La Commissione di “cosa nostra”, fino al suo scioglimento (1963), provocato dalla guerra fra i La Barbera e le altre “famiglie”, era così composta:
1. Salvatore Greco (Cicchitteddu): Segretario;
2. Antonino Matranga,
3. Mariano Traia,
4. Michele Cavataio,
5. Calcedonio Di Pisa,
6. Salvatore La Barbera,
7. Cesare Manzella,
8. Giuseppe Panno,
9. Antonino Salamone,
10. Lorenzo Motisi,
11. Salvatore Manno,
12. Francesco Sorci,
13. Mario Di Girolamo,
tutti capi mandamento.
Si noti l’assenza, a quei tempi dei corleonesi nell’organo direttivo di “cosa nostra”; infatti, i rapporti tra “Cicchiteddu” e Luciano Leggio erano tutt’altro che buoni e solo lo scatenarsi della faida contro i La Barbera ha evitato che gli attriti tra i due sfociassero in guerra aperta; ma i corleonesi non avrebbero dimenticato e si sarebbero vendicati in seguito anche dei loro avversari superstiti di un tempo. Non è questa la sede per esporre approfonditamente i motivi della guerra di mafia scatenatasi con l’omicidio di Calcedonio Di Pisa e culminata nella strage di Ciaculli; basterà dire che anche nella materia il Buscetta è stato attendibile. In sostanza, lo scontro è stato provocato dal crescente potere che i La Barbera andavano acquisendo, con l’ostilità soprattutto di Antonino Matranga (Resuttana), Mariano Traia (San Lorenzo) e Salvatore Manno (Boccadiferro). Michele Cavataio, muovendosi abilmente nel dissidio fra i La Barbera e il resto della commissione, uccideva Calcedonio Di Pisa in modo che la responsabilità ne venisse attribuita dalla commissione proprio ai La Barbera. E anche in seguito gli episodi più eclatanti, erano opera del Cavataio, comprese le autovetture piene di esplosivo fatte esplodere contro esponenti di spicco di “cosa nostra”. Lo scontro sanguinoso e l’attività repressiva degli organi di polizia determinavano lo scioglimento di “cosa nostra”, per cui i personaggi più rappresentativi cercavano riparo anche all’estero, sia per timore di essere uccisi sia per sfuggire agli arresti.
… Cosa Nostra” è rimasta inoperante fino al 1969, e cioè fino all’esaurimento dei grandi processi di mafia, con conseguente massiccia remissione in libertà di numerosi mafiosi. “Su tali fatti bisognerà che gli organi inquirenti ritornino, essendo emerse responsabilità penali per gravissimi delitti a carico di persone tuttora in vita; in questa sede va richiamata l’attenzione su personaggi come Pippo Calò e Antonino Salomone, protagonisti da oltre vent’anni di primo piano delle vicende di “cosa nostra”, i quali per tutto questo periodo si sono tenuti abilmente nell’ombra mentre altri con responsabilità molto minori sono stati accanitamente perseguiti e sopravalutati.
Nel 1970, dopo “l’esecuzione” di Michele Cavataio (c.d. strage di Via Lazio), riconosciuto il maggiore colpevole delle insensate carneficine del 1963, si ricostituiva “ cosa nostra” e, per un primo periodo, la direzione della stessa era nelle mani di un triumvirato formato da Salvatore Riina (ecco comparire i corleonesi!), Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti; e va rilevato che alla strage di via Lazio avevano partecipato Calogero Bagarella (probabilmente ucciso da Michele Cavataio nella sparatoria), Emanuele D’Agostino (della famiglia di Stefano Bontade) e Damiano Caruso; (originario di Villabate ma appartenente alla famiglia di Riesi capeggiata da Giuseppe Di Cristina.
Il Caruso, accusato di essere un confidente dei carabinieri, veniva ucciso poi, per ordine dei corleonesi; in realtà, in siffatta maniera costoro avevano dato il primo avvertimento a Giuseppe Di Cristina, fedele alleato e grande amico di Stefano Bontade, che aveva arruolato nella propria famiglia il Caruso nonostante che questi fosse originario di Villabate.
Nel 1970 veniva compiuta la cosiddetta spedizione di Castelfranco Veneto, dove venivano sorpresi ed arrestati Galeazzo Giuseppe, Lo Presti Salvatore e Rizzuto Salvatore (tutti e tre della famiglia di Pippo Calò), nonché Gaetano Fidanzati (della famiglia di Giuseppe Bono); ad essi era stato affidato dal triumvirato l’incarico di individuare ed uccidere il vice di Michele Cavataio, Giuseppe Sirchia, resosi responsabile fra l’altro, dell’omicidio di Bernardo Diana, vice di Stefano Bontade, avvenuto nel 1963.
Il 5 maggio 1971, veniva compiuto l’assassinio di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, definito dal Buscetta magistrato integerrimo e persecutore della mafia. In questa sede, non è possibile trattare di questo gravissimo fatto di sangue, per il quale procede altra autorità giudiziaria; va solo notato che l’omicidio, ispirato e voluto dai corleonesi, è stato eseguito nel territorio di Porta Nuova, della cui famiglia già allora era capo Pippo Calò. È di tutta evidenza, dunque, quanto siano antichi i rapporti di colleganza fra i corleonesi e questi ultimi.
Il processo cosiddetto dei 114, con l’arresto di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, consentiva una maggiore libertà d’azione al Riina, unico membro del “triumvirato” rimasto in libertà. Questo ultimo aveva l’ardire di ordinare il sequestro dell’ingegnere Luciano Cassina, nel quale venivano implicati uomini della famiglia di Pippo Calò, E ciò nonostante che vi fosse un patto espresso, in seno a “cosa nostra” di non eseguire sequestri di persona in Sicilia, per le conseguenze negative in termini sia di repressione poliziesca sia di allarme sociale.
In questa situazione di acuto risentimento da parte degli altri membri del “triumvirato”, Bontade e Badalamenti, Luciano Leggio, che nel frattempo era evaso, riprendeva in mano le redini della sua famiglia e, apparentemente per placare il Bontade, metteva da parte il Riina; tuttavia otteneva che, con la scusa che il riscatto era stato pagato e l’ostaggio già liberato, la faccenda venisse considerata ormai chiusa. Ciò ovviamente lasciava con l’amaro in bocca Bontade e Badalamenti, i quali nella sostanza non avevano ottenuto soddisfazione.
Comunque, con l’intervento del Leggio, veniva posto termine al “triumvirato” e si ricostituivano gli organi ordinari di “cosa nostra”. In questa fase la commissione veniva così composta:
1. Gaetano Badalamenti, Capo Commissione;
2. Luciano Leggio;
3. Antonino Salamone;
4. Stefano Bontade;
5. Rosario Di Maggio;
6. Salvatore Scaglione;
7. Giuseppe Calò;
8. Rosario Riccobono;
9. Filippo Giacalone;
10. Michele Greco;
11. Nené Geraci,
tutti capi mandamento.
È da notare che: il posto di Leggio, dopo il suo arresto avvenuto il 15 maggio 1974, veniva preso in seno alla commissione, da Salvatore Riina o da Bernardo Provenzano (in realtà e contro ogni regola da entrambi); il posto di Antonino Salamone, emigrato in Brasile, veniva preso da Bernardo Busca, che però riprendeva il suo ruolo di vice del Salamone, ogni volta che quest’ultimo ritornava in Italia.
L’omicidio del colonnello cc. Giuseppe Russo, avvenuto il 20 agosto 1977 provocava ulteriore gravissimo attrito fra Bontade e Badalamenti da un lato e i corleonesi dall’altro. L’omicidio, del quale anche Di Cristina ha indicato quali ispiratori i corleonesi, veniva eseguito da un “comando” del quale faceva parte anche Pino Greco “scarpazzeda”; nel commentare il fatto, Stefano Bontade faceva notare, in seguito, al Buscetta la falsità del comportamento di Michele Greco, il quale gli aveva detto di non sapere nulla circa mandanti ed esecutori dell’omicidio, mentre il suo uomo d’onore più “valoroso” (e cioè il suo killer più spietato) era stato uno degli autori del vile assassinio. “Anche da tale episodio, dunque, emerge come i corleonei e i loro alleati, perseguendo un piano diabolico, compivano al momento giusto delle azioni che – a parte la loro barbara ferocia – sono senz’altro dimostrazioni di una lucida strategia criminale. Nel caso di specie, con l’omicidio del colonnello Russo, essi ottenevano ad un tempo, l’eliminazione di un abile investigatore e di un implacabile nemico della mafia, il disorientamento nelle forze di polizia ed il progressivo isolamento e perdita di prestigio di personaggi come Bontade e Badalamenti, i soli che potevano opporsi ai piani dei corleonesi stessi di egemonizzazione di “cosa nostra”.
Si comincia a notare, inoltre, come le strutture di tale organizzazione, pur formalmente intatte, si avviavano ad essere utilizzate per coprire un audacissimo piano, del tutto riuscito, diretto a trasformare “cosa nostra” in una pericolosissima organizzazione criminale, maggiormente in sintonia con i tempi e con le mutate esigenze dei traffici illeciti. In questo quadro, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti erano un ostacolo da rimuovere, il primo perché legato ad una visione di “cosa nostra” ormai disarmonica rispetto alle esigente dei traffici; il secondo perché ritenuto dai corleonesi privo delle capacità intellettuali per poter gestire una realtà tanto complessa. Gli eventi successivi dimostrano in modo impressionante la fondatezza delle parole del Buscetta. Ed infatti, alla fine del 1977 – primi del 1978, avvengono sostanziali modifiche della Commissione tali da renderla ancora più docili ai voleri dei corleonesi. E difatti: viene espulso da “cosa nostra” Gaetano Badalamenti per motivi che il Buscetta ha dichiarato di non conoscere ma che certamente sono stati gravissimi se hanno comportato tale sanzione nei confronti del capo di “cosa nostra”. Da allora, invero, il Badalamenti ha sempre vissuto appartato, (evidentemente per il fondato timore di essere ucciso), tanto che non è riapparso in pubblico nemmeno quando le sue vicende giudiziarie si sono risolte in modo a lui favorevole; il posto di Gaetano Badalamenti quale capo della Commissione vien preso da Michele Greco, interamente, manovrato dai corleonesi; capo della famiglia di Cinisi viene nominato Antonino Badalamenti cugino di Gaetano, che nutre profonda avversione nei confronti di quest’ultimo; entrano a far parte della Commissione Francesco Madonia, rappresentante della famiglia di Resuttana, e Nené Geraci, rappresentante di quella di Partinico, entrambi fidatissimi alleati dei corleonesi. In siffatta maniera, tutta la piana dei colli, fino a Partinico, è controllata dai corleonesi, specie se si considera che il capo della famiglia di San Lorenzo, Filippo Giacalone, avversario dei corleonesi, viene fatto sparire; entra a far parte della Commissione Inzerillo, in sostituzione di Rosario Di Maggio; unico punto a favore del Bontade, nel riassestamento della Commissione, è la nomina a capo mandamento di Gigino Pizzuto, rappresentante di una famiglia ai confini del territorio della Commissione di Palermo. E qui incidentalmente va rilevato che trattasi di uno dei tantissimi riscontri delle dichiarazioni di Buscetta, dato che di Gigino (Calogero) Pizzuto finora si ignorava del tutto il ruolo nelle vicende di Cosa Nostra ed è stato possibile procedere alla sua identificazione solo in virtù delle precise indicazioni fornite dal Buscetta anche sulle modalità della uccisione del Pizzuto stesso.
La Commissione, nel 1978, era così composta:
1) Michele Greco, capo commissione;
2) Salvatore Riina e Bernardo Provenzano;
3) Antonino Salomone (sostituito da Berardo Brusca);
4) Stefano Bontade;
5) Salvatore Inzerillo;
6) Salvatore Scaglione;
7) Giuseppe Calò;
8) Rosario Riccobono;
9) Francesco Madonia;
10) Gigino Pizzuto;
11) Nené Geraci;
12) Soggetto in corso di identificazione.
Nel 1979-1980, e comunque prima della uccisione di Stefano Bontade, venivano inseriti nella Commissione Giovanni Scaduto, genero di Salvatore Greco Ferrara, e Pino Greco “scarpazzedda”, quale capo della famiglia di Ciaculli: quest’ultimo episodio costituisce ulteriore stravolgimento delle regole di Cosa Nostra, ove si consideri che della famiglia di Ciaculli due membri vengono inseriti all’evidente scopo, da un lato, di riconoscere l’importanza acquisita dal feroce Pino Greco “scarpazzedda”, e dall’altro, di relegare in posizioni meramente onorifiche Michele Greco, vittima della sua mancanza di personalità ed ormai in balia dei corleonesi.
Le conseguenze di questo mutato assetto della commissione e, quindi, degli accresciuti poteri dei corleonesi non si fanno attendere.
Nel marzo 1978 veniva ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Dc. Di tale omicidio – che per la sua rivelanza non poteva non avere coinvolto tutta la commissione – né Stefano Bontade, né Salvatore Inzerillo, né Rosario Riccobono sapevano nulla ed anzi i primi due, nel commentarlo successivamente col Buscetta, lamentavano, appunto, questo ulteriore affronto al loro prestigio ed il loro progressivo isolamento.
Nel maggio 1978, veniva ucciso Giuseppe Di Cristina. L’omicidio, opera dei corleonesi, era una gravissima offesa soprattutto per Salvatore Inzerillo, nel cui territorio il crimine veniva consumato con modalità tali da indirizzare i sospetti della Polizia su questo ultimo.