Nostro padre Paolo Borsellino

 MANFREDI BORSELLINO  La mattina del 19 luglio (1992), complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano, “mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii”

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii e ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino e a grande velocità ci recammo in via D’Amelio […]. La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta e abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza se e senza ma a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in ‘familiari superstiti di una vittima della mafia’, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva Paolino sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

Alla luce di ciò che è accaduto dopo è facile pensare che non si sia fatto tutto il possibile, perché questa tragedia si evitasse. Noi lo gridiamo a gran voce da anni, perché sono note a tutti le molte istanze di mio padre che non riteneva chela scorta fosse il metodo più sicuro per poter tutelare la propria incolumità, anche perché si metteva a rischio quella di ragazzi che avevano la mia età, perché Emanuela Loi aveva la mia età, ma nonostante
tutto mio padre invocò l’aiuto dello Stato perché venissero rafforzate le misure di protezione, in particolare per quanto riguarda i siti dove più spesso si recava, come quello dell’abitazione della madre. A parte questo episodio che racconto per far comprendere la nostra consapevolezza non solo di quei giorni, ma di quegli anni, mio padre
ebbe la scorta in occasione dell’uccisione del capitano Basile e quindi nei primi anni’80, per cui tutta la mia infanzia e quella dei miei fratelli è stata vissuta con la costante presenza di persone che hanno fatto questo lavoro con onestà, con amore, con
dedizione e con trasporto umano assolutamente ricambiato, per cui posso dire di aver avuto una famiglia allargata da questo punto di vista.”

 

 

FIAMMETTA BORSELLINO: “ Il male non lo commette solo chi uccide, anche l’indifferenza è colpevole. Sulla strage di via D’Amelio c’è stata una regia occulta per sviare le indagini agevolata dalle sentinelle rimaste in silenzio. È come se un medico vedesse una cartella clinica palesemente falsa e non dicesse nulla. La cosa più incredibile di questa vicenda non è che qualcuno abbia depistato, perché questo purtroppo è accaduto più volte nella storia d’Italia, ma che nessuno si sia messo di traverso nonostante le carte parlassero da sole, fin da subito. Nella migliore delle ipotesi i magistrati sono stati funzionali al depistaggio con la loro incapacità o insipienza, e ancora oggi non ho sentito nessuno ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa”

Sono andata in carcere a trovare gli assassini e ho capito i veri morti erano loro, perché non possono vedere crescere i figli, stare con le loro mogli. Personalmente credo che questa sia veramente la punizione peggiore».

Quando ho chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (due dei capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, ndr) l’ho fatto per l’urgenza emotiva di condividere il dolore non solo con le persone vicine e affini, ma anche con chi quel dolore ha provocato. Guardarli e farmi vedere in faccia. E seppure non ci sono stati risultati tangibili, penso che per loro trovarsi di fronte a una vittima qualche effetto l’abbia provocato. Giuseppe è stato arrogante e quasi offensivo chiamando Paolo Borsellino “la buonanima di suo padre”, e ho notato una certa strafottenza mentre si vantava del figlio che è riuscito ad avere durante il “carcere duro”. Ma sono convinta che ad uscire rafforzata da quei colloqui sono stata io, non loro; loro sono i veri morti di questa storia, non io che vivo insieme a mio padre in ogni momento della mia esistenza. Ho fatto un salto nel buio che è servito a farmi sentire più forte, più determinata a chiedere spiegazioni. Io non cerco altre risposte precostituite, voglio solo ricostruire gli anelli di una catena. Lo ritengo un mio dovere, se ognuno avesse fatto il suo in questi anni oggi non saremmo a questo punto. Mio padre ha fatto tutto ciò che ha potuto non solo per processare i mafiosi ma anche per sconfiggere la cultura mafiosa, senza mai smettere di parlare ai giovani che sono la speranza per il futuro. È quello che provo a fare anch’io, perché in fondo pure le coperture e l’omertà istituzionale che hanno avallato i depistaggi rientrano nella cultura mafiosa.

E’ importante ricordare i fatti successi, così poi, quando ricapiteranno tu sarai libero di scegliere. I mafiosi non hanno avuto scelta, non avevano alternative.

Ma non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri.

Cerco di trasmettere ai giovani l’esempio di mio padre. Condivido con loro la mia esperienza personale che sento come un dovere civile. La scuola è un importante avamposto educativo dove far lievitare la consapevolezza della legalità e del rispetto delle regole. Quando parlo ai ragazzi colgo la loro attenzione, il loro desiderio di costruire una società migliore. Vado spesso anche nelle parrocchie che aprono le loro porte ai cittadini perché credo sia indispensabile poter dialogare nella maniera più ampia possibile per scuotere le coscienze e arrivare al cuore della gente. Bisogna abbattere il muro dell’omertà, della paura.

L’eredità lasciata da Paolo Borsellino ha tracciato un solco indelebile per edificare un futuro migliore, nell’ attesa che venga fatta chiarezza sui punti oscuri che ancora avvolgono la strage di via D’ Amelio.

I lunghi anni delle indagini e dei processi hanno scandito l’inesorabile passare del tempo, che in casi come questo compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità. Ma non si deve smettere di tendere a essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. Non è ammissibile. 

Mio padre era un cristiano vero, un fervente cattolico, ma soprattutto era una persona credibile, che ha fatto dell’impegno costante e quotidiano nell’ antimafia la sua ragione di vita. Io porto dentro i valori positivi che mi ha insegnato: il senso di giustizia, la legalità, la comprensione dell’uomo. È questa la vera strada da seguire per diffondere e far sentire il fresco profumo della libertà a chi si oppone all’ onestà.

Mio padre amava usare il rasoio a mano per farsi la barba anziché il rasoio elettrico perché in questo modo era costretto ogni mattina a guardarsi allo specchio. Guardandosi in faccia tutti i giorni, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo aiutava a convincersi che certe cose non si possono proprio fare.

Vi fu un intreccio molto forte fra mafia e istituzioni, un intreccio che passa anche per quelli che erano i forti poteri economici di allora: uno dei pallini di mio padre era il dossier mafia e appalti, che fu prontamente chiuso pochi mesi dopo l’eccidio di via D’Amelio. Per far luce davvero su tutto, ci vorrebbe un grande contributo di onestà da quegli uomini delle istituzioni che sanno.

Mio padre giocava a calcio con i figli dei mafiosima ha deciso di cambiare strada. Palermo non gli piaceva e per questo ha deciso di amarla perché il vero amore è amare le cose che non ci piacciono e cambiarle.

 È avvenuto tutto questo per indifferenza, perché molti si sono girati dall’altra parte per non avere problemi, per paura di opporsi al sistema, per ansia di carriera, per trovare subito una risposta usando anche la scorciatoia più breve. Noi possiamo soltanto chiedere che si faccia chiarezza.

Mio padre era quello che ogni sera si guardava allo specchio e si chiedeva se quel giorno avesse meritato lo stipendio.

Mio padre ancora vive con noi, nella mia famiglia, nella società, nelle esperienze belle e coinvolgenti. Sono invece loro che sono morti : quelli che da 27 anni restano chiusi in carcere nel loro mutismo, senza collaborare con gli organi che dovrebbe scoprire la verità su quanto accaduto in quel periodo buio per la Sicilia e l’Italia.

I pentiti sono attendibili ? , “Alcuni si Spatuzza ha aperto il proprio cuore nonostante i delitti commessi , e si è veramente pentito rilevando cose importanti. Altri invece no, come per esempio quello Scarantino che fin da subito ha depistato le indagini, facendo anche inquisire molte persone che con l’attentato di via D’Amelio non c’entravano nulla. Quindi bisogna andare avanti con determinazione – ha aggiunto – e fare in modo che tutti operino per chiarire i fatti, magistrati compresi.

Mio padre cercò sempre la verità ma dopo la sua morte questa ricerca non è stata perseguita. Tutti sapevano e mio padre si definì un morto che camminava, ma nulla fu fatto per tutelare la sua incolumità. Dietro questa inerzia ci sono stati solo trasferimenti, molti testimoni non furono sentiti al processo per la sua morte e per quella degli uomini della scorta.

Abbiamo convissuto tutta la vita con il pericolo. Sapevamo che quella era l’unica strada percorribile e questo ci ha dato la forza di combattere e di vincere la paura. In quei 57 giorni (il periodo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ndr) si distaccò da noi, era avvolto in una tristezza di fondo, la tristezza di chi andava incontro al sacrificio.

Mio padre e Falcone non erano santi ma uomini comuni che compievano il loro dovere». Una curiosità: «Mio padre era appassionato di linguaggi: sapeva interpretare le allusioni, le ambiguità, i silenzi e i gesti della Sicilia e dei siciliani, dove spesso le parole significano altro. Con Giovanni Falcone capì che per muoversi nella giungla del linguaggio mafioso bisognava parlare la stessa lingua, che lui stesso aveva appreso sin da ragazzo nel quartiere palermitano La Kalsa, giocando con i figli dei mafiosi. Apprese quel linguaggio e lo utilizzò negli interrogatori. Buscetta fu come un insegnante di lingua straniera.

La morte di mio padre arrivò al culmine dell’odio della compagine mafiosa contro coloro che combattevano l’illegalità». L’isolamento di Falcone e Borsellino. «Quando mafia e Stato si mettono d’accordo gli uomini come mio padre restano isolati. Dalle istituzioni, dai colleghi, dalle persone. Lo strumento mafioso più potente è l’omertà che si combatte con lo studio e la cultura.

Mio padre diceva sempre ‘morirò quando la mafia avrà assoluta certezza che sarò rimasto da solo e quando altri lo permetteranno.

Mi piace innanzitutto ricordare un uomo e un padre meraviglioso, sempre presente, arguto, Paolo Borsellino, di cui voglio conservare un ricordo intimo e riservato. Ma voglio rammentare anche il giudice Paolo, proprio attraverso le parole che egli ha dedicato ai giovani – forse le frasi più belle e ricche di significati perché lui amava i ragazzi – che oggi devono costituire un monito per ciascuno di noi. La lotta alla mafia prima di tutto è un movimento morale e culturale che deve abituare tutti a sentire il profumo della libertà, in opposizione al puzzo, al marciume delle infiltrazioni mafiose. Mafia e politica rappresentano due poteri che agiscono per il controllo dello stesso territorio e, pertanto, o si fanno la guerra oppure scendono a compromessi. I libri, non le pistole servono per combattere la mafia, non dobbiamo ricorrere alle conoscenze giuste ma possedere la giusta conoscenza che solo la scuola ci può dare. Siamo invitati a fornire esempi concreti e a porre in essere azioni visibili per realizzare e onorare gli ideali perseguiti da mio padre, promuovendo la legalità, i principi di buona amministrazione e di non complicità con le organizzazioni malavitose. 

Anche nei momenti più difficili non smetteva mai di sorridere anche utilizzando come antidoto alla paura l’ironia, che permetteva di sdrammatizzare. Il 19 luglio 1992 noi eravamo ragazzi adolescenti, tra i 19 e i 22 anni. A quell’età è facile lasciarsi un po’ andare e se non si trovano delle risorse interiori. Abbiamo scelto la strada della vita, se non avessimo fatto così avremmo totalmente sconfessato quelli che sono stati gli insegnamenti di mio padre”.

Aveva capito molto del marcio che c’è all’interno delle istituzioni e, ahimè, anche all’interno della sua stessa categoria. Nonostante ciò ha lottato sino alla fine per dare un’immagine diversa della magistratura e conoscendo la sua ironia probabilmente ora si sta facendo una bella risata. Gli hanno intitolato vie, piazze e aule di tribunali, ma l’unico modo concreto per rendergli onore era fare giustizia e invece si è lavorato in direzione opposta.

Gli esempi di questi uomini, il loro vissuto anche se conclusosi tragicamente, deve essere patrimonio comunee ci insegna che nella vita è importante dire da che parte stiamo e se scegliamo di stare dalla parte giusta, compiamo un atto d’amore nei confronti della nostra terra e dei nostri simili. È ciò che fece mio padre, mise la sua esistenza, il suo operato, a disposizione della sua gente, per liberarla dalla schiavitù della mafia, che non è altro che un organizzazione criminale che segue la via della ricchezza acquisita attraverso affari illeciti.

Ma la mafia è anche nella mentalità che portiamo dentro. Ognuno di noi è un po’ mafioso, quando cediamo alle scorciatoie e usiamo la prepotenza e la sopraffazione per raggiungere degli obiettivi. Spesso le organizzazioni criminali, si nutrono proprio del consenso dei giovani, e quando questi ultimi smetteranno di essere solidali e compiacenti, si comincerà a respirare un’aria di libertà.

La mafia si alimenta della paura di chi non ha il coraggio di denunciare mmio padre ha sempre creduto nello stato e nonostante fosse cresciuto in un quartiere popolare di Palermo, dove frequentava anche i figli dei mafiosi, già da piccolo scelse da che parte stare e maturò molto presto, la necessità di fare qualcosa per la sua terra, diventando un giovane magistrato.

Si occupò di mafia dopo che il capitano Basile e sua figlia piccola, furono uccisi, in un periodo storico durante il quale, molti innocenti persero la vita, a dimostrazione che tutti siamo vittime di questo sistema e tutti paghiamo un prezzo.

Soltanto la scuola, la cultura, la verità, la libertà, che sono diritti che nessuno può violare «possono darci la consapevolezza dei nostri doveri e la lotta alla mafia, si può fare con la conoscenza giusta, denunciando i soprusi e superando la paura.

Paolo Borsellino non era un eroe ma un uomo che voleva meritare il suo stipendio, come tutti noi, anch’egli aveva spesso paura, ma è necessario che insieme ad essa, conviva anche il coraggio.

Ha avuto sempre la sua famiglia accanto e anche quando i pericoli erano concreti, non gli abbiamo chiesto di fermarsi.

Mio padre sapeva che sarebbe morto nel momento in cui le istituzioni deviate lo avrebbero permesso e i suoi principali nemici, oltre alla mafia stessa, erano collocati proprio all’interno delle istituzioni, che non ebbero la reale volontà di combattere questo mostro. E mio padre, nonostante non si fosse mai sentito solo, in quel preciso momento fu abbandonato, non venne protetto, e la mancanza di responsabilità morale, prese il sopravvento, segnando il suo destino.

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.


MANFREDI BORSELLINO Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.