CLAUDIO FAVA dalla parte di FIAMMETTA BORSELLINO

 

03.03.2021  “LA SINISTRA HA CREDUTO TROPPO AI PM”, IL MEA CULPA DI CLAUDIO FAVA  Dal 1992 «abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati»: a parlare è l’onorevole Claudio Fava, Presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, che suFiammetta Borsellino aggiunge: «Vogliamo lasciare il diritto ad una donna di pretendere la verità dopo che ha visto il padre fatto a pezzi e una parte dello Stato depistare la ricerca sulle ragioni di quell’attentato?».  Lo intervistiamo dopo che la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata qualche giorno fa dalla Commissione da lui presieduta ha raccolto molti pareri positivi, fatta eccezione per due velenose reazioni, come quelle del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, a cui è seguito un intervento altrettanto critico del giurista Costantino Visconti, a cui replica: «L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto». Onorevole, come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»?  Credo che un lavoro importante debba farlo anche l’informazione che a volte contribuisce a costruire le facili mitologie. Conosco trenta o quaranta giornalisti, sconosciuti ai più, che davvero rischiano la pelle giorno per giorno. Di loro nessuno scrive. Si sente parlare solo di un paio di furbi cronisti, quelli che pensano alla carriera dell’antimafioso minacciato come alla più nobile delle autocelebrazioni. Dietro a volte c’è solo un circo mediatico che ama i titoli ad effetto, che coltiva un’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile. Fare buon giornalismo, dedicarsi a un’informazione che provi a comprendere i motivi profondi e innominabili degli scandali di corte e delle collusioni di potere non significa sbattere su Facebook il nome di qualche malandrino di periferia facendo il copia e incolla dei mattinali di polizia. Lei in una intervista su LiveSicilia ha detto: «La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi». Può spiegare meglio questo concetto?  Nel 1992 tutti ci siamo sentiti in colpa per quello che era accaduto a Palermo. Da quel momento abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati. Forse c’è stato anche il bisogno di trovare almeno un’istituzione alla quale poterci affidare acriticamente, senza condizioni, dopo l’inabissamento dei partiti e della politica. Credo che ci siano stati e ci siano magistrati straordinari che rappresentano una risorsa per la tenuta democratica del Paese: in mezzo però ci sono state anche altre storie. C’è chi ha costruito carriere alzando i decibel della propria voce, chi ha ritenuto di indagare anzitutto in direzioni che portavano verso il clamore dei titoli dei giornali, chi ha pensato di celebrare se stesso come se fosse un protomartire cristiano. Alla fine si sono offuscate risorse importanti per la giustizia: l’umiltà, la sobrietà, l’autonomia rispetto alle convenienze di carriera e ai conciliaboli del potere. Le vorrei fare un esempio. Prego  Un magistrato come Armando Spataro, l’unico che abbia avuto la capacità di istruire un processo a Milano – il caso Abu Omar – pretendendo che le leggi della Repubblica valessero anche per i servizi segreti americani e italiani. Su quel processo è stato messo il segreto di Stato – totalmente pretestuoso – da tutti i governi, di destra o sinistra. Penso che la sua rettitudine nell’applicazione delle regole del codice e al tempo stesso il rispetto per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura siano un esempio straordinario. Poi ci sono altri magistrati, talmente saturi di vanità da assumere il crisma della loro infallibilità come un precetto di fede, per cui ogni richiesta di spiegazione o di comprensione diventa un atto di blasfemia.

A proposito di questo, Lei ha stigmatizzando coloro che criticano Fiammetta Borsellino solo perché solleva dei dubbi sulle indagini per la morte di suo padre. Proprio al Riformista la donna ha detto: «Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato». Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva – e lo spiegavano anche gli altri collaboratori di giustizia messi a confronti con Scarantino – che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire “io non mi fido”? Avrà il diritto di poter giudicare caso per caso, dopo quello che la magistratura a Caltanissetta ha prodotto sull’indagine Borsellino?

Fiammetta critica anche Nino Di Matteo: «Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. Quella Procura ha ritenuto di non dover mai interrogare il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, pur sapendo lo scontro, all’interno di quella procura, fra il suo capo e Paolo Borsellino. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio.

Onorevole, a proposito della relazione sui beni confiscati, il professore Visconti è arrivato a scrivereche in essa «viene preferito lo stile della sceneggiatura a quello del cauto approfondimento documentale». Come replica? La relazione ha ricevuto apprezzamenti da tutti gli ambienti istituzionali. L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto e ben felice, come raccontano le intercettazioni telefoniche, di mettersi a sua disposizione. Credo che questo spieghi le ragioni del suo malanimo. Nella relazione finale si legge che «le testimonianze raccolte, i dati analizzati, gli approfondimenti svolti da questa Commissione non lasciano dubbi: la disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino a ora non c’è stato. Insomma, un sistema da ripensare». Cosa non ha funzionato fino ad oggi? L’Agenzia del beni confiscati è stata considerata e gestita come un ente di sottogoverno, senza rendersi conto invece che occorrono, come mai prima d’ora, risorse umane, competenze, denari. Continua ad essere gestita da un prefetto, la pianta organica è in debito, molti funzionari sono “comandati” da altre sedi, e spesso hanno scarsa competenza tecnica. Alfano collocò l’Agenzia a Reggio Calabria solo perché all’epoca il suo partito aveva in quella regione la sua più forte base elettorale, e mandò nel comitato direttivo Antonello Montante per poi fare rapidamente marcia indietro quando si seppe che era indagato per mafia. Sottogoverno, appunto. Ma i vulnus sono numerosi, e non riguardano solo l’Agenzia. Diciamo che su questo tema c’è un clima, non solo istituzionale, distratto e confuso. Le porto un esempio che è anche un paradosso: fino a quando un’azienda appartiene a un mafioso spesso ha ampio credito nel circuito bancario; appena lo Stato la toglie alla mafia il rating bancario diventa negativo: non ci si fida più. A chi fa paura la Commissione e il metter mano alla disciplina sui beni confiscati? Non parlerei di paura. Credo più semplicemente che in taluni ambienti ci si sia disabituati all’idea di una commissione di inchiesta che fa domande, che cerca di ricostruire l’origine dei contesti corruttivi, che non si limita ad invitare i propri auditi a prendere il caffè e a discettare sulla storia della mafia o sull’etimologia della parola. In tre anni abbiamo prodotto sette relazioni, dal business dei rifiuti in Sicilia al depistaggio Borsellino, dall’improvvido scioglimento di alcuni comuni per mafia al sistema Montante. Centinaia di audizioni, migliaia di documenti acquisiti, relazioni apprezzate anche per aver messo insieme nomi, fatti e comportamenti. Qualcuno forse preferirebbe che il nostro lavoro si limitasse alla buona pedagogia antimafiosa, la cosiddetta educazione alla legalità, e all’organizzazione qualche convegno con le suffragette dell’antimafia. Angela Stella — 3 Marzo 2021 IL RIFORMISTA


La difende Fava: “Cerca solo la verità”. “Suo padre è stato fatto a pezzi anche da chi ha depistato. Ha tutto il diritto di non fidarsi”  In soccorso di Fiammetta Borsellino, vittima di linciaggio mediatico dopo le sue parole sul Csm e su Nino Di Matteo, oltre che sui professionisti dell’Antimafia, è intervenuto Claudio Fava, sempre dalle colonne del Riformista: “Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire ‘io non mi fido’?”. A proposito del capitolo Di Matteo: “Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti – spiega il presidente della commissione regionale Antimafia -. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio”. BUTTANISSIMA 4.3.2021