Leonardo Sciascia e i professionisti dell’antimafia

 

 

 


dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987

Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono « eroi della sesta»:

1) « Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti… Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (…), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (Il giorno della civettaEinaudi, Torino, 1961).

2) « Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

Il punto focale . Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell’antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s’intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane « ricercatore» dell’Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla « mafia in sé» quanto a quel che « si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi – si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un’isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell’attuale consapevolezza (preferibile senz’altro – anche se alluvionata di retorica – all’effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l’impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.

Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l’illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti – a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c’è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) – siano serviti ai tanti, tantissimi che l’hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, « en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant’è che allora il « lieto fine» – e se non lieto edificante – era nell’aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.

Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la « pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un « esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n’è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.

Nel primo fascismo. idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che – nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi « risorgimentali» – volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).

Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange « rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano – garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine – liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.

Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi “mafiosi”): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.

Mori, dice Duggan, « era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva « forte fede nello Stato», « rigoroso senso del dovere». Tra il ’19 e il ’22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse – quel periodo di ozio – a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l’uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.

Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.

Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come « mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.

E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: « et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.

Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel « notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell’assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: “Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il “superamento” da pane del più giovane aspirante”.

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come « la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel « superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria – è « magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz’altro definire come « magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna « a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza « che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo « piatisse l’assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l’altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di « magistrato gentiluomo», c’è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

 

 


25 gennaio 1988 – La colazione del chiarimento  

L’8 gennaio si è celebrato il centenario dalla nascita del grande scrittore siciliano LEONARDO SCIASCIA. Noi vogliamo ricordarlo  rievocando quanto avvenne a seguito dell’articolo di Sciascia dal provocatorio titolo I professionisti dell’antimafia nel quale venne citato il dottor Paolo Borsellino per la sua nomina a Procuratore della Repubblica di Marsala.


I sostenitori di Sciascia si sono industriati in ogni modo a sostenere la giustezza di quella polemica. E a narrare la rappacificazione tra i suoi due protagonisti. Ma l’accusa disperata di Borsellino, fatta nel momento della più alta consapevolezza, è un macigno che chiude qualsiasi argomentazione. Sarebbe più sensato e intelligente dire che Sciascia commise un grande errore. Ammettere che anche un grande intellettuale può incappare in un grande errore. Sostenere l’infallibilità di uno scrittore che costruì il suo prestigio proprio esaltando la virtù laica del dubbio significa fargli un torto. Di mezzo non ci sono inezie, ma la storia della Repubblica. NANDO DALLA CHIESA – Gennaio 2021


 


Borsellino, Sciascia e i professionisti dell’antimafia. Agnese Borsellino, vedova di Paolo, rievoca: «Aveva ragione, Sciascia aveva ragione. Anche Paolo era sconvolto, ma lo sapeva bene di non essere lui il bersaglio di quella riflessione provocatoria». Agnese aggiunge: «A Marsala, lì avvenne l’incontro fra Paolo e Sciascia, c’ero anch’io e c’era la signora Anna Maria». Pranzarono, risero insieme. «Paolo lo chiamava maestro, era felice. Gli disse: “Ho capito la mafia sui suoi libri”. Si misero a chiacchierare, è come se si conoscessero da sempre. Non è vero che in quella occasione ci fu una riconciliazione: non è vero perché fra i due non ci fu mai una frattura, nemmeno quando uscì quell’ articolo». La vedova del procuratore scuote la testa, mormora: «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri». 14.10.2009


SCIACIA e…  8 gennaio del 1921. Quel giorno, cento anni fa, nacque a Racalmuto, in provincia di Agrigento, Leonardo Sciascia, uno dei maggiori scrittori e intellettuali della seconda metà del Novecento italiano. Che va ricordato in questa sede per il duplice ruolo che giocò nella lotta alla mafia. Un ruolo positivo, e largamente, per l’impatto del suo romanzo più celebre, ‘Il giorno della civetta’, uscito con Einaudi nel 1961, sul rapporto tra mafia e letteratura. Un ruolo mai avuto da alcun altro romanzo, poiché Il padrino di Mario Puzo ebbe un impatto soprattutto cinematografico. Si tratta di un testo ancora di grande attualità. Si pensi alla geometrica allegoria degli appalti, che sembra nata dalla lettura di atti giudiziari sulla ‘ndrangheta nel Nord Italia. Si pensi alle splendide pennellate sull’omertà di massa. O al ritratto di don Mariano Arena, per nulla “potere occulto” ma sfacciatamente presente sul territorio e da tutti conosciuto e riconosciuto. O alla celebre classificazione dell’umanità in cinque categorie, dagli uomini ai celebri quaquaraquà. O ancora al rapporto a filo doppio tra mafia e politica. O infine a quella geniale previsione di una “linea della palma” che sale verso Nord di 500 metri all’anno.
E tuttavia Sciascia ebbe un ruolo anche negativo. Accadde un quarto di secolo dopo, quando gettò la fama e il prestigio conquistati con la denuncia della mafia contro il nuovo movimento antimafia. Incredibilmente a vantaggio del sistema di potere. Il 10 gennaio del 1987 uscì infatti in prima pagina sul ‘Corriere della sera’ un suo articolo intitolato ‘I professionisti dell’antimafia’. Un attacco a chi finalmente stava costruendo una nuova Sicilia (e anche una nuova Italia) contrastando il fenomeno mafioso. In quell’articolo venne fatto esplicitamente il nome di un solo “imputato”.
Si chiamava Paolo Borsellino. Sciascia spiegava che quelli come Borsellino stavano facendo carriera combattendo la mafia (e non, potremmo chiosare, convivendoci furbescamente). E che si sarebbero visti in futuro i vantaggi del fare i processi di mafia. Il “vantaggio” di Paolo Borsellino si vide cinque anni dopo. E fu quello di saltare per aria con i suoi agenti di scorta il 19 luglio 1992 in uno dei più terribili attentati della storia della Repubblica. Prima di morire il giudice fece anche in tempo ad affermare nel suo ultimo discorso pubblico che “Giovanni (Falcone) ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”.
I sostenitori di Sciascia si sono industriati in ogni modo a sostenere la giustezza di quella polemica. E a narrare la rappacificazione tra i suoi due protagonisti. Ma l’accusa disperata di Borsellino, fatta nel momento della più alta consapevolezza, è un macigno che chiude qualsiasi argomentazione. Sarebbe più sensato e intelligente dire che Sciascia commise un grande errore. Ammettere che anche un grande intellettuale può incappare in un grande errore. Sostenere l’infallibilità di uno scrittore che costruì il suo prestigio proprio esaltando la virtù laica del dubbio significa fargli un torto. Di mezzo non ci sono inezie, ma la storia della Repubblica. NANDO DALLA CHIESA Gennaio 2021


Dalla ‘linea della palma’ all’accusa a Borsellino: il duplice ruolo di Sciascia nella lotta alla mafia da Stampo Antimafioso | Gen 7, 2021 | Rubriche di Nando dalla Chiesa

‘I PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA’, QUALCUNO INFORMÒ (MALE) SCIASCIA  di Gian Carlo Caselli | 11 GENNAIO 2017  Giusto trent’anni fa Il Corriere della Sera pubblicò un articolo di Leonardo Sciascia intitolandolo “I professionisti dell’antimafia”. Fin da subito l’articolo divenne famoso per alcuni e famigerato per altri. Anche oggi le polemiche continuano. Felice Cavallaro, ad esempio, sempre sul Corriere ne ha fatto una rievocazione elogiativa, di lungimiranza che smaschera i rischi “dell’impostura” dell’antimafia, confermata dalla “deriva dei nostri giorni”. Condivido la risposta di Nando dalla Chiesa su questo giornale e di Mario Portanova sul sito, con un paio di aggiunte. Nel suo articolo Sciascia, sostanzialmente, affrontava due temi: il rapporto della mafia con la politica e con la giustizia. Sul primo versante avrebbe potuto prendersela con Ciancimino o Lima o Andreotti.
Scelse invece come bersaglio Leoluca Orlando, non riconoscendogli neppure il tentativo di porre alla base della sua attività istituzionale una nuova cultura politica, avversa a legami più o meno occulti con la mafia.
Quanto al secondo versante, nessun accenno ai magistrati che si “scantano” o si scansano, quelli cioè che hanno paura o preferiscono la vita tranquilla, per cui non vedono o si tirano indietro. Un attacco furibondo invece contro Paolo Borsellino, uno dei più validi componenti (insieme a Falcone) del pool di Chinnici e Caponnetto che aveva ottenuto, con il “maxi-processo”, la prima sconfitta di Cosa Nostra dopo secoli di impunità.
Roba da niente secondo Sciascia, in ogni caso non sufficiente per giustificare la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala (zona ad alta intensità mafiosa), a fronte di un concorrente “più in diritto di ottenere quel posto” perché più anziano, ancorché mai incaricato di un processo di mafia. Di qui l’accusa assurda a Borsellino di essere un “professionista dell’antimafia”, nel senso di un arrivista che sgomita per scavalcare colleghi più meritevoli (per l’anagrafe…). Un’accusa che dopo la strage di via d’Amelio sarebbe bestemmia riprendere. IL FATTO QUOTIDIANO 11.1.2017


SCIASCIA-BORSELLINO. QUANDO SI TRUCCA LA STORIA (E IL RUOLO DEL CORRIERE…) Ma è possibile che a distanza di trent’anni si voglia ancora riprendere la polemica di Sciascia sui professionisti dell’antimafia e riproporre la solfa della sua “profezia”? Leggete qui sotto quale fu, testualmente, la sua vera profezia. E vi prego, prego veramente tutti di prendere il filmato che Pierpaolo Farina ha messo sul mio fb, ovvero l’ultimo drammatico discorso pubblico di Borsellino, per vedere che cosa lui pensasse davvero di quell’articolo. E poi vi prego di farlo girare, e ancora di farlo girare affinché gli italiani lo conoscano e possano replicare come si deve a chi cerca ancora di truccare la storia.
E a proposito: l’accanimento del “Corriere” su questa vicenda inizia davvero a essere sospetto. Fece infatti la stessa apologia dello scrittore, servendosi di firma diversa, anche nel ventennale. Ma perché? Dato quello che accadde nel ’92, non si potrebbe dire che quella volta Sciascia sbagliò (di brutto)? Non ci sarebbe nulla di male. Solo il papa è infallibile, o no? Anzi, i laici non credono nemmeno a quella, di infallibilità. Di più: il Corriere esaltò in quel caso la laicità di Sciascia e la laicità propria. E che laicità è quella che dichiara l’infallibilità di un intellettuale anche a costo di truccare la storia?. Il fatto è che in questa vicenda c’è un macigno enorme che si chiama Paolo Borsellino. E nessuno può liberarsene con un imperturbabile soffio.


Qui sotto quel che ho scritto oggi sul Fatto.

“Plato amicus sed magis amica veritas. Perciò devo replicare all’articolo scritto ieri per il ‘Corriere’ da Felice Cavallaro in occasione del trentennale della celebre polemica di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Sciascia fu profeta, dice Cavallaro. Perché vide prima di altri i profittatori del marchio ‘antimafia’. E cita subito il caso della magistrata Saguto. In realtà a finire nella pubblica disistima pur esponendo quel marchio erano già stati in tanti. Altri magistrati (quelli che isolarono il procuratore Costa, per esempio) o membri vanagloriosi della commissione parlamentare antimafia.
Il fatto è che nulla può essere raccontato senza il contesto. La polemica nacque nel pieno del maxiprocesso e aveva un solo bersaglio nominativo: Paolo Borsellino. Cavallaro dice che non è vero, che l’accusa era diretta al Csm, ‘colpevole’ di avere nominato Borsellino procuratore capo di Marsala contravvenendo al (pessimo) costume di usare l’anzianità di servizio invece della competenza o dell’esperienza sul campo. No, il bersaglio, era proprio Borsellino. Era lui il profittatore dei nuovi orientamenti del Csm. L’unica (e vera) profezia che fece Sciascia in quell’articolo fu la seguente: ‘I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso’. La carriera di Borsellino l’abbiamo poi conosciuta tutti. Cinque anni dopo saltò per aria in brandelli.
Prima però egli fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che ‘Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia’. Già, perché proprio per evitare che potesse fare carriera anche lui come Borsellino, il Csm bocciò Falcone tornando (e fu esattamente l’effetto Sciascia) al principio dell’anzianità. Questa è la storia vera. Ma sentire una volta il rimorso verso Borsellino no, eh?” (Fatto Quotidiano del 10.1.17) Dal Blog di Nando Dalla Chiesa


MARSALA E BORSELLINO. 30 ANNI FA L’ARTICOLO DI SCIASCIA SUI PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA 30 anni fa usciva sul Corriere della Sera uno dei più famosi articoli di Leonardo Sciascia, dal titolo “I professionisti dell’antimafia”. L’articolo era  dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto era un libro di Christopher Duggan, ricercatore a Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che raccontava la parabola di Cesare Mori, il castigamatti della mafia durante il Ventennio fascista. Sciascia inseriva il contrasto di Mori alla mafia nel quadro più ampio delle lotte interne al partito fascista. In Sicilia e in tutto il Paese, diceva, la vita del fascismo fu caratterizzata dalla dialettica, prima aspra e poi via via più sfumata, tra un’ala conservatrice tutta ordine e disciplina, di cui Mori faceva parte, e un’ala rivoluzionaria di ascendenza socialista e anarchica. Il contrasto di Mori alla mafia, condotto con strumenti eccezionali e senza alcuno scrupolo, salutato dall’opinione pubblica con straordinario favore, servì all’ala conservatrice per conquistare definitivamente la supremazia nel partito e imprimere la sua forma sul regime. Da questa vicenda Sciascia traeva una morale scomoda: l’antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, può diventare un formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa. Ne seguiva un’invettiva contro quei sindaci che marciano nei cortei antimafia, parlano ai raduni e nelle scuole e magari non si occupano dei problemi concreti delle loro città, ma che nessuno si sognerebbe mai di rimuovere, per via dei meriti acquisiti “in trincea”. E ancora, tirava in ballo un lampante esempio di malfunzionamento della magistratura: la nomina a procuratore di Marsala di Paolo Borsellino, in spregio alla graduatoria degli aventi diritto e alle regole di anzianità, per “una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata di stampo mafioso”.  Nei giorni, mesi e anni successivi l’articolo di Sciascia suscitò un putiferio. In un comunicato, il Comitato antimafia di Palermo bollò lo scrittore come un “quaquaraquà”, prendendogli a prestito la definizione, e lo accusò di seminare zizzania nel fronte, già esiguo e spaurito, degli avversari di Cosa Nostra. I soliti detrattori gli rimproverarono di cantare nei suoi libri l’epopea della mafia, in un certo senso di mitizzarla. Qualcuno insinuò che della mafia Sciascia avesse una conoscenza intima, quasi “familiare”, adombrando pericolose collusioni. 10/01/2017 TP24


Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia, L’eredità scomoda. Da Falcone ad Andreotti. Sette anni a Palermo, a cura di Maurizio De Luca (Milano, Feltrinelli, 2001) l’ex-procuratore capo di Palermo e il sostituto procuratore della stessa Procura che ha lavorato a Marsala con Paolo Borsellino rievocano le vicende intorno alla nomina di Borsellino a procuratore di Marsala nel 1986 e alla polemica innescata dall’articolo di Sciascia sul “Corriere della sera” del 10 gennaio 1987, raccolto poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Si riproduce qui di séguito il testo alle pp. 15-16 del volume.

CASELLI: Mentre tu ti laureavi e vincevi il concorso, io dal 1986 al 1990 ho fatto parte del Consiglio superiore della magistratura. E sono stati anni contrassegnati da continui “casi Palermo”. In particolare io facevo parte del Comitato antimafia del Consiglio. È stato questo il periodo in cui ho approfondito la mia conoscenza con Falcone; anche di Borsellino cominciai a occuparmi fin da subito al Consiglio, perché quasi come prima questione affrontammo la discussione sulla sua domanda per fare il procuratore della Repubblica di Marsala.
Il Consiglio superiore, di cui facevo parte per essere stato eletto come candidato di Magistratura democratica, si era appena insediato o quasi quando, sulla domanda presentata da Borsellino, a sorpresa ci furono delle divisioni. C’era da stabilire se nell’assegnare incarichi di alta responsabilità in territori insidiati dalla grande criminalità, come del resto prevedevano specifiche norme fino ad allora inapplicate, era finalmente arrivato il momento di premiare la professionalità dei candidati, la loro conoscenza reale dei problemi, la serietà dell’impegno. Oppure se si doveva continuare a procedere in maniera formalmente ineccepibile, ma per certi casi specifici inadeguata rispetto alla gravità della situazione, continuando a privilegiare criteri di selezione basati prevalentemente se non esclusivamente sull’anzianità. In Consiglio ci spaccammo, anche all’interno di molti gruppi, trasversalmente. Ci spaccammo, per esempio, noi di Magistratura democratica: eravamo in tre, io votai per Borsellino, gli altri due, che erano Elena Paciotti e Pino Borrè, si astennero, basando la loro decisione su argomenti certo sostenibili ma a mio giudizio troppo formalistici. Fino a quel momento eravamo stati sempre d’accordo e lo saremmo stati quasi sempre anche in seguito. In quel caso però non mi convinsero. Seguendo il principio, sempre rispettatissimo nel mio gruppo, di liberta di voto secondo coscienza, io votai per Borsellino e mi ritrovai quella volta in maggioranza: divenne lui il nuovo procuratore capo di Marsala.
Non ricordo se in quell’occasione o in tempi successivi mi capitò di parlargli direttamente della nomina. So di aver fatto una scelta giusta. Nonostante tutte le polemiche pubbliche che ne seguirono, compreso lo schierarsi contro Borsellino di Leonardo Sciascia, sicuramente male informato. Ma credo siano vicende ormai fin troppo note a tutti. Si trattò della famosa, e per me sempre dolorosa, polemica sui professionisti dell’antimafia, tra i quali Sciascia in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” collocò, accanto al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, proprio Borsellino. L’accusa, sorprendente, era di strumentalizzare l’impegno contro la criminalità per acquisire personali vantaggi di carriera. E proprio la nomina a procuratore della Repubblica a Marsala, raggiunta da Borsellino scavalcando concorrenti con maggiore anzianità, diveniva in questo contesto la principale prova a carico, la conferma concreta delle contestazioni.

INGROIA: Ricordo anch’io molto bene quella polemica con tutti gli strascichi, anche le più scoperte strumentalizzazioni che si portò dietro. Ricordo che a Borsellino provocò dispiacere. Dispiacere e rabbia. Borsellino era sicuro, me lo disse più di una volta, che qualcuno che certamente non l’amava aveva fornito a Sciascia informazioni infondate e tendenziose. Ma Borsellino, se pur convinto che con quella polemica “era iniziata la fine” (come diceva lui) della stagione del pool di Palermo, non riusciva ad avercela con Sciascia, amava troppo i suoi romanzi sulla mafia. Per questo, più che ricordare quanto quella polemica lo aveva ferito, preferiva raccontare la sua “riappacificazione” con lo scrittore. Si incontrarono, si parlarono e si chiarirono. Borsellino si rasserenò. Leonarda Sciascia Web


LEONARDO GUZZO –  I PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA Era il gennaio del 1987 quando Sciascia uscì definitivamente dall’alveo del “politically correct”. Dopo romanzi di critica e denuncia, dopo l’abiura del comunismo (di cui era sempre stato seguace poco ortodosso) e l’ingresso nelle file del Partito Radicale, decise di compiere il passo finale.
Il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera uscì, a firma di Leonardo Sciascia, un articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia” e dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto era un libro di Christopher Duggan, ricercatore a Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che raccontava la parabola di Cesare Mori, il castigamatti della mafia durante il Ventennio fascista.
Sciascia aveva già trattato l’argomento, seppur di passaggio, nel Giorno della Civetta esprimendo una tesi lapidaria. Aveva riconosciuto gli innegabili successi di Mori, ammonendo però che essi furono raggiunti a prezzo del sacrificio della libertà personale e dell’instaurazione di un clima da Far West.
Adesso, affrontando il tema in maniera più specifica, raffinava la sua tesi e inseriva il contrasto di Mori alla mafia nel quadro più ampio delle lotte interne al partito fascista. In Sicilia e in tutto il Paese, diceva, la vita del fascismo fu caratterizzata dalla dialettica, prima aspra e poi via via più sfumata, tra un’ala conservatrice tutta ordine e disciplina, di cui Mori faceva parte, e un’ala rivoluzionaria di ascendenza socialista e anarchica. Il contrasto di Mori alla mafia, condotto con strumenti eccezionali e senza alcuno scrupolo, salutato dall’opinione pubblica con straordinario favore, servì all’ala conservatrice per conquistare definitivamente la supremazia nel partito e imprimere la sua forma sul regime. 
Da questa vicenda Sciascia traeva una morale scomoda e tutt’altro che “storica”: l’antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, può diventare un formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa. Ne seguiva un’invettiva contro quei sindaci che marciano nei cortei antimafia, parlano ai raduni e nelle scuole e magari non si occupano dei problemi concreti delle loro città, ma che nessuno si sognerebbe mai di rimuovere, per via dei meriti acquisiti “in trincea”. E ancora, tirava in ballo un lampante esempio di malfunzionamento della magistratura: la nomina a procuratore di Marsala di Paolo Borsellino, in spregio alla graduatoria degli aventi diritto e alle regole di anzianità, per “una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata di stampo mafioso”. 
Nel gennaio del 1987 la provocazione di Sciascia destò scalpore. Quasi trent’anni prima lo scrittore aveva mostrato all’Italia l’esistenza della mafia, squarciando una spessa cortina di pudori, silenzi compiaciuti, omertà; e adesso che l’onda dell’antimafia montava in tutto il Paese, sceglieva di andare controcorrente. I pochi coraggiosi del Comitato Antimafia di Palermo potevano ancora sentirsi isolati ma era indubbio che il clima italiano stava cambiando: Sciascia esibiva gli allori, riportava stralci dei suoi capolavori per testimoniare che era quello di sempre, che la sua posizione non era cambiata, e intanto puntava il dito contro incongruenze e degenerazioni della lotta alla mafia, bacchettava i novellini che accampavano meriti senza averli. C’era in questo sfogo un po’ di civetteria, l’amarezza di vedersi scavalcato da nuovi, rampanti ed equivoci anti-mafiosi; ma c’era anche un tratto profondo dello Sciascia uomo: la coerenza, il puntiglio, l’intransigenza. Nei giorni, mesi e anni successivi l’articolo di Sciascia suscitò un putiferio. In un comunicato, il Comitato antimafia di Palermo bollò lo scrittore come un “quaquaraquà”, prendendogli a prestito la definizione, e lo accusò di seminare zizzania nel fronte, già esiguo e spaurito, degli avversari di Cosa Nostra. I soliti detrattori gli rimproverarono di cantare nei suoi libri l’epopea della mafia, in un certo senso di mitizzarla. Qualcuno insinuò che della mafia Sciascia avesse una conoscenza intima, quasi “familiare”, adombrando pericolose collusioni. Nessuno si sforzò di leggere tra le righe. 
L’Italia che ama i discorsi nel merito e assai poco quelli sul metodo, fece quello che sa fare meglio. Trasformare un ragionamento di principi, correttamente ancorato a esempi pratici, in un atto di diffamazione e a sua volta schierarsi, dividersi tra sostenitori (pochi) e contestatori (un indecoroso sproposito). Discutere sull’opportunità e il dubbio tempismo dei riferimenti di Sciascia era legittimo, ma trasformare il dibattito in un referendum pro o contro Leoluca Orlando, sindaco “in prima linea” di Palermo, e Paolo Borsellino, nascente emblema dell’antimafia, fu dissennato. Significava svuotare di ogni logica le parole dello scrittore, renderle imperdonabili, disperderne l’alto valore civile e il significato profetico.
A distanza di anni, anche la vedova di Borsellino ha riconosciuto che “Sciascia aveva capito tutto in anticipo”. Il carrierismo, in magistratura come altrove, è un male serio: un egoismo insano proiettato sul successo professionale e la scalata del cursus honorum. Riportando le circostanze della nomina del nuovo procuratore di Marsala, Sciascia non si limitava a stigmatizzare il caso concreto. Offriva un esempio per rintracciare un fenomeno più ampio. E certamente non voleva attaccare Borsellino, che della vicenda era oggetto inconsapevole o, al limite, involontario complice.
Del resto i “protagonisti dell’antimafia”, quelli veri e coscienziosi, da sempre si abbeveravano al magistero dello scrittore di Racalmuto: la sua analisi storica e culturale era una base indispensabile per capire le origini e lo sviluppo di Cosa Nostra, la situazione descritta all’inizio degli anni ’60 nel Giorno della civetta era ancora in gran parte attuale. Borsellino in particolare, nelle ultime drammatiche circostanze della sua vita, amava ripetere alla maniera di un motto una frase inquietante e profetica: ”Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola”. Si tratta, riveduta e corretta, di una frase che lo stesso Sciascia usa per descrivere un personaggio minore del Giorno della civetta, il miserabile Parrinieddu, bracciante della mafia e spia della polizia per necessità. Il quale “per la paura di morire ogni giorno affrontava la morte”.
Piuttosto che un’aggressione contro personaggi in voga ma a lui sgraditi, l’articolo di Sciascia era una riflessione circostanziata sui sintomi del malcostume italiano: sull’approssimazione e la superficialità, sull’apparenza che scalza la sostanza, sull’insofferenza a ogni forma di disciplina, anche interiore.
Era pure un atto d’accusa contro la giustizia, cui Sciascia imputava un’irresistibile tendenza all’astruso e all’incomprensibile, l’uso di uno stile farraginoso eppure ermetico. Un classico… Ma in bocca al maestro degli arzigogoli e della prosa “barocca”, l’accusa suonava doppiamente grave. Poter scrivere “difficile” e farsi lo stesso capire, come Sciascia dimostrava, voleva dire che al garbuglio la giustizia italiana aveva un’autentica vocazione.
Ovviamente non era solo questione di forma. Agli occhi di Sciascia il sistema giudiziario peccava di irrazionalità, diffusa immoralità, endemica amoralità. Se la legge che rinuncia ai lumi della ragione è pericolosa, quella che si stacca dalla morale (morale “naturale” e dunque razionalista), quella meccanica e animalesca di Mori, è addirittura mostruosa. Quanto alla legge immorale, la legge che la morale infrange, essa è né più né meno mafia.
La discrezionalità, l’arbitrio, la mancanza di trasparenza, che il caso della nomina di Borsellino denotava, bruciavano a Sciascia al punto da risultargli intollerabili, tanto quanto lo stato di emergenza e i poteri eccezionali che permisero a Mori di attuare il suo “repulisti” senza regole. La sfida, la vera sfida, per lui era vincere la mafia nei limiti angusti della legge, senza indulgere a derive autoritarie o deliri di onnipotenza, senza cedere alla comodità, all’abitudine, alla “via breve” che la mafia avevano generato.
Rileggendo dopo oltre vent’anni l’articolo dello scandalo, si scopre che lo Sciascia “giornalista” si concilia perfettamente con lo Sciascia scrittore. E il suo messaggio appare chiaro, più chiaro fuori dalle nubi della polemica. Vincere la mafia richiede lo sforzo di vincere due volte. Vincerla e staccarsene nettamente, schiacciarla affermando una superiore dignità, un primato morale. Per questo, crede Sciascia, i nemici della mafia non possono venir meno all’humanitas, derogare alle regole e al governo della ragione. Per questo, fino a quando il Paese non si assoggetterà a una morale che la giustizia per prima accolga e rappresenti, la mafia non sarà battuta.  dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987


Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono « eroi della sesta»: 

1) « Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti… Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (…), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).  

2) « Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966). 
Il punto focale . Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell’antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s’intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane « ricercatore» dell’Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla « mafia in sé» quanto a quel che « si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi – si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un’isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell’attuale consapevolezza (preferibile senz’altro – anche se alluvionata di retorica – all’effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l’impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.  Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l’illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti – a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c’è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) – siano serviti ai tanti, tantissimi che l’hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, « en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant’è che allora il « lieto fine» – e se non lieto edificante – era nell’aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.  Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la « pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un « esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n’è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.  
Nel primo fascismo. idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federazioni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che – nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi « risorgimentali» – volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).  
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange « rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano – garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine – liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.  
Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi “mafiosi”): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.  
Mori, dice Duggan, « era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva « forte fede nello Stato», « rigoroso senso del dovere». Tra il ’19 e il ’22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse – quel periodo di ozio – a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l’uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.  
Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.  
Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come « mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.   
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: « et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico. 
Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel « notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell’assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: “Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il “superamento” da pane del più giovane aspirante”. 
Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come « la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel « superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria – è « magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz’altro definire come « magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna « a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza « che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo « piatisse l’assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l’altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava. 
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di « magistrato gentiluomo», c’è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

Sciascia-Borsellino. Quando si trucca la storia (e il ruolo del Corriere… )


Con Sciascia cominciò la fine di Falcone di Nando dalla Chiesa

Plato amicus sed magis amica veritas. Perciò devo replicare all’articolo scritto ieri per il “Corriere” da Felice Cavallaro in occasione del trentennale della celebre polemica di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Sciascia fu profeta, dice Cavallaro. Perché vide prima di altri i profittatori del marchio “antimafia”. E cita subito il caso della magistrata Saguto. In realtà a finire nella pubblica disistima pur esponendo quel marchio erano già stati in tanti. Altri magistrati (quelli che isolarono il procuratore Costa, per esempio) o membri vanagloriosi della commissione parlamentare antimafia. Il fatto è che nulla può essere raccontato senza il contesto. La polemica nacque nel pieno del maxi-processo e aveva un solo bersaglio nominativo: Paolo Borsellino. Cavallaro dice che non è vero, che l’accusa era diretta al Csm, “colpevole” di avere nominato Borsellino procuratore capo di Marsala contravvenendo al (pessimo) costume di usare l’anzianità di servizio invece della competenza o dell’esperienza sul campo.
No, il bersaglio, era proprio Borsellino. Era lui il profittatore dei nuovi orientamenti del Csm. L’unica (e vera) profezia che fece Sciascia in quell’articolo fu la seguente: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. La carriera di Borsellino l’abbiamo poi conosciuta tutti. Cinque anni dopo saltò per aria in brandelli. Prima però egli fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che “Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Già, perché proprio per evitare che potesse fare carriera anche lui come Borsellino, il Csm bocciò Falcone tornando (e fu esattamente l’effetto Sciascia) al principio dell’anzianità. Questa è la storia vera. Ma sentire una volta il rimorso verso Borsellino no, eh


Da UOMINI SOLI di ATTILIO BOLZONI

«I professionisti dell’Antimafia», l’attacco di Sciascia contro Borsellino

La mattina del 10 gennaio 1987 un articolo in prima pagina su Corriere della Sera parla di lui. E di come è diventato procuratore capo della repubblica di Marsala.
Il titolo è una perfetta sintesi: «I professionisti dell’Antimafia».
L’articolo è di Leonardo Sciascia, il siciliano che ha fatto conoscere con i suoi libri la mafia agli italiani.
Che cosa scrive Sciascia?
Prende spunto da una documentata analisi dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia ai tempi del Fascismo, ricorda le retate del prefetto Mori, poi sostiene che l’antimafia può trasformarsi in «uno strumento di potere». E fa due esempi. Il primo è quello del popolarissimo sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. È un democristiano che, proprio sul tema dell’antimafia, ha diviso e fatto rivivere Palermo. Leonardo Sciascia non cita il suo nome. Cita però quello di Paolo Borsellino.
È lui il secondo «campione» di quell’antimafia che può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile».
La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». Borsellino, grazie alla sua attività nel pool di Caponnetto e di Falcone, ha superato in graduatoria colleghi – come Alcamo e Prinzivalli – che potevano contare su una più lunga carriera in magistratura.
L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia. Intellettuali. Professori. Uomini politici al di sopra e al di sotto di ogni sospetto. E tutti i personaggi di quella Sicilia livorosa che detesta il pool. C’è chi non sta più nella pelle per la felicità: uno dei più grandi scrittori italiani del secolo è al loro fianco.
Non se ne può più di indagini nel mucchio. Finiamola con i talebani della giustizia. È la dittatura dell’antimafia.
Contro Leonardo Sciascia scrivono Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Nando dalla Chiesa e pochi altri.
La polemica monta giorno dopo giorno.
Si scopre anche che un paio di vecchi giudici del Tribunale di Palermo hanno incontrato Sciascia per consegnargli la copia della sentenza sulla strage di piazza Scaffa, il verdetto del presidente Giuseppe Prinzivalli che ha annullato e mortificato l’istruttoria di Paolo Borsellino.
Il procuratore di Marsala è nella tempesta. Per alcuni giorni tace. Tutti lo cercano, Borsellino si fa negare. Anche perché lui, come moltissimi siciliani, ha sempre amato i libri di Sciascia. Le parole dello scrittore offrono a tutti i nemici dell’antimafia l’occasione di scatenarsi una volta ancora contro i giudici. Il maxi processo è in corso. La sentenza è attesa per la fine dell’anno.


Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre


Il giallo del fisico Ettore Majorana sul tavolo del procuratore Borsellino

Paolo Borsellino è sempre a Marsala. È passato ormai quasi un anno dalla polemica sui «professionisti dell’Antimafia».
E un giorno, sulla sua scrivania, trova una lettera di Leonardo Sciascia:

«Caro Dottor Borsellino, Le scrivo confidenzialmente, amichevolmente, a proposito dell’inchiesta che, dai giornali, apprendo Lei sta conducendo sul cosiddetto “Uomo cane” di Mazara del Vallo…».
C’è qualcuno che crede di sapere dove, per mezzo secolo e avvolto nel mistero, ha vissuto Ettore Majorana, il fisico siciliano misteriosamente scomparso nel 1938.
Alla sua sparizione, Leonardo Sciascia ha dedicato un bellissimo libro nel 1975. Nessuno ha mai più avuto notizie di lui. Qualcuno dice che è riparato in Sudamerica. Qualcun altro in un convento in Calabria. Molti sono sicuri che sia in fondo al mare.
Suicida, annegato, durante il suo ultimo viaggio sul postale Palermo-Napoli.
Leonardo Sciascia è incuriosito da una storia che i quotidiani locali stanno seguendo da qualche giorno.
Ci sono due fratelli di Mazara del Vallo, Edoardo e Antonio Romeo, che si rivolgono al procuratore Borsellino sostenendo che conoscono la vera identità di un barbone morto molti anni prima nella loro città. «Era Ettore Majorana», gli dicono. E aggiungono: «Lui ci ha raccontato che era stato un insegnante di fisica, aveva sulla mano destra una cicatrice identica a quella di Majorana. Ci ha fatto giurare che potevamo svelare il suo segreto a quindici anni dalla sua morte».
Il nome del barbone era Tommaso Lipari ma per tutti era l’“Uomo cane”. Si sosteneva con un bastone con incise due iniziale: E.M. Proprio come Ettore Majorana.
Paolo Borsellino affida l’indagine al maresciallo Carmelo Canale e aspetta i risultati delle sue verifiche.
Intanto Leonardo Sciascia gli manda quella lettera.
L’incontro con lo scrittore è a Marsala. Di mattina si vedono allo Stagnone di Mozia davanti alle isole Egadi, a pranzo sono seduti in una trattoria sul mare. C’è anche Agnese, la moglie di Paolo Borsellino.
È un momento di distensione dopo quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia». Con loro c’è pure il giudice Giuseppe
Alcamo, uno dei tre «concorrenti» nel 1986 a procuratore capo di Marsala.
Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia parlano delle comuni origini agrigentine, dei figli, del loro lavoro.
Dopo qualche settimana si scopre che Tommaso Lipari è in effetti Tommaso Lipari e non il fisico Ettore Majorana. Il barbone, tantissimi anni prima, era finito nel carcere di Favignana dopo aver insultato un vigile urbano. Ci sono ancora le sue impronte digitali. Il mistero è chiarito per sempre


Lo studio di Paolo Borsellino e quella corrispondenza con Leonardo Sciascia

Questa lettera, datata 26 ottobre 1988, me la dà Manfredi Borsellino, il figlio.
È il 2002 e gli dico che mi piacerebbe pubblicare tutta la corrispondenza fra suo padre e Leonardo Sciascia, a proposito dell’“Uomo cane” di Mazara del Vallo. Mi fa vedere anche questo messaggio dello scrittore.
Manfredi è un funzionario della Polizia di Stato, lo conosco da qualche anno. Non lo incontro da un po’. Ho un momento di smarrimento. La somiglianza con Paolo Borsellino è impressionante. Manfredi è un ragazzo garbato e riservato.
Un paio di giorni dopo mi invita a casa sua, in via Cilea. Ero stato diverse volte a trovare Paolo Borsellino lì. Solo di sera e solo nel suo studio. Non avevo mai visto le altre stanze della casa.
Con Manfredi rientro nello studio di Paolo Borsellino. Mi fa vedere la lettera di Sciascia, con la quale chiede di entrare in possesso del vecchio processo di Joseph Bonanno. Parliamo di suo padre. Gli racconto: «Io sono venuto diverse volte in questa casa ma tuo padre non mi ha mai fatto varcare quella porta oltre lo studio, teneva moltissimo alla famiglia e cercava di tenere rigorosamente separato il suo lavoro da voi. Conosco solo questa stanza e ho sempre ho avuto la sensazione che fosse staccata dal resto della casa».
Manfredi sfila da uno scaffale uno dei tanti faldoni custoditi da suo padre. Paolo Borsellino segnava e conservava tutto.
Incontri, interviste,appunti, fotografie, ritagli di giornale.
Poi sorride e mi dice: «In effetti non hai avuto una sensazione sbagliata: questa stanza era della casa accanto, i miei genitori l’hanno comprata successivamente dal vicino per allargare il nostro appartamento».
A Palermo sono gli ultimi giorni di Antonino Caponnetto. Il consigliere istruttore sta tornando a Firenze e il giudice Falcone è sicuro di prendere il suo posto. Non sarà così. Quando all’ufficio istruzione arriva il nuovo capo Antonino Meli, in pochi mesi viene disintegrato il pool antimafia.
Paolo Borsellino non ha dimenticato gli amici di Palermo. È uno di loro. Giovanni Falcone non può parlare, è un giudice di quell’ufficio e deve rispettare regole e gerarchie. Paolo Borsellino, invece, sta fuori e può dire ciò che pensa. È sempre a Marsala. Aspetta soltanto l’occasione per denunciare quello che ha dentro.