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“Per anni ho gridato dal carcere la mia innocenza, ma non venivo creduto. Perché non si voleva cercare la verità”. Torna a ribadire la sua “verità” Vincenzo Scarantino, l’ex pentito di mafia che è stato al centro del depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Lo fa davanti al Tribunale di Caltanissetta dove si celebra il processo a Mario Bo, dirigente della polizia, all’ex ispettore Fabrizio Mattei e all’agente Michele Ribaudo per calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. I tre facevano parte del cosiddetto gruppo investigativo “Falcone Borsellino” come stretti collaboratori di Arnaldo La Barbera. Quest’ultimo, dice Scarantino, “mi diceva sempre che ‘ero come Buscetta’ e mi chiamava ‘Buscetta junior'”.
Ad ascoltarlo in aula c’è anche Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato ucciso dalla mafia. Secondo l’accusa, dopo l’eccidio costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta, un gruppo di investigatori creò a tavolino una ricostruzione fasulla della fase esecutiva dell’attentato, costringendo, con minacce e pressioni pesantissime, improbabili personaggi assurti al rango di mafiosi pentiti a raccontare menzogne e ad accusare una parte di Cosa nostra che con l’attentato non aveva nulla a che fare.
Anni di indagini e inchieste con al centro sempre Scarantino. Da collaboratore di giustizia prima, da falso pentito dopo.
E sul tema dei tempi della sua “conversione” in aula torna il procuratore aggiunto Gabriele Paci, che rappresenta l’accusa con il sostituto Stefano Luciani. A una precisa domanda Scarantino precisa: “Io sono stato tanti anni in carcere e dicevo sempre che ero innocente, per me era impossibile che si cercasse la verità, io non mi fidavo e dopo mi sono reso conto che era inutile”. E sulla prima collaborazione spiega che è stato spinto dal trattamento ricevuto in carcere: “a Pianosa quando andavo a colloquio, mi facevano spogliare nudo, mi davano dei colpi nelle parti intime, mi davano schiaffi in bocca e calci con gli anfibi: sembrava il carcere di ‘Fuga da mezzanotte'”.
“Mi hanno fatto mangiare i vermi per la pesca – racconta -, pisciavano dentro la minestra, mettevano le mosche nella pasta”. Ha smesso di mangiare “passando da 103 chili a 53 e “tutti dicevano che avevo l’Aids”. Allora non capiva, oggi ritiene che “era terrorismo psicologico”. Riuscito perché fecero scattate la decisione di collaborare. E rispondendo alle domande del pm sulle sue “rivelazioni” aggiunge: “Mio fratello mi disse che gli vendeva la droga a Berlusconi, La Barbera non voleva che facessi tali dichiarazioni, ma io le feci lo stesso” e le fece mettere a verbale nel 1994. Poi la ritrattazione su Via D’Amelio, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza che ha fatto riaprire indagini e scagionare persone condannate ingiustamente a 18 anni di reclusione. “E’ dal 2009 – ricostruisce ancora Scarantino – che dico di essere innocente, ma non creduto”.
Ascolta in silenzio Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato presente in aula, che fa esplodere la sua rabbia in una pausa dell’udienza: “Tutto questo non doveva succedere – commenta – sono senza parole. E’ inammissibile che tutto ciò sia avvenuto sotto gli occhi di poliziotti e magistrati”. E chiede un salto di qualità nel processo: “Oggi stiamo partecipando a un segmento dell’accertamento delle verità sul piano giudiziario di tre poliziotti, ma vi sono responsabilità ad alti livelli. Parlo – chiosa – del Csm, della Corte di cassazione, procura generale. Organismi dai quali sono stata più volte coinvolta e io oggi mi aspetto una risposta”. L’udienza con Scarantino, sospesa per la stanchezza del falso pentito, continuerà domani mattina. 16 maggio 2019 LA REPUBBLICA