Il rammarico nella requisitoria, “mostruoso disegno calunniatore che non merita attenuanti”
La ferita che si è aperta con il depistaggio sulla morte di Paolo Borsellino brucia per la famiglia, per quella parte dell’opinione pubblica che ha guardato alle vicende processuali che si sono svolte dopo la strage di via D’Amelio con occhio attento e spirito critico. E brucia anche tra le toghe. Tra quelle almeno – come ci ha detto in questa intervista l’avvocato della famiglia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 a Palermo – che con lavoro e determinazione hanno dovuto prendere sulle loro spalle gli errori dei loro predecessori, per rimediarli. Per scrivere nero su bianco, in migliaia di pagine di sentenze, che i loro predecessori avevano sbagliato in maniera grossolana e macroscopica. Che due inchieste e due processi – quelli che hanno sostenuto la colpevolezza del falso pentito Scarantino – erano da buttare.
Un’ulteriore dimostrazione ciò è stata tangibile ieri quando – prima che la Corte si pronunciasse in maniera definitiva sul processo Borsellino quater, rendendo definitiva la verità sul depistaggio – il procuratore generale della Cassazione, Pietro Gaeta, ha tenuto la requisitoria. Chiedendo ai giudici di confermare le quattro condanne stabilite dalla corte d’Appello di Caltanissetta, ha usato parole molto dure. Eccone alcuni passaggi:
Il depistaggio, dice Gaeta: ”È una mostruosa costruzione calunniatrice che secondo me è una delle pagine più vergognose e tragiche” della nostra storia giudiziaria ed è “di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante”
Dietro il tecnicismo, c’è certamente la richiesta di confermare il processo d’Appello. Ma c’è la ferma condanna nei confronti di decenni di bugie, che non sono state smascherate dalle toghe che avrebbero dovuto. E, forse, anche potuto. Del resto qualche elemento su cui ragionare c’era: due pm, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, che lavoravano a Caltanissetta quando partirono le indagini, avevano messo per iscritto le loro perplessità. Rimasero inascoltati esattamente come gli avvocati delle persone ingiustamente accusati, che nel dibattimento sostennero con forza che Scarantino non poteva essere il responsabile del furto dell’auto che, esplodendo, causò la morte di Borsellino e della sua scorta.
Ma torniamo alle parole di Gaeta. Per risalire alle origini del depistaggio, il pg – personaggio di spicco della procura generale della Cassazione, è l’uomo che ha sostenuto l’accusa nel giudizio disciplinare che ha portato alla radiazione di Luca Palamara – ha fatto riferimento a uno degli imputati, Francesco Andriotta, condannato per calunnia:
″È la miccia di tutto, l’inizio di un mostruoso disegno calunniatore”, ha detto Gaeta, ritenendo irricevibile la richiesta della difesa del finto pentito di ottenere uno sconto di pena tramite la concessione di circostanze attenuanti. “I ricorsi degli imputati vanno rigettati o considerati inammissibili”, ha aggiunto.
I giudici, però, una lieve attenuazione ad Andriotta l’hanno concessa. Qualche mese in meno di carcere, nulla di più. L’impianto del processo, che Gaeta ha affermato di condividere appieno, ha retto totalmente.
Data per assodata una parte importante della storia, sullo sfondo restano ancora zone d’ombra. Ne ha ricordate alcune il consigliere relatore della sentenza, Angelo Caputo:
Alcuni di questi elementi sono: la mancata identificazione degli “inquirenti infedeli”, gli uomini dello Stato responsabili “dell’indottrinamento” dell’ex pentito Vincenzo Scarantino uscito dal processo con la prescrizione maturata in secondo grado a seguito dell’attenuante di aver raccontato falsità indotto da “suggeritori” esterni.
Mancano ancora dei tasselli, insomma. Ma alcuni di questi non sono del tutto perduti. A Caltanissetta è in corso un processo nel quale sono imputati per aver indottrinato Scarantino. Sono loro i responsabili? Solo tra le forze dell’ordine bisogna guardare? Domande a cui i giudici dovranno rispondere nei prossimi mesi. HUFFOPOST 6.10.2021