L’ultima foto di Borsellino: “Sapeva che sarebbe morto”

Il figlio lo ricorda 20 anni dopo la strage: “Consapevole di cosa lo aspettasse”

L'ultima foto di Borsellino:
 

È la sera di lunedì 6 luglio 1992, e il conto alla rovescia è già partito. Paolo Borsellino sembra sentirlo, quel tic-tac che diventa sempre più forte, mentre a Palermo i sussurri diventano grida: è lui il prossimo, lui la vittima designata, lui il morto che cammina.

Tredici giorni dopo questa fotografia, scattata nella villetta del giudice a Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dalla città, via D’Amelio sarà squarciata dal tritolo. Un’immagine scattata durante una serata con gli amici che è uno dei tentativi residui di normalità, di quella normalità che Borsellino si è lasciato alle spalle 44 giorni prima, quando Falcone – suo amico e scudo – è saltato in aria a Capaci.

È l’ultima sua fotografia, quella che vent’anni dopo il figlio Manfredi mostra con gli occhi negli occhi del padre. Dopo, di Borsellino, ci sarebbero state soltanto le immagini di un lenzuolo a coprire il cadavere nel cratere dell’esplosione.

Un’immagine che racconta come ormai, a dispetto dell’abbozzo di sorriso della moglie seduta all’altro capo del dondolo (in centro c’è un’amica di famiglia), il giudice non riesca più ad avere un momento di serenità. Volto scavato, sigaretta in bocca, sguardo sofferto, distrattamente rivolto all’obiettivo.

Sono i giorni in cui il magistrato scrive febbrilmente sull’agenda rossa poi scomparsa. Sono i giorni in cui combatte una battaglia durissima con il suo procuratore capo, Pietro Giammanco, che lo tiene fuori dalle indagini più importanti e dalla gestione dei nuovi pentiti. Sono i giorni in cui, secondo quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta sulla strage partita dopo la conclusione del processo depistato, il giudice viene a conoscenza della trattativa fra Stato e mafia per mettere fine alla stagione delle bombe. Un patto che gli ripugna.

«Oggi – racconta Manfredi Borsellino – sappiamo di avere assistito a Caltanissetta a un processo farsa, a indagini condotte da un ex questore e prefetto che aveva molta fretta di fare carriera, Arnaldo La Barbera. Non abbiamo partecipato a una sola udienza, forse intuendo inconsapevolmente che c’era qualcosa di strano».

Il figlio di Borsellino non ha paura di parlare chiaro. «Il depistaggio, ormai acclarato da quei colleghi di mio padre che conducono le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio, e che con mia madre e le mie sorelle non finirò mai di ringraziare, per produrre i suoi effetti devastanti è stato perlomeno “avallato” da magistrati requirenti e giudicanti. Io voglio credere che tutti siano stati sempre in buona fede e quindi davvero tratti in inganno dalle false risultanze investigative che gli venivano poste sotto gli occhi».

Ma questo appartiene all’angoscia del dopo. Qui, in questa fotografia, c’è il dolore che precede l’epilogo, quando il cerchio si è ormai stretto. Proprio dalla villetta di Villagrazia di Carini, quella domenica fatale di luglio, il giudice sarebbe partito dopo l’ultimo tuffo per andare a prendere la madre in via D’Amelio e portarla dal cardiologo.

Doveva essere lo specialista a fare una visita domiciliare, ma il giorno prima la mafia gli aveva incendiato la macchina per lasciarlo a piedi. Il tempo di scendere in quella strada in cui nessuno aveva provveduto a mettere un divieto di sosta, di scampanellare al citofono e la Fiat 126 imbottita di tritolo avrebbe sventrato asfalto e palazzi. Con lui muoiono Emanuela Loi, uno scricciolo di 45 chili e 24 anni che è tornata dalle ferie nella sua Cagliari per senso del dovere nonostante non si senta bene; Walter Cosina, un omone di Trieste che volontariamente è piombato nella trincea di Palermo e che sempre per sua scelta è in servizio al posto di un collega appena arrivato; Agostino Catalano, che ha lasciato a casa due figlie già orfane di madre; Claudio Traina, al suo primo giorno in servizio accanto a Borsellino; Fabio Li Muli, che pochi giorni prima ha chiesto alla sorella di ricordagli le parole dell’Ave Maria.
Qualcuno, adesso, per il giudice parla di martirio. Manfredi sorride, amaro. «L’ultimo dei suoi desideri – dice – era lasciare la moglie vedova e tre orfani ancora ragazzi, ma era consapevole che questo sarebbe potuto accadere. Piuttosto voleva far sì che i suoi familiari e gli agenti di scorta non rimanessero coinvolti in un attentato: con i primi è riuscito nel suo intento, con i secondi purtroppo no».

LA STAMPA 15.7.2012