognato di GIOVANNELLO GRECO; quello di GRECO SALVATORE, padre del GIOVANNELLO (via Ciaculli 21) ucciso, come si è visto, al pari di PIETRO MARCHESE; quello di GRECO SALVATORE “CICCHITTEDDU” (via Ciaculli, 209), vecchio capo carismatico della mafia palermitana, deceduto nel 1978, odiato cugino di MICHELE GRECO; quello di GIUSEPPE (PINE’) GRECO (via Ciaculli, 279), fratello di “CICCHITTEDDU”, per il quale, come si è visto, ANTONIO SALAMONE aveva ottenuto da MICHELE GRECO l’impunità ed il permesso di allontanarsi da Palermo.

La villa di SALVATORE CONTORNO, costruita in territorio di Ciaculli col “permesso” di MICHELE GRECO (come ha riferito lo stesso CONTORNO), oltre ad essere aperta ed in stato di abbandono, presentava evidenti segni di vandalismo sia nelle strutture murarie sia nei mobili.

Questa storia di case danneggiate costituisce una ulteriore conferma degli schieramenti mafiosi, e dell’attendibilità di BUSCETTA e CONTORNO.

Veniva, poi, accertato, nel corso di sopralluoghi, che in Ciaculli, nei punti di congiunzione delle stradelle interpoderali con le strade urbane, erano stati installati alti cancelli chiusi con lucchetti e che, all’interno della rete viaria interpoderale, erano state apposte robuste catene, anch’esse assicurate con lucchetti, che impedivano di percorrere le stradelle a chi non fosse munito delle relative chiavi.

Queste vicende offrono il quadro desolante di un’intera borgata praticamente in mano alla mafia che detta legge con la violenza e l’intimidazione.

LA MATTANZA CHE NON FINISCE MAI Il 16.3.1983 riprendeva l’offensiva dei vincenti con l’uccisione, a Palermo, di AMODEO GIOVANNI, fratello di PAOLO (già ucciso, come si è visto, il 27.12.1982) e di BELLINI CALOGERO (“LILLO L’ELETTRICISTA”), cugino dei GRADO e di CONTORNO, il quale aveva dato ospitalita’ a GRADO ANTONINO, prima che questi si recasse, con FRANCO MAFARA, all’appuntamento dal quale non aveva fatto più ritorno.

Il 17 marzo 1983, era la volta di PESCO VINCENZO, zio di GIOVANNELLO GRECO.

Il 2.6.1983, a sottolineare il perdurante pericolo che GAETANO BADALAMENTI rappresentava per i suoi avversari, veniva ucciso, a marsala, il di lui nipote, SILVIO BADALAMENTI, un giovane inizialmente arrestato perché ritenuto coinvolto nelle illecite attività dello zio, ma successivamente scarcerato essendo stata accertata l’inconsistenza degli indizi a suo carico.

[…] Il 12.4. ed il 5.6.1983, venivano eliminati SORCI ANTONINO, “rappresentante” della famiglia di Villagrazia, il figlio CARLO ed il fratello FRANCESCO.

Con questi assassinii venivano ulteriormente consolidate le posizioni dei corleonesi e dei loro alleati, poiché venivano eliminati dei soggetti che, come ha riferito BUSCETTA, non erano ritenuti, per gli antichi contrasti tra ANTONINO SORCI e LUCIANO LEGGIO, del tutto affidabili, malgrado la prova di “lealtà” di NINO SORCI, che aveva addirittura consentito che nel suo baglio venissero uccisi GIROLAMO TERESI, GIUSEPPE DI FRANCO e i due FEDERICO.

Il 22.8.1983, veniva assassinato MARCHESE GIUSEPPE, fratello dell’ucciso MARCHESE PIETRO.

Questo omicidio aveva una evidente finalità deterrente in quanto MARCHESE GIUSEPPE avrebbe potuto, prima o poi, accarezzare l’idea di vendicare il fratello.

Il 21.11.1983, la strage proseguiva con l’uccisione, nell’ospedale di Carini dove era ricoverato, di BADALAMENTI NATALE, un fedelissimo di GAETANO BADALAMENTI.

Il 20.2.1984, a Solingen (RFT), veniva ucciso il figlio di GAETANO BADALAMENTI, AGOSTINO, sicuramente estraneo a qualsiasi attività criminosa.

Per tale delitto l’autorità giudiziaria di Wuppertal ha emesso ordine di arresto nei confronti di ANTONIO VENTIMIGLIA (in Italia, allo stato, si procede ancora contro ignoti). Si è già avuto modo di parlare di questo assassinio nella parte concernente il traffico di eroina negli U.S.A., gestito e diretto da GAETANO BADALAMENTI, ed in quella sede si è riportata la telefonata fra due donne del clan di quest’ultimo, in cui si commentava amaramente la triste sorte di AGOSTINO BADALAMENTI, che era stato brutalmente seviziato ed ucciso.

Si è, inoltre, già puntualizzata la significanza dell’accertato coinvolgimento – nell’omicidio in questione – di ANTONIO VENTIMIGLIA, un personaggio originario di Terrasini implicato nel traffico internazionale degli stupefacenti sotto l’aspetto finanziario, e si sono esposti i nessi che legano il VENTIMIGLIA ad ANTONINO ROTOLO e a MADONIA ANTONINO, figlio di MADONIA FRANCESCO, rappresentante, quest’ultimo, della “famiglia” di Resuttana e fidatissimo alleato dei corleonesi.

Anche se per tale omicidio, quindi, l’istruttoria non è ancora completa, si può senz’altro affermare che le risultanze finora acquisite ne confermano integralmente l’inquadramento nella c.d. guerra di mafia, come rappresaglia nei confronti di GAETANO BADALAMENTI.

GAETANO BADALAMENTI, UN MAFIOSO “SFUGGENTE” Nella lunghissima serie di delitti che hanno caratterizzato la c.d. guerra di mafia, nemmeno uno si può attribuire ai perdenti, ad eccezioni dell’attentato del Natale 1982 contro PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, andato a vuoto. […]

Per quanto riguarda il ruolo di TOMMASO BUSCETTA nella guerra di mafia è opportuno fare alcune precisazioni.

Ben sette persone della sua famiglia sono state eliminate nel 1982. Nel dicembre 1984, poi, e cioè dopo che egli aveva cominciato a collaborare con la giustizia, gli è stato ucciso il cognato, PIETRO BUSCETTA, per rappresaglia.

Nonostante tutto, TOMMASO BUSCETTA, a suo dire, non ha mai avuto alcuna intenzione di reagire con le armi; ed anzi, ha sempre respinto le offerte di GAETANO BADALAMENTI di unirsi a lui per vendicare i morti, malgrado il contrario convincimento dei corleonesi.

I suoi pregressi comportamenti (abbandono di “Cosa Nostra” ed emigrazione in Brasile; rifiuto di ritornare a Palermo dopo l’omicidio di BONTATE ed INZERILLO, nonostante le sollecitazioni dei Salvo) sembrerebbero confermare le sue parole, ma rimangono ancora dei punti da chiarire.

Desta, infatti, qualche perplessità la presenza, tra gli attentatori di PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, di quel ROMANO GIUSEPPE che sarebbe stato ucciso, dopo pochi mesi, a Fort Lauderdale (U.S.A.), insieme con TRAMONTANA GIUSEPPE, quest’ultimo amico di TOMMASO BUSCETTA.

Lasciano poi da pensare le dichiarazioni di FABRIZIO SANSONE e di GIUSEPPE BIZZARRO, secondo cui il BUSCETTA si è recato in Europa (probabilmente in Spagna) nell’estate del 1983.

Il SANSONE ha – comunque – escluso che BUSCETTA sia venuto in Sicilia, perché, durante la sua detenzione in Brasile con quest’ultimo, lo aveva sentito lamentarsi del fatto che il BADALAMENTI gli aveva promesso di farlo accompagnare in Sicilia da un figlio o da un uomo di fiducia, senza però mantenere l’impegno.

Ma è proprio la presenza del BUSCETTA in Spagna che lascia adito a sospetti, ove si consideri che, in quel paese, si erano rifugiati i fratelli GRADO; che in Spagna è stato arrestato GAETANO BADALAMENTI il 9.4.1984 con PIETRO ALFANO; e che in SPAGNA era diretto anche GIOVANNELLO GRECO, partito da Rio De Janeiro il 24.3.1984, usando il falso nome di RENATO PEREZ SILVA.

Diversa è stata la posizione di GAETANO BADALAMENTI, nella guerra di mafia.

Egli infatti, fino al momento del suo arresto, ha sempre cercato dichiaratamente la rivincita, nonostante gli arresti e le uccisioni di amici e parenti.

In un primo momento, dopo l’uccisione di STEFANO BONTATE, egli aveva offerto – ma senza successo – il suo aiuto a SALVATORE INZERILLO, come BUSCETTA ha appreso da ANTONIO SALAMONE.

Successivamente aveva tentato di convertire alla sua causa i GRADO, secondo quanto ha dichiarato TOTTA GENNARO, ma aveva ricevuto un rifiuto. Infine si era rivolto a BUSCETTA, il quale si sarebbe tirato indietro.

Quindi, un po’ tutti erano restii ad assecondare i propositi di vendetta del BADALAMENTI, forse anche a causa di qualcosa di grave – e tuttora oscuro – che lo riguardava. E’ certo – comunque – che il BADALAMENTI, nonostante la sua espulsione, continuava ad avere un ruolo non secondario in seno alla mafia e perfino nel traffico di stupefacenti e che – risulta dalle intercettazioni telefoniche – stava inviando un gruppo di suoi fidi in Sicilia, certamente per compiere azioni ritorsive.

A ciò si aggiunga che, nonostante la perdurante rappresaglia nei suoi confronti (vedi l’uccisione di AGOSTINO BADALAMENTI del 20.2.1984), il suo fido PIETRO ALFANO si era incontrato a New York, per motivi sicuramente attinenti al traffico di stupefacenti, con GIOVANNI CANGIALOSI da Borgetto, appartenente ai gruppi vincenti. A questo punto, a meno di ipotizzare che i suoi interlocutori ignorassero che ALFANO era l’emissario di BADALAMENTI (il che sembra, francamente, impossibile), è evidente che c’è qualcosa di sfuggente e di strano nel comportamento di quest’ultimo, che forse giustifica le riserve – un po’ di tutti – ad accettare le sue proposte di collaborazione. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo a cura di Cosa Vostra

LA STRAGE DELLA CIRCONVALLAZIONE, UN FAVORE ALL’AMICO NITTO SANTAPAOLA Il 16 giugno 1983, poco dopo le dieci del mattino, sulla Circonvallazione di Palermo, all’imbocco dell’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, venivano uccisi i carabinieri Luigi Di Barca, Silvano Franzolin, Salvatore Raiti e l’autista civile Giuseppe Di Lavore. Quel giorno stavano scortando a Enna il mafioso Alfio Ferlito, anche lui eliminato nell’agguato 

Il 16.6.1982, alle ore 10.15 circa, a seguito di segnalazione telefonica anonima, personale della Polizia di Stato e militari dell’Arma si portavano sulla Circonvallazione di Palermo, nel tratto denominato via Ugo La Malfa, prossimo all’imbocco dell’autostrada Palermo – Mazara del Vallo. Ivi si presentava ai loro occhi uno spettacolo agghiacciante: una autovettura Mercedes, targata EN 26306, posta diagonalmente sulla strada nella corsia di sinistra (rispetto alla direzione Mazara Del Vallo), crivellata di colpi d’arma da fuoco, con dentro i cadaveri di quattro uomini, di cui due vestiti con divisa di carabinieri; a circa venticinque metri dal veicolo, sul lato destro della carreggiata, il cadavere di un altro uomo, in divisa da carabiniere, riverso sull’asfalto ed anch’esso attinto da colpi di arma da fuoco.

Accostata alla fiancata destra della Mercedes vi era la Fiat 500 targata PA 213267, palesemente danneggiata; disseminati per alcune centinaia di metri lungo la strada, vi erano numerosi bossoli di proiettili calibro 7,62, mentre sette cartucce esplose – per arma a canna liscia, calibro 12 – si trovavano nei pressi della Mercedes.

Tutti e cinque i cadaveri presentavano gravissime lesioni d’arma da fuoco ma il più martoriato appariva quello dell’individuo rinvenuto, ammanettato, nel sedile posteriore della Mercedes fra due carabinieri; infatti, parte dell’ovoide cranico esploso per i colpi d’arma da fuoco e frammenti di materia cerebrale di quel cadavere venivano trovati sul sedile anteriore destro della fiat 500.

Quasi subito, ad un paio di chilometri dal luogo del massacro, venivano rinvenute due autovetture ormai distrutte dalle fiamme e cioè una BMW 520 ed una Alfa Romeo Alfetta, munite di targa falsa; trattavasi sicuramente delle vetture utilizzate per l’agguato e poi bruciate per eliminare qualsiasi traccia (a bordo della BMW veniva rinvenuto, infatti, un bossolo calibro 7,62 (FOT.058326)).

Si accertava che gli uccisi erano il detenuto ALFIO FERLITO, in traduzione della Casa Circondariale di Enna a quella di Trapani, i militari addetti alla scorta del detenuto e, cioè, l’App. CC. FRANZOLIN SILVANO ed i carabinieri BARCA LUIGI e RAITI SALVATORE nonché l’autista civile DI LAVORE GIUSEPPE.

Si accertava, altresì, che la Mercedes, prima di arrestarsi nel luogo dove era stata rinvenuta dagli inquirenti, aveva invaso la corsia di sinistra, e si era scontrata violentemente con la Fiat 500 guidata da tale PECORELLA NUNZIA, che, nell’urto, aveva riportato la frattura del ginocchio destro ed altre lesioni di minore entità.

Si accertava ancora che le due auto utilizzate dai killers e poi bruciate erano state rubate a Palermo qualche mese prima.

Sulla base di queste obiettive risultanze e delle scarne dichiarazioni rilasciate dalla PECORELLA, le modalità dell’eccidio potevano essere ricostruite con sufficiente precisione.

L’autovettura Mercedes, nel percorrere la Circonvallazione di Palermo diretta a Trapani, veniva affiancata verosimilmente dalla BMW (in questa vettura e’ stato rinvenuto un bossolo di proiettile calibro 7,62) e fatta segno a colpi di arma da fuoco.

Il capo scorta, Appuntato FRANZOLIN SILVANO, si lanciava fuori dall’auto, ma non riusciva a sfuggire agli assalitori, che lo freddavano all’istante; la vettura, priva ormai di guida poiché l’autista, DI LAVORE GIUSEPPE, era stato colpito a morte, invadeva l’opposta corsia di marcia, entrando in collisione con la Fiat 500 guidata da PECORELLA NUNZIA, per arrestarsi definitivamente in prossimita’ del ciglio sinistro della strada. I killers entravano immediatamente in azione e, circondata la Mercedes alla presenza della PECORELLA, concludevano l’opera uccidendo tutti gli occupanti della vettura con colpi di fucile mitragliatore calibro 7,62 (kalashnikov) e di lupara.

LA RITRATTAZIONE La PECORELLA, interrogata in ospedale dopo circa un’ora dall’agguato, riferiva che:

– Aveva notato una vettura colore scuro, proveniente dalla direzione opposta, invadere la sua corsia di marcia, senza pero’ potere evitare lo scontro;

– Aveva visto, subito dopo, tre individui vestiti di scuro che sparavano contro il conducente della vettura con pistole lunghe e aveva sentito numerosi colpi a ripetizione.

Queste dichiarazioni, rese ai CC. quando ancora la donna era sotto shock per la terribile scena cui era stata costretta ad assistere, non venivano confermate, per evidenti motivi di paura, dinanzi al G.I. La PECORELLA, infatti, sosteneva che non aveva visto nessuno sparare e che quanto aveva dichiarato ai CC. era frutto del suo stato di confusione mentale: ammetteva, solo di avere sentito degli spari in rapida successione.

Constatata l’impossibilità di pervenire all’identificazione degli esecutori materiali del grave fatto di sangue per la mancanza di testimonianze dirette, si imboccava la strada, molto più impervia, tendente a risalire alla matrice e agli ispiratori dell’attentato. Queste indagini, assai complesse, hanno dato ottimi risultati, confermati poi dalle conclusioni della perizia balistica.

Nessun esito – invece – ha avuto l’inchiesta, pur meticolosamente condotta anche dal Procuratore della Repubblica di Enna, in ordine ad eventuali fughe di notizie sul giorno e sull’ora della traduzione di ALFIO FERLITO dal carcere di Enna a quello di Trapani.

E’ certo, comunque, che i killers erano a conoscenza di tali notizie, essendo intervenuti con massima tempestività nel momento in cui la Mercedes percorreva la Circonvallazione di Palermo; rimane, quindi, l’inquietante sospetto di collusioni non accertate.

L’OMICIDIO DI GIUSEPPE CALDERONE L’individuazione della possibile causale dello eccidio non può prescindere, come punto di partenza delle indagini, dalla spietata faida che, a Catania, ha visto contrapposti i gruppi capeggiati, rispettivamente, dal FERLITO e da NITTO SANTAPAOLA. E su questa pista si indirizza il rapporto presentato dai CC. e dalla Squadra Mobile di Catania il 30.6.1982.

Il rapporto risale all’uccisione, avvenuta a Catania l’8.9.1978, di GIUSEPPE CALDERONE.

Costui, dopo una lunga e cruenta lotta, aveva preferito concordare una tregua con i clan avversari BONANNO – MAZZEI (“I CARCAGNUSI”), tregua suggellata solennemente alla presenza del noto boss mafioso FRANK COPPOLA, nei primi mesi del 1978.

L’accordo, però, non era stato gradito da personaggi di spicco del clan di CALDERONE, quali NITTO SANTAPAOLA, ALFIO FERLITO ed ALFIO AMATO, i quali nello scontro avevano perso numerosi parenti ed amici.

SANTAPAOLA e FERLITO, pertanto, decretavano la soppressione del CALDERONE, il quale veniva ucciso mentre si trovava a bordo di una autovettura guidata dal suo fido LANZAFAME SALVATORE, sopravvissuto all’attentato pur essendo stato ferito gravemente.

Il SANTAPAOLA, però, preso il posto del CALDERONE al vertice dell’organizzazione, aveva mantenuto la pace coi MAZZEI, suscitando molti malumori nei suoi alleati, tanto che ALFIO FERLITO, i suoi cognati VINCIGUERRA (CICALEDDA) nonché SALVATORE PILLERA, SALVATORE PALERMO, ALFIO AMATO e diversi altri lo abbandonavano formando un clan contrapposto, divenuto ben presto assai temibile e potente.

LA GUERRA TRA IL CLAN FERLITO E IL CLAN SANTAPAOLA Dal 1980, quindi, ricominciavano con ritmo sempre crescente le uccisioni di membri ed alleati dei due clan rivali. Gli avvenimenti più significativi erano i seguenti.

1) SPARATORIA DI VIA DELLE OLIMPIADI.

Il 6.6.1981 verso le ore 20, in via Delle Olimpiadi (localita’ Cerza), zona periferica a Nord di Catania, si verificava una violenta sparatoria. Dopo circa mezz’ora, si presentavano, feriti, in ospedale NATALE DI RAIMONDO e SALVATORE PAPPALARDO, i quali dichiaravano che, passando per la via Plebiscito, erano stati feriti da sconosciuti a colpi di pistola.

[…] Il giorno successivo alla sparatoria (7.6.1982), veniva ricoverato all’ospedale di Reggio Calabria LANZAFAME SALVATORE (quello stesso gia’ ferito nello attentato al CALDERONE) con una grave ferita d’arma da fuoco all’addome; il LANZAFAME, a seguito delle ferite riportate, decedeva il 13 giugno 1982.

I verbalizzanti prospettavano – nel rapporto – che quello di via Delle Olimpiadi era stato un agguato teso a NITTO SANTAPAOLA da parte di ALFIO FERLITO, di suo cognato MICHELE VINCIGUERRA (“CICALEDDA”), di SALVATORE PILLERA (“TURI CACHITI”), di ANTONINO STRANO STELLARIO (“NINU FIGGHIUPERSU”), di SALVATORE GRITTI e di MATTEO TERNULLO (“MELU LAMPADINA”), con la partecipazione di PAPPALARDO e di DI RAIMONDO, quali guardaspalle dei SANTAPAOLA.

  1. FERIMENTO DI SCALETTA PIETRO.

Nella notte del 30.12.1981 in Caserta veniva gravemente ferito da colpi d’arma da fuoco e buttato in un burrone con la sua vettura tale SCALETTA PIETRO, ritenuto trafficante di stupefacenti del clan di ALFIO FERLITO. Da fonte informativa si apprendeva che ispiratori dell’attentato contro lo SCALETTA erano stati i fratelli FERRERA, che si erano avvalsi dell’aiuto di MICHELE ZAZA e dei fratelli NUVOLETTA (si ricorda che GIUSEPPE FERRERA e’ stato recentemente arrestato a Napoli e che ZAZA e i NUVOLETTA sono stati indicati quali “uomini d’onore” da BUSCETTA e CONTORNO).

  1. UCCISIONE DI CORRADO MANFREDI (16.1.1982; CLAN SANTAPAOLA), MUSUMECI ANDREA E ZITELLO ANTONINO (5.2.1982; CLAN FERLITO), BONARDI ANGELO, SCIUTO GIUSEPPE E SCIUTO ANTONINO (8.2.1982: CLAN FERLITO), FINOCCHIARO SALVATORE (12.2.1982: CUGINO DI SANTAPAOLA), CARRUBBA VINCENZO) (25.2.1982: CLAN SANTAPAOLA).
  2. ARRESTO DI SANTAPAOLA ANTONINO, FRATELLO DI NITTO, E DI AMATO SALVATORE. […].
  3. UCCISIONE DI ROMEO ROSARIO, BRACCIO DESTRO DI NITTO SANTAPAOLA, E DEL M.LLO CC. AGOSTA ALFREDO, CHE SI TROVAVA IN COMPAGNIA DEL ROMEO (18.3.1982).
  4. UCCISIONE DI FARINA SALVATORE (PARENTE DEI SANTAPAOLA: 24.3.1982)
  5. STRAGE DI VIA DELL’IRIS.

Il 26 aprile 1982, in detta via, venivano uccisi, in una sparatoria, PRIVITERA ANTONINO, DI MAURO IGNAZIO, MONGELLI GIUSEPPE, CARUSO GIUSEPPE, CONTI GIUSEPPE e SALERNO SAVERIO, e riportavano gravi ferite BRUNO SALVATORE, PATANE’ ROSARIO, RUSSO FRANCESCO, RAINERI GIUSEPPE e FAZIO AGATINO. Sul luogo dell’eccidio venivano rinvenute due bombe e mano ed una rivoltella, risultata rubata a Torino. In via informativa, si apprendeva che il BRUNO e forse qualche altro dei giovani coinvolti nella sparatoria appartenevano al clan SANTAPAOLA e che si addebitava al BRUNO medesimo di essere stato autore della “soffiata” a causa della quale ALFIO FERLITO era stato arrestato a Milano, qualche mese prima, con quasi una tonnellata di hashish.

  1. INCENDIO DELLA FABBRICA DI MOBILI JOLLY COMPONIBILI.

Un violentissimo incendio, il 28.4.1982, distruggeva per intero la fabbrica in questione, cui sicuramente ALFIO FERLITO era interessato.

La matrice dell’incendio, avvenuto dopo appena due giorni dalla strage di S. GIORGIO, e’ talmente chiara che ogni commento e’ superfluo.

  1. UCCISIONE DI NICOTRA SALVATORE (CLAN SANTAPAOLA: 10.5.1982), DI SPINA MARIO (CLAN FERLITO: 12.5.1982), DI D’URSO ALFIO (CLAN FERLITO: 21.5.1982), DI DI PASQUALE SALVATORE (CUGINO DEI SANTAPAOLA: 25.5.1982), DI ROTOLO SANTO (TESTIMONE OCULARE DELL’ASSASSINIO DEL DI PASQUALE: 25.5.1982), DI CANNAVO’ CALOGERO (CLAN FERLITO: 1.6.1982), DI ZAGAMI ALFIO (CLAN FERLITO: 4.6.1982), DI RAGUSA SEBASTIANO (CUGINO DEI SANTAPAOLA: 4.6.1982), DI LICCIARDELLO AGATINO (CLAN SANTAPAOLA: 7.6.1982), DI BRANCIFORTI GIACOMO (CLAN SANTAPAOLA: 7.6.1982).
  2. FERIMENTO DI FRANCESCO FERRERA, “CAVADDUZZU”, CUGINO DI NITTO SANTAPAOLA, AVVENUTO IL 15.6.1982.

Questa impressionante cadenza di esecuzioni che hanno preceduto l’omicidio FERLITO già da sola consente di inscrivere l’uccisione del FERLITO nel sanguinoso scontro tra i due gruppi rivali e di individuare in NITTO SANTAPAOLA, capo del clan avversario, l’ispiratore dell’eccidio.

ALFIO FERLITO, infatti, benché detenuto, aveva tutt’altro che perso la sua “guerra” contro SANTAPAOLA ed era ancora assai pericoloso; doveva, pertanto essere, eliminato al più presto ed a qualunque costo, anche uccidendo i carabinieri di scorta, fatto questo che, nonostante la sempre maggiore assuefazione della mafia a colpire pubblici funzionari, non viene mai deciso a cuor leggero perché, a tacer d’altro, scatena un’ondata repressiva da parte dello Stato, di cui va tenuto debito conto.

L’ALLEANZA TRA SANTAPAOLA E RIINA […] Le dichiarazioni dei c.d. pentiti confermano inoltre, la stretta alleanza di SANTAPAOLA con la mafia palermitana, tanto interessata all’eliminazione di FERLITO da fornire una incondizionata collaborazione, utilizzando anche i propri killers più esperti (come è dimostrato dalle armi impiegate).

Infatti il contrasto tra SANTAPAOLA e FERLITO non era una vicenda che si esauriva nell’ambito locale ma era uno scontro che rifletteva i suoi effetti negli equilibri e nei sistemi di alleanze della mafia palermitana e che a sua volta ne rimaneva condizionato.

In altri termini, dopo l’eliminazione di BONTATE ed INZERILLO i corleonesi, nel contesto di una ambiziosa manovra di annientamento del dissenso interno e di avvicinamento alle organizzazioni mafiose provinciali, per la creazione di un monolitico blocco mafioso, avevano interesse ad eliminare chiunque fosse stato in grado, per prestigio personale e per potenza della propria organizzazione, di contrastare il loro disegno egemonico. In questa prospettiva il FERLITO, che era legato alla c.d. mafia “perdente”, doveva essere ucciso.

Siffatte conclusioni sono perfettamente aderenti alla realtà processuale. Si è già parlato a lungo dell’alleanza di NITTO SANTAPAOLA con i palermitani e del ruolo svolto dalla sua organizzazione nel traffico di stupefacenti gestito dai palermitani.

Resta da dire dei rapporti di ALFIO FERLITO con il c.d. gruppo perdente.

Al riguardo è assai significativo un telegramma che il FERLITO, appena giunto alla Casa Circondariale di Trapani, aveva inviato, il 22.2.1982, a PIETRO MARCHESE, detenuto a Palermo: “trovomi Trapani ti abbraccio ALFIO”.

L’invio di questo telegramma ha costituito indubbiamente una grave imprudenza che ha consentito di mettere in luce i collegamenti di FERLITO col gruppo del defunto SALVATORE INZERILLO; egli però non poteva agire diversamente, in quanto doveva dimostrare la sua presenza in un momento difficile come quello successivo all’uccisione del suo potente alleato e doveva mantenere saldi i legami coi superstiti.

Da questa necessità è dettata anche la lettera che lo stesso FERLITO aveva spedito, appena il giorno prima di essere ucciso (15.6.1982), al fido ORAZIO NICOLOSI, detenuto nel carcere di Catania, ma diretta ai suoi “amici”: la lettera, che inizia con la frase “fratelli cari”, contiene soprattutto un’esortazione a “ridurre” la corrispondenza all’essenziale e si conclude con la previsione che sarebbero venuti “giorni migliori”.

Tre giorni dopo l’invio del telegramma (25.2.1982) PIETRO MARCHESE veniva ucciso in carcere ed il FERLITO, il 1°.3.1982, inviava un altro telegramma, questa volta a GIOVANNELLO GRECO, allora detenuto a Milano: “appresa triste notizia ti sono moralmente vicino al tuo dolore. ALFIO”.

Questi telegrammi, inviati a due fra i maggiori protagonisti della c.d. guerra di mafia palermitana ed a personaggi la cui “vicinanza” al defunto SALVATORE INZERILLO e’ indiscutibile, costituisce prova sicura dell’asse INZERILLO – FERLITO e dell’esistenza di un programma comune dei due clan all’interno di “Cosa Nostra”.

D’altro canto, dato che il suo avversario NITTO SANTAPAOLA aveva stretto alleanza col gruppo dei corleonesi, il FERLITO, per sopravvivere, doveva trovarsi degli amici in seno alla mafia palermitana, e non poteva che trovarli tra gli avversari dei corleonesi. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


UN GOLPE PER PRENDERSI COSA NOSTRA, È LA VITTORIA DEI BOSS DI CORLEONE “Ciò che colpisce è che, quasi contemporaneamente, tutte le organizzazioni provinciali di “Cosa Nostra” hanno subito analoghi rivolgimenti interni. A Catania Nitto Santapaola è rimasto incontrastato padrone; a Caltanissetta, dopo l’eliminazione di Giuseppe Di Cristina e di Francesco Cinardo, legato a Stefano Bontate, è stata messa a tacere l’ala moderata. Nell’agrigentino numerose uccisioni hanno eliminato altri personaggi scomodi e a Trapani i Rimi, potenti alleati e parenti di Gaetano Badalamenti sono stati cacciati da Mariano Agate, asservito ai Corleonesi…”

La feroce contesa ha pressoché totalmente azzerato il gruppo dei perdenti e rafforzato il fronte dei vincenti, con l’eliminazione di quegli elementi che, per i motivi più vari, potevano ostacolare con successo i programmi dei corleonesi, e, cioè, in ultima analisi, dei personaggi più moderati, ed ormai anacronistici in un’organizzazione sempre più violenta e sanguinaria.

Ciò che colpisce è che, quasi contemporaneamente, tutte le organizzazioni provinciali di “Cosa Nostra” hanno subito analoghi rivolgimenti interni. Ed infatti, […], a Catania NITTO SANTAPAOLA, con l’eliminazione di ALFIO FERLITO attuata con l’aiuto dei palermitani, è rimasto incontrastato padrone del campo; a Caltanissetta, dopo l’eliminazione di GIUSEPPE DI CRISTINA, nonché di FRANCESCO CINARDO, particolarmente legato a STEFANO BONTATE, è stata messa a tacere l’ala moderata.

Nell’agrigentino numerose uccisioni, fra cui, soprattutto, quella di CARMELO COLLETTI, “capo-mandamento”, hanno eliminato altri personaggi scomodi; e, a Trapani, i RIMI, potenti alleati e parenti di GAETANO BADALAMENTI, sono stati posti in fuga, lasciando cosi’ mano libera a MARIANO AGATE, asservito ai corleonesi.

Oggi, pertanto, “Cosa Nostra”, si presenta come un blocco monolitico e coeso, e, in quanto tale, assai più pericoloso di prima.

E che gli omicidi di cui si è fin qui parlato siano da inquadrare in un unico disegno ideato ed attuato dai corleonesi e dai loro alleati risulta ulteriormente confermato – se pure occorresse – dall’esame comparativo dei reperti balistici effettuati dal perito d’ufficio Prof. MORIN, il quale ha accertato che: A) un medesimo revolver, con anima solcata da cinque rigature destrorse, era stato impiegato negli omicidi di FICANO GASPARE, FICANO MICHELE, GENOVA GIUSEPPE, D’AMICO ANTONIO, D’AMICO ORAZIO, AMODEO PAOLO, AMODEO GIOVANNI; B) un medesimo revolver, con anima solcata da otto rigature destrorse, era stato impiegato per gli omicidi di FICANO MICHELE, FICANO GASPARE e AMODEO PAOLO; C) una medesima pistola semiautomatica cal. 7,65 “Browning” era stata impiegata negli omicidi di TERESI FRANCESCO PAOLO e IENNA MICHELE, nonché (secondo il Gabinetto Regionale della Polizia Scientifica) nell’omicidio di DI FRESCO GIOVANNI.

NON UNA SEMPLICE “GUERRA” […] Risulta ampiamente dimostrato dalle pagine che precedono che, a differenza della prima “guerra di mafia”, quella successiva si è concretata, in realtà, nella sistematica eliminazione, da parte dei corleonesi – che in Ciò si sono ampiamente avvalsi di traditori e di “infiltrati” – di ogni avversario, a qualunque “famiglia” appartenesse.

Non si è trattato, quindi, di una rottura traumatica dell’ordine formale di “Cosa Nostra” nè tanto meno, di uno scontro armato tra “famiglie” o tra una o più “famiglie” e la “Commissione”. più semplicemente si è trattato della cinica eliminazione di capi e gregari di varie “famiglie”, cui si sono surrogati i traditori a titolo di compenso per il loro tradimento. Per conseguenza, appare conforme alla più rigorosa logica ritenere che coloro i quali, per effetto della c.d. “guerra di mafia”, hanno accresciuto il loro potere ed hanno preso il posto dei defunti capi, non possono essere estranei al disegno criminoso che ha ridotto “Cosa Nostra” ad un docile strumento in mano ai corleonesi.

[…] Va – infine – precisato che i componenti dell’organismo direttivo di “Cosa Nostra”, responsabile di tutti i delitti, sono stati individuati grazie alle dichiarazioni di BUSCETTA e di CONTORNO e di altri c.d. pentiti la cui attendibilita’ emerge un po’ da tutta la presente trattazione. Comunque, nella valutazione riassuntiva degli elementi a carico dei singoli imputati, queste risultanze saranno ulteriormente puntualizzate.

Ciò premesso, appare chiaro che debbono rispondere dei crimini determinati dalla c.d. guerra di mafia i seguenti imputati, componenti della “Commissione”: RIINA SALVATORE, BERNARDO PROVENZANO, GIUSEPPE GRECO fu NICOLA (“SCARPAZZEDDA”), GRECO MICHELE, BRUSCA BERNARDO, SCAGLIONE SALVATORE, GIUSEPPE CALO’, GERACI ANTONINO (ZU’ NENè, nato 2.1.1917), MOTISI IGNAZIO, GRECO LEONARDO, MADONIA FRANCESCO, DI CARLO ANDREA, SCADUTO GIOVANNI, ROSARIO RICCOBONO.

Al riguardo, sono necessarie alcune precisazioni.

Per quanto concerne SALVATORE SCAGLIONE, vi sono fondati elementi per ritenere – come hanno concordemente sostenuto TOMMASO BUSCETTA, SALVATORE CONTORNO e LUIGI FALDETTA e come si deduce altresì dalla sparizione di altri membri della sua “famiglia” (Noce) – che lo stesso sia stato soppresso dai suoi alleati di un tempo.

In mancanza, però, di iniziative al riguardo da parte dell’Ufficio del P.M., che probabilmente ha ritenuto gli elementi acquisiti circa l’uccisione dello SCAGLIONE non sufficientemente univoci, non resta che disporne il rinvio a giudizio, quale componente della “Commissione” e facente capo al gruppo mafioso dei vincenti.

Di ANDREA DI CARLO, quale componente della “Commissione”, TOMMASO BUSCETTA non ha parlato, ma ne ha riferito SALVATORE CONTORNO, le cui conoscenze su ” Cosa Nostra” sono, per molti aspetti, più attuali ed approfondite di quelle del BUSCETTA. Il CONTORNO era in ottimi rapporti con FRANCO DI CARLO, già “rappresentante” della “famiglia” di Altofonte e componente della “Commissione”, ed aveva avuto da lui confidato che era stato “posato”, perché accusato di gestione poco corretta dei proventi del traffico di stupefacenti, e che era stato sostituito dal fratello, ANDREA DI CARLO. Le affermazioni del CONTORNO debbono essere ritenute veritiere, oltre che per l’attendibilita’ complessiva del CONTORNO stesso, anche perché numerosi elementi evidenziano il ruolo di primo piano dei fratelli DI CARLO, fidi alleati dei “corleonesi”; si ricordino, per esempio, le fotografie in cui GIULIO e ANDREA DI CARLO sono raffigurati con GIACOMO RIINA, LORENZO NUVOLETTA e ANTONINO GIOE’ e si consideri che ANDREA DI CARLO e’ cognato di BENEDETTO CAPIZZI, il quale ha avuto nella guerra di mafia un ruolo certamente più importante ed incisivo di quanto per ora emerga dalle risultanze processuali.

Secondo SALVATORE CONTORNO, anche NITTO SANTAPAOLA ed AGATE MARIANO sono componenti della Commissione. È, questa, una affermazione molto interessante che, se riscontrata, spiegherebbe il perché della contemporanea eliminazione, nelle varie province siciliane, di tutti gli elementi poco affidabili per i corleonesi ed i loro alleati, ed indurrebbe a ritenere ormai superato l’originario ordinamento di “Cosa Nostra” su base provinciale, sostituito da una organizzazione unitaria a livello regionale.

In verità questa tesi sembra trovare conforto nella circostanza che il catanese ALFIO FERLITO, il maggiore avversario di NITTO SANTAPAOLA, è stato ucciso proprio a Palermo.

Ed il FERLITO, […], era collegato con PIETRO MARCHESE, con GIOVANNELLO GRECO e con SALVATORE INZERILLO, cioè con il gruppo dei perdenti.

Ma il rigore e la prudenza che hanno ispirato queste indagini hanno consigliato di sottoporre ad ulteriori verifiche e riscontri le affermazioni del CONTORNO, verifiche che saranno approfondite nella prosecuzione dell’istruttoria.

Per quanto riguarda GIOVANNI SCADUTO, il suo ruolo di “capo-mandamento” di Bagheria è stato illustrato da BUSCETTA e CONTORNO, le cui affermazioni hanno trovato riscontro nelle indagini istruttorie, anche di natura bancaria, compiute fin dal procedimento contro SPATOLA ed altri.

La nomina del giovane SCADUTO, dotato di scialba personalità e di scarsa esperienza, a “rappresentante” di Bagheria e “capo-mandamento” era – di sicuro – un riconoscimento meramente onorifico e formale per sancire la stretta alleanza fra la “famiglia” dei GRECO (lo SCADUTO era genero di SALVATORE GRECO FERRERA) e quella di Bagheria, comprovata da numerosi elementi; mentre l’elemento di spicco della mafia bagherese è GRECO LEONARDO, come emerge dalle univoche risultanze processuali e come ha ribadito SALVATORE CONTORNO, il quale ha precisato che il GRECO è il vero capofamiglia di Bagheria e componente della “Commissione”.

Quale sia stata la soluzione formale per consentire ad entrambi di operare in seno alla “Commissione” è ignorato da SALVATORE CONTORNO e sarebbe stato strano se egli, semplice “soldato”, ne fosse stato a conoscenza. Al limite, è possibile ipotizzare che uno dei due fosse “rappresentante” della “famiglia” di Bagheria e l’altro fosse “capo-mandamento”; una soluzione, cioè, del tipo di quella adottata a suo tempo, come si è visto, dai fratelli ANGELO e SALVATORE LA BARBERA. Ma tutto Ciò importa veramente poco, poiché le strutture formali di “Cosa Nostra” ormai non sono altro che un mero espediente per dare veste di legittimità ad assetti di potere acquisiti con la violenza. Ai fini che ci interessano, comunque, è chiaro che entrambi gli imputati debbono rispondere dei crimini della guerra di mafia.

Per quanto riguarda ROSARIO RICCOBONO, da più parti sono stati avanzati sospetti che sia stato soppresso, come hanno riferito BUSCETTA e CONTORNO, anche se essi stessi sono piuttosto scettici sulla veridicità della notizia. È certo, però, che la sparizione del RICCOBONO e quella dei suoi generi LAURICELLA e MICALIZZI nonché l’attentato contro membri del suo clan (vedi la sparatoria al bar “SINGAPORE TWO”) sono indicativi di un attuale contrasto fra la “Commissione” ed il RICCOBONO, contrasto che non investe la “famiglia” di Partanna Mondello nella sua globalità, dato che non sono avvenute uccisioni generalizzate contro i membri della stessa famiglia. È fondato ritenere, pertanto, che anche ROSARIO RICCOBONO, una volta consumato il tradimento nei confronti degli alleati di un tempo, sia stato eliminato o – comunque – posto in condizione di non nuocere dai corleonesi, non essendo più utile ed avendo mostrato con il tradimento la sua slealtà.

Poiché non è certa la sua morte, il RICCOBONO, quindi, deve essere rinviato a giudizio per i crimini relativi alla guerra di mafia, di cui è stato protagonista non secondario.

Un discorso a parte va fatto per FRANCESCO INTILE, rappresentante della “famiglia” di Caccamo, che, come risulta dalle circostanziate e riscontrate dichiarazioni di VINCENZO MARSALA, ha sostituito, quale “capo-mandamento”, CALOGERO PIZZUTO, prima deposto e, poi, ucciso per la sua amicizia con STEFANO BONTATE.

L’INTILE, essendosi sostituito al PIZZUTO in seno alla “Commissione”, deve – ad avviso di chi scrive – rispondere anch’egli, al pari degli altri membri, degli omicidi e degli altri delitti provocati dalla guerra di mafia. Tanto si segnala all’Ufficio del P.M. per le iniziative di sua competenza.

I MAFIOSI DI SPICCO DELLA FAZIONE “CORLEONESE” Oltre che ai componenti della Commissione, i delitti della guerra di mafia sono stati contestati anche ad altri imputati, e precisamente A: VERNENGO PIETRO, PRESTIFILIPPO MARIO GIOVANNI, LO IACONO PIETRO, MONTALTO SALVATORE, BONURA FRANCESCO, BUSCEMI SALVATORE, PULLARA’ IGNAZIO, PULLARA’ GIOVAMBATTISTA, SAVOCA GIUSEPPE, CUCUZZA SALVATORE, CAROLLO GIOVANNI, BONO GIUSEPPE, MARCHESE FILIPPO e GRECO FERRARA SALVATORE.

Tutti costoro sono elementi di spicco di Cosa Nostra e sono gravati da sicure prove di colpevolezza, ma non sono, di certo, i soli ad avere partecipato ai delitti di mafia; tanti altri soggetti sono sicuramente coinvolti, e le indagini tese alla loro identificazione sono ancora in corso.

Passiamo adesso in rassegna i personaggi sopra indicati.

PIETRO VERNENGO, già da tempo grossissimo contrabbandiere e trafficante di stupefacenti, era fra gli elementi di maggiore spicco della “famiglia” di S. Maria di Gesù. L’uccisione del suo capo, STEFANO BONTATE, non soltanto non ha in alcun modo intaccato il suo prestigio mafioso, ma lo ha accresciuto, tanto che sicuramente egli è adesso ai vertici della piramide mafiosa. I suoi legami coi “corleonesi”, di vecchia data, sono stati consolidati con il matrimonio del padre del VERNENGO, COSIMO, rimasto vedovo, con una sorella di GIUSEPPE DI MICELI, e sono comprovati, tra l’altro, dalla circostanza che la villa di via Valenza, nella quale la polizia interrompeva un summit della mafia vincente cui partecipavano i reggenti di S. Maria di Gesù, apparteneva a RUGGERO VERNENGO, cugino di PIETRO.

Sono altresi’ provati i suoi legami con altri elementi del gruppo vincente. è stato, infatti, individuato in via Messina Marine – e, quindi, in territorio controllato dalla “famiglia” del feroce FILIPPO MARCHESE (Corso dei Mille) – un laboratorio di eroina sicuramente di pertinenza dei VERNENGO e di PIETRO VERNENGO in particolare, come si è dimostrato nella sede opportuna, e si è accertato che la villa in cui era installato il laboratorio apparteneva a DI SALVO NICOLA, compare di PIETRO VERNENGO.

Il DI SALVO è un personaggio che gravita nell’orbita della “famiglia” di corso dei mille, come è stato ampiamente dimostrato nella parte di questo provvedimento riguardante le indagini istruttorie concernenti il laboratorio di via Messina Marine.

Aggiungasi, a definitiva conferma della predominante posizione e delle gravi responsabilità del VERNENGO PIETRO nella c.d. guerra di mafia, quanto risulta – dalle dichiarazioni di SINAGRA VINCENZO – in ordine alla sua partecipazione all’omicidio di RUGNETTA ANTONINO, come sarà meglio precisato nella relativa trattazione.

MARIO PRESTIFILIPPO, fin dalle prime indagini di polizia, era indicato da tutte le fonti informative come freddo e spietato killer legato a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” ed a MICHELE GRECO, dei quali è parente.

Figlio di GIOVANNI PRESTIFILIPPO e nipote di SALVATORE PRESTIFILIPPO, due protagonisti della prima guerra di mafia, è già, malgrado la giovane eta’, un mafioso di grosso calibro, tipico esponente di quella nuova generazione – avida di denaro ed assetata di violenza – che ha spazzato via i precedenti “padrini”, ormai ritenuti anacronistici, imponendo la logica del mitra.

I suoi rapporti con MICHELE GRECO ed il suo coinvolgimento nei più eclatanti delitti di mafia sono dimostrati da univoci elementi.

Si è appreso, infatti, da SALVATORE CONTORNO che MARIO PRESTIFILIPPO aveva partecipato all’attentato contro di lui (unitamente a PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, SALVATORE CUCUZZA e FILIPPO MARCHESE), e che il medesimo era solito frequentare la villa di Casteldaccia e le tenute palermitane di MICHELE GRECO e SALVATORE GRECO, cosi’ come PINO GRECO (“SCARPUZZEDDA”), LEONARDO GRECO, SALVATORE CUCUZZA, GIUSEPPE LUCCHESE ed altri; si è appreso – inoltre – che i PRESTIFILIPPO gestivano un laboratorio di eroina a Croce Verde Giardina e, cioè, in territorio di MICHELE GRECO.

Le dichiarazioni di CONTORNO, che pongono in luce gli intimi collegamenti della famiglia dei PRESTIFILIPPO (di MARIO PRESTIFILIPPO, in particolare) con MICHELE e SALVATORE GRECO e con PINO GRECO “SCARPUZZEDDA”, hanno trovato due precisi ed obiettivi riscontri. […] Un ulteriore riscontro si trae dalle propalazioni di STEFANO CALZETTA, cui era noto il grosso prestigio di MARIO PRESTIFILIPPO, vi è più accresciutosi dopo l’omicidio del Prefetto DALLA CHIESA.

A Ciò si aggiunga che l’agente della P.S. CALOGERO ZUCCHETTO ed il Vice Questore Dott. ANTONINO CASSARA’ hanno riferito di avere visto, nel corso di un servizio di pedinamento, MARIO PRESTIFILIPPO e PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” dirigersi a bordo di un’autovettura verso la villa dove poi venne arrestato SALVATORE MONTALTO.

Senza dire che sussistono fondati elementi per ritenere che MARIO PRESTIFILIPPO sia l’esecutore materiale dell’omicidio del Dott. SEBASTIANO BOSIO, noto medico palermitano, dato che la vedova, PATANIA ROSARIA, l’ha riconosciuto in fotografia.

MARIO PRESTIFILIPPO è, quindi, uno dei più fidi e prestigiosi “uomini d’onore” di MICHELE GRECO, sicuramente implicato a pieno titolo nello sterminio del clan BONTATE.

PIETRO LO IACONO e GIOVAMBATTISTA PULLARA’, nominati reggenti della “famiglia” di S. Maria di Gesù dopo l’assassinio di STEFANO BONTATE, sono inchiodati alle loro gravi responsabilita’ dalle specifiche e circostanziate accuse di TOMMASO BUSCETTA e SALVATORE CONTORNO. […] Lo stesso dicasi per MONTALTO SALVATORE (“uomo d’onore” della “famiglia” di SALVATORE INZERILLO, divenuto capo della “famiglia” di Villabate dopo l’uccisione di ANTONINO PITARRESI, capo della stessa), BONURA FRANCESCO (vice di GIUSEPPE INZERILLO, divenuto capo della “famiglia” di Passo di Rigano), SAVOCA GIUSEPPE (divenuto capo della “famiglia” di Brancaccio dopo l’uccisione del capo GIUSEPPE DI MAGGIO, di FRANCESCO MAFARA e di tanti altri), CORALLO GIOVANNI (divenuto capo della “famiglia” di Palermo Centro dopo l’uccisione di IGNAZIO GNOFFO), MARCHESE FILIPPO (nominato capo della “famiglia” di Corso dei Mille dopo l’eliminazione del vecchio “reggente”, FRANCESCO DI NOTO).

E l’esistenza del complotto, a parte altre considerazioni, risulta con ogni evidenza dal fatto che tutti costoro, per un verso o per un altro, sono elementi da tempo “vicini” ai corleonesi, a MICHELE GRECO ed a PIPPO CALO’ (ad esempio, il CALO’ ed il CORALLO erano commessi entrambi nel medesimo negozio di tessuti di Palermo); e che sono stati nominati “capi” all’indomani dell’uccisione dei loro predecessori e proprio nel periodo “caldo” della c.d. guerra di mafia, quando i corleonesi avevano assoluto bisogno di elementi di sicura affidabilità.

PULLARA’ IGNAZIO, cosi’ come il fratello GIOVANBATTISTA, cui è particolarmente legato, è vicino ai corleonesi, fin dai tempi della latitanza di LUCIANO LEGGIO.

CUCUZZA SALVATORE è divenuto “capo” della “famiglia” del Borgo e risulta coinvolto in prima persona nel tentato omicidio di SALVATORE CONTORNO, insieme con PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” e con MARIO PRESTIFILIPPO. […] Fin dai tempi del rapporto del 13.7.1982 il CUCUZZA era indicato come persona legata a MARIO PRESTIFILIPPO, PINO GRECO “SCARPUZZEDDA” e MARCHESE FILIPPO e mandante di numerosi omicidi. È indubbio che il suo prestigio in seno a Cosa Nostra è in continua ascesa.

GIUSEPPE BONO, anche se non è membro della “Commissione”, è certamente uno dei personaggi di maggiore spicco di “Cosa Nostra”.

Dalle concordi dichiarazioni di TOMMASO BUSCETTA e di SALVATORE CONTORNO risulta che il BONO è uno dei più fidi alleati dei corleonesi, ed uno dei vertici del traffico internazionale di stupefacenti; affermazioni, queste, che trovano conferma nelle istruttorie, recentemente concluse, dei giudici istruttori di Roma e di Milano. Del resto non va dimenticato che GAETANO FIDANZATI, “uomo d’onore” della “famiglia” di PIPPO BONO, già nel 1970 era stato inviato a Castelfranco Veneto per uccidere GIUSEPPE SIRCHIA (del fronte dei perdenti) e che lo stesso GAETANO FIDANZATI aveva attirato in un tranello ANTONINO GRECO, su mandato della “Commissione”. Anzi, alla luce di quanto emerge dalla dichiarazione, già riportata, di MARIO INCARNATO, si ritiene di dover segnalare al P.M., per le valutazioni e le iniziative di sua competenza, la posizione del FIDANZATI, quale corresponsabile degli omicidi della c.d. guerra di mafia. Il BONO risulta particolarmente vicino anche ad ANTONIO SALAMONE, il quale, come è emerso dalle istruttorie di Roma e di Milano, benché “rappresentante” della “famiglia” di San Giuseppe Jato e “capo-mandamento”, subisce molto l’autorità del BONO. Basterebbe questo per comprendere quale sia la “statura” mafiosa del personaggio.

SALVATORE GRECO FERRARA (FERRARA è il cognome della madre, che si aggiunge al suo cognome per distinguerlo da omonimi), infine, è tutt’uno con il con il fratello MICHELE GRECO, il capo di Cosa Nostra: per usare una frase cara a SALVATORE CONTORNO, si potrebbe dire che gli stessi sono “due cuori e un’anima”.

L’assoluta identita’ di vedute tra i due traspare chiaramente dalla totale comunanza negli affari, risulta dalle dichiarazioni di TOMMASO BUSCETTA e di SALVATORE CONTORNO ed emerge dalla recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta che, per l’assassinio del Consigliere Istruttore di Palermo, ROCCO CHINNICI, li ha dichiarati entrambi responsabili, quali mandanti.

SALVATORE GRECO, detto il “SENATORE”, era il personaggio che, forse più ancora del fratello MICHELE, manteneva i collegamenti, apparentemente leciti, con esponenti della politica e del mondo imprenditoriale e del lavoro.

[…] Su altri personaggi come ENEA SALVATORE, ANTONINO CASELLA, ZANCA CARMELO, GERACI ANTONINO (nato l’11.11.1929) ed ANTONINO ROTOLO gravano pesanti indizi di responsabilità per gli omicidi relativi alla “guerra di mafia”. In particolare, per ANTONINO ROTOLO, già accusato da LEONARDO VITALE di essere un killer assai vicino al pericolosissimo GIUSEPPE CALO’ – in compagnia del quale è stato poi arrestato -, gli elementi di prova sono univoci.

Egli era stato proposto per la nomina in “Commissione”, ma, a causa della recisa opposizione di STEFANO BONTATE, l’incarico era stato conferito a MOTISI IGNAZIO, capo mandamento, appartenente alla stessa “famiglia” del ROTOLO (Pagliarelli).

Ora, appare opinabile che degli omicidi della guerra di mafia debba rispondere un personaggio nominato in sostituzione del ROTOLO e non quest’ultimo, “rappresentante” della “famiglia” di cui il MOTISI è espressione (Pagliarelli).

Tanto si segnala all’ufficio del P.M., per le eventuali iniziative che gli competono.

IL RUOLO DI SALAMONE Per quanto riguarda, infine, ANTONIO SALAMONE, rappresentante della famiglia di S. Giuseppe Jato e capo-mandamento, vi è da dire che si tratta di una figura forse più enigmatica dello stesso GAETANO BADALAMENTI: è un personaggio, infatti, che, pur essendo cugino di SALVATORE GRECO “CICCHITTEDDU”, odiato dai corleonesi, è riuscito finora a destreggiarsi tra le parti in conflitto.

Il SALAMONE, come è stato riferito dal BUSCETTA, risiedeva stabilmente in Brasile, per cui il suo incarico in seno a Cosa Nostra veniva temporaneamente assunto dal vice, BERNARDO BRUSCA, legatissimo ai corleonesi, il quale, però, si faceva da parte tutte le volte che egli rientrava in Sicilia.

Il SALAMONE, a detta – ancora – del BUSCETTA, era al corrente dell’intenzione di STEFANO BONTATE di uccidere SALVATORE RIINA ed aveva promesso il suo appoggio all’impresa, ma solo a “cose fatte”; egli, evidentemente, condivideva il proposito del BONTATE ed aveva tutto l’interesse a favorirlo perché mal sopportava il suo vice BERNARDO BRUSCA, troppo legato ai corleonesi, ma non intendeva compromettersi nell’eventualita’ che il piano fallisse.

Sembra pertanto poco probabile che il SALAMONE fosse stato previamente informato della decisione dei corleonesi di uccidere STEFANO BONTATE e SALVATORE INZERILLO: Ciò è confermato dal BUSCETTA, il quale ha precisato che nel periodo dei due omicidi SALAMONE si trovava in Brasile, e si era recato in Sicilia solo dopo avere avuto notizia degli assassinii, per accertare quanto era successo.

Sembra, inoltre, che il SALAMONE non abbia per nulla condiviso il massacro degli oppositori, deliberato dai corleonesi e dai loro alleati; anzi, dalle indagini condotte dalla Squadra Narcotici della Questura di Roma – e principalmente dalle intercettazioni telefoniche – è emerso che il comportamento guardingo del SALAMONE aveva cominciato ad impensierire i vertici di “Cosa Nostra”, tanto che avevano deciso – come si può fondatamente ritenere alla stregua di una avveduta “lettura” di alcune conversazioni telefoniche – di metterlo alla prova e, per saggiarne la lealta’, gli avevano affidato l’incarico di partecipare, in Brasile nel 1982, all’uccisione di un avversario dei corleonesi. Questa azione, guarda caso, era sollecitata soprattutto da BERNARDO BRUSCA.

Vittima designata era sicuramente TOMMASO BUSCETTA, che risiedeva in Brasile, aveva contatti col SALAMONE e, in quello stesso periodo (9.9.1982), aveva subito l’assassinio dei suoi due figli.

Ma il SALAMONE non eseguiva la sentenza di morte.

Il 25.10.1982, invece, rientrava in Italia e si presentava spontaneamente alla sede del soggiorno obbligato, probabilmente per non commettere il delitto commissionatogli e sottrarsi – al contempo – alle rappresaglie dei corleonesi.

Alla luce di quanto esposto, appare, dunque, abbastanza plausibile, almeno allo stato, che il SALAMONE, mafioso di vaglia ancorato ai principi tradizionali di “Cosa Nostra”, non abbia aderito nè partecipato ai delitti della c.d. guerra di mafia, malgrado gli incarichi di rilievo da lui ricoperti; e, pertanto, correttamente l’Ufficio del P.M. non ha iniziato azione penale nei suoi confronti per tali delitti. Testi tratti dall’ordinanza del maxi processo A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


MADONNE E SANTI E CROCIFISSI NELLA CAMERA DELLA MORTE Periferia est di Palermo: via Messina Montagne. C’è un grande capannone, si vede dall’autostrada. Un magazzino circondato da erbacce, rovi e carcasse di veicoli. Un’insegna: “La commerciale”. In una nicchia mimetizzata dal rivestimento di finto abete che ricopre le pareti ci sono gli attrezzi: manette, corde, lacci, fili di ferro, guanti di lattice. Tutto l’occorrente per la tortura. Affisse al muro, senza un preciso ordine, tante immagini sacre: Santa Rosalia, Santa Rita, la Madonna, San Cristoforo, protettore degli automobilisti. È lo strangolatoio di Cosa Nostra

Fin qui latitanti, armi ed esplosivi. Ma adesso arriva la parte più dura, la ricerca dei cadaveri. Certo, stiamo facendo un’operazione di polizia e non c’è spazio per altri pensieri, ma è davvero difficile rimanere insensibili di fronte a corpi decomposti o a resti umani seppelliti alla meno peggio. Morti ammazzati di cui non si è più saputo niente. Classici casi di lupara bianca. Romeo ci fa trovare un corpo sotterrato in un terreno sul litorale di Palermo: il cadavere di un ragazzo extracomunitario, legato mani e piedi e infilato in un sacco nero della spazzatura. Il giovane tunisino era responsabile solo di aver richiesto ai mafiosi il pagamento della sua attività lavorativa prestata come mozzo a bordo di un loro peschereccio, il Lupo di San Francesco, con cui periodicamente importavano qualche quintale di hashish dal Marocco. Vicino a Bolognetta, Romeo ci fa recuperare un secondo cadavere, quello di un certo Giovanni Ambrogio, e altri resti umani, residui di qualche frettoloso scioglimento nell’acido. Di alcuni di questi delitti ci aveva già parlato Pasquale Di Filippo, il collaboratore che ci ha portato sulle tracce di Bagarella. Era stato lui, prima ancora di Romeo, a spalancarci le porte della cosiddetta «camera della morte», uno dei luoghi più tetri e agghiaccianti che abbia mai visto in vita mia. Periferia est di Palermo: via Messina Montagne. C’è un grande capannone. Si vede dall’autostrada. Un magazzino circondato da erbacce, rovi e carcasse di veicoli. Un’insegna: La commerciale. Spazio aperto recintato da un muro e, sulla destra, dopo il pesante portone di ferro semiarrugginito, uno stanzino, un piccolo ufficio. Come la guardiola di un custode. In una nicchia mimetizzata dal rivestimento di finto abete che ricopre le pareti ci sono gli attrezzi: manette, corde, lacci, fili di ferro, guanti di lattice. Tutto l’occorrente per la tortura. Affisse al muro, senza un preciso ordine, tante immagini sacre: santa Rosalia, santa Rita, la Madonna, san Cristoforo, protettore degli automobilisti. È lo strangolatoio di Cosa nostra. Amen. Pasquale Di Filippo ci aveva parlato di questo luogo nel suo primo interrogatorio dopo la cattura di Bagarella. Il suo racconto, drammatico, parte dalla faida di Villabate, da questo strano gioco di guerra tra mafiosi e dalla paura che aveva Bagarella di essere oggetto di un complotto degli «scappati», i vecchi boss usciti sconfitti dalla guerra di mafia degli anni Ottanta.

LA FINE DI GAETANO BUSCEMI Perciò il boss di Corleone aveva emesso e fatto eseguire numerose sentenze di morte. I condannati di turno, in quella maledetta primavera del 1995, sono Gaetano Buscemi e Giovanni Spataro, soci in affari. Buscemi è un piccolo imprenditore edile di Villabate, nipote di tale Giuseppe Di Peri, che Bagarella aveva fatto uccidere insieme al figlio, poco più di un mese prima. Il 28 aprile scatta l’agguato. Spataro e Buscemi vengono attirati in un tranello. Mentre si recano a piedi a visitare un cantiere vedono arrivare una Fiat Croma con il lampeggiante e con a bordo uomini che indossano giubbetti con la scritta «polizia di Stato». Dalla macchina scendono, armi in pugno, i killer di Mangano e Bagarella. Prima che i due abbiano modo di comprendere cosa stia succedendo, Salvatore Grigoli e lo stesso Mangano fanno fuoco e uccidono Spataro. Gli altri prendono Buscemi e lo trascinano a forza nella Croma. Direzione: la camera della morte, dove pochi minuti dopo arriverà don Luchino in persona. Buscemi viene interrogato per oltre otto ore, schiaffeggiato di continuo e poi strangolato per mano dello stesso Bagarella. Pasquale Di Filippo e Pietro Romeo sono lì, sul posto, insieme a una mezza dozzina di gregari. Entrano ed escono da quella stanza. Quando decidono di collaborare ci raccontano nei dettagli, con estremo disagio, il drammatico «interrogatorio» di Buscemi, sicuramente uno dei più lunghi nella storia di Cosa nostra. Me lo sono immaginato diverse volte quell’interrogatorio: la luce fredda della lampada al neon, da ufficio di terz’ordine, Gaetano Buscemi bianco come un cencio, con il volto coperto di lividi, legato sulla vecchia sedia di legno impagliata, da quattro soldi. Di fronte a lui, i santini, beffardi, attaccati alla parete. Buscemi ha quarant’anni, è un mafioso di piccolo calibro e, obiettivamente, ha poco da raccontare. È solo capitato in un gioco di potere più grande di lui, un gioco tra Bagarella e i Graviano, da un lato, e Provenzano e Aglieri dall’altro. Nello stanzino lo interrogano per ore. Bagarella lo incalza. Vuole sapere tutto sulla famiglia Di Peri, anche quello che Buscemi non può dire perché non lo sa.

Gli hanno messo una corda al collo. Una corda sottile e ruvida, i cui capi penzolano dietro la sedia. È terrorizzato, ma è lucido. Tanto lucido da stipulare uno strano quanto macabro patto con i suoi assassini.  Sa che la sua sorte è segnata e che non ha la minima possibilità di salvarsi la vita; mette sul piatto della bilancia l’unica richiesta che potrebbe forse essere accolta. Si dice disponibile a raccontare loro tutto quello che sa a patto che il suo cadavere non venga sciolto nell’acido: che almeno sua moglie e i suoi figli possano avere una tomba su cui piangere. Ancora oggi rabbrividisco a pensare alla forza morale dimostrata nell’occasione da quell’uomo, da quel condannato a morte.

Avuto l’assenso di don Luchino, Buscemi svela che suo zio, Giuseppe Di Peri, faceva esclusivo riferimento a Pietro Aglieri, legatissimo a sua volta a Provenzano, e che di recente aveva incontrato delle persone, forse proprio qualcuno degli «scappati», a Marsiglia. A queste rivelazioni Bagarella «sospende il verbale» e manda Calvaruso a cercare Giovanni Brusca per fargli sentire in diretta quelle informazioni che, secondo lui, costituiscono la prova del doppio gioco di Provenzano. Ma il boss di San Giuseppe Jato non si trova.

Si va avanti così fino a sera inoltrata, fin quando Bagarella capisce di non poter cavare più niente da quel povero cristo. E tira la corda per primo. Poi apre la porta e dice: «Cu ‘u voli salutari ora, lu po’ fari». Gli altri mafiosi entrano, a piccoli gruppi, e finiscono il lavoro. È notte fonda. Certamente qualcuno tra i presenti deve aver provato un senso di nausea e forse di pietà, senza darlo a vedere, ovviamente. Tutti insieme diventano arroganti: fanno branco.

Il corpo di Buscemi viene legato, caricato su un Fiorino Fiat e abbandonato in una via del centro di Villabate, con ancora la corda al collo. Bagarella e Mangano, da uomini d’onore, sono stati ai patti, hanno rispettato l’accordo con il condannato e hanno consegnato il suo cadavere alla famiglia.

Quando vado a fare il mio primo sopralluogo in quel capannone accuso un senso di vertigine, di smarrimento. Malgrado i due mesi trascorsi dall’ultimo omicidio eseguito, avverto in quello stanzino un indefinibile odore di morte. C’è ancora la sedia sgangherata dove è stato legato e strangolato Buscemi, ci sono le corde, le manette, i santini appesi al muro e le tracce di altre esecuzioni, di altri omicidi avvenuti là dentro.

Come quello di certo Vallecchia, noto come Gianni Giannuzzo, detto ‘U cantanti perché faceva l’interprete di canzoni napoletane. Bella voce e un repertorio classico, dicevano: ‘O sole mio, Malafemmena, Reginella, ‘O surdato ‘nnammurato… Si esibiva ai matrimoni e nelle feste di paese.

Al momento dell’esecuzione ha in tasca un telefonino che i killer, per non lasciare tracce, hanno bruciato proprio nell’atrio del magazzino. Così ci hanno raccontato i pentiti. Alla fine lo recupero proprio io quel telefono: trovo in un angolo dei pezzi anneriti, semicarbonizzati, di un e-tacs Motorola. In un frammento è visibile parte del numero di serie dell’apparecchio. E quelle cifre corrispondono al cellulare di Gianni ‘U cantanti! È la conferma che i pentiti dicono la verità e che quel magazzino gronda sangue.

Ne avevano ammazzati tanti, di uomini, lì dentro. Cose di mafia, in fondo, ma, soprattutto, cose da selvaggi. Come quando nel magazzino della Commerciale avevano condotto due cittadini marocchini, uno dei quali sospettato di aver attentato alla virtù della moglie di Pasquale Di Filippo. L’altro viene ucciso subito da Grigoli con un colpo di 7.65 munita di silenziatore. Un colpo solo, dritto in mezzo agli occhi. Il presunto spasimante, invece, viene «interrogato» e schiaffeggiato per un paio d’ore. Poi lo strangolano, lo evirano e gli infilano in bocca i genitali, assicurati con del nastro adesivo.

Nella notte i due corpi incaprettati vengono scaricati da un furgone lungo le vie di Brancaccio, affinché servano da monito per altri eventuali trasgressori del nono comandamento in relazione alle donne dei cosiddetti uomini d’onore.  La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini son diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.  A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA