IL MAXIPROCESSO L’8 novembre del 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 475 imputati. Il 10 febbraio 1986 inizia il primo maxiprocesso a Cosa nostra, il traguardo più importante di Giovanni Falcone: ventidue mesi di udienze in un’aula bunker appositamente costruita in cemento armato, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici e di dimensioni tali da poter contenere il gran numero di imputati e permettere ai giudici di lavorare in sicurezza. Alla sbarra il gotha di Cosa nostra. Gli imputati sono accusati di 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e associazione mafiosa. Le prove più significative – pazientemente riscontrate –vengono dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi”, catturato in Brasile due anni prima. Il 16 dicembre del 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza. Tutti, il giudice a latere Piero Grasso, il pubblico ministero Giuseppe Ayala, i giurati popolari, centinaia di avvocati, restano in piedi per ore ad ascoltare il lungo elenco di condanne. Ai 339 imputati vengono inflitti 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Palermo, l’Italia scoprono che la mafia non è impunibile. L’“astronave verde”, come viene definita dai giornalisti di tutto il mondo l’aula bunker per il colore dei muri delle celle, diventa il simbolo del riscatto dello Stato e della Sicilia. E’ passata la tesi dell’unicità di Cosa nostra nata all’epoca dell’inchiesta Spatola, confermata durante il maxiprocesso da Tommaso Buscetta. Ed è proprio l’ex boss, nato a poche centinaia di metri dalla piazza della Magione in cui era cresciuto Giovanni Falcone, a condurlo per mano nel labirinto di Cosa nostra. “Prima di lui non avevo, non avevamo, che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. – dirà nel libro ‘Cose di Cosa nostra’ – Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti”. Qualche mese dopo, nel maggio del 1986, il giudice si sposa con Francesca Morvillo. Ma la reazione al grande successo conseguito col maxiprocesso non si fa attendere. Caponnetto va in pensione ed è costretto a lasciare il pool. Tutti si aspettano che sia Falcone a prendere il suo posto, anche Caponnetto, che lo considera il suo erede naturale per esperienza e capacità di indagine. Non la pensa così il Consiglio Superiore della Magistratura che nomina alla guida dell’ufficio istruzione Antonino Meli, un magistrato di vecchia scuola che non condivide il metodo Falcone e di fatto smantella il pool. Meli nega il principio cardine del maxiprocesso, cioè la struttura unitaria di Cosa nostra, e asseconda invece la vecchia tesi della mafia come insieme di bande criminali. Frantuma i processi e li distribuisce in vari uffici, col risultato disastroso di far perdere il nesso tra vicende che, senza un filo conduttore, diventano poco comprensibili. Comincia per Giovanni Falcone un periodo molto difficile.
L’ATTENTATO ALL’ADDAURA E LA CONGIURA DEL “CORVO” Il 1989 è l’anno dei veleni al palazzo di giustizia di Palermo. Falcone viene accusato in un anonimo di aver fatto ritornare in Italia il pentito Salvatore Contorno, esponente della mafia perdente, sterminata dai corleonesi di Totò Riina, e di averlo coperto nel progetto di eliminazione dei capimafia nemici usciti vincitori dalla guerra tra clan. Falsità espresse in lettere anonime, passate alla storia come le lettere del “corvo”, ed inviate a vari rappresentanti delle istituzioni. Il 20 giugno del 1989 Falcone sfugge a un agguato tesogli nella villa all’Addaura in cui trascorreva l’estate: un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite posto sulla scogliera dove era solito fare il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta. La bomba viene disinnescata e l’attentato fallisce. È lo stesso Falcone a spiegare il senso di un attentato i cui reali contorni non sono mai stati chiariti. Il giudice parla di una manovra ideata in maniera perfetta da “menti raffinatissime”, adatta a dar credito alle accuse delle lettere diffamatorie del “corvo”. “Il contenuto delle accuse doveva essere il movente che aveva spinto la mafia a uccidermi. Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, l’omicidio sarebbe stato giudicato quasi naturale”. Dopo l’attentato dell’Addaura, per diretto interessamento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Falcone viene nominato dal Consiglio superiore della Magistratura procuratore aggiunto di Palermo. Ma il “corvo” continua ad avvelenare il clima del Palazzo di Giustizia. Pur avversato e ostacolato, Falcone va avanti. Già nel 1988 aveva collaborato con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, nell’operazione “Iron Tower”, inchiesta che aveva disarticolato due famiglie mafiose coinvolte nel traffico di eroina, quelle dei Gambino e degli Inzerillo. Nel gennaio ’90 coordina un’indagine che porterà all’arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani. Il clima ostile del Palazzo cresce e Falcone si rende presto conto di trovarsi isolato. Teso il rapporto con il procuratore Piero Giammanco che ne ostacola sistematicamente il lavoro costringendolo a limiti angusti nella manovra delle indagini. Falcone avverte che a Palermo, non riesce più a lavorare come vorrebbe e che i quotidiani dissensi lo logorano. Decide così di accogliere l’invito del ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli a ricoprire il ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero dove prende servizio nel novembre del 1991.
LA STRAGE DI CAPACI Il 23 maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto blindate li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura Dopo aver imboccato l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
LA RINASCITA La morte di Giovanni Falcone rappresenta paradossalmente l’inizio della fine per Cosa nostra. Scossa dal tritolo di Capaci, Palermo si risveglia, scende in piazza e grida forte il suo no alla mafia. Il 19 luglio del 1992, a 57 giorni dall’attentato, la mafia torna ad alzare il tiro e uccide Paolo Borsellino, collega e amico di una vita di Falcone, e la sua scorta. Lo Stato decide di fare sul serio nella lotta alle cosche. Tutti i più grandi latitanti, tranne il boss Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine non si è mai fermata. Nella società è certamente cresciuta e si è consolidata una coscienza antimafiosa. Un risorgimento civile che, però, deve essere tenuto vivo. Nella guerra allo Stato la mafia è pronta ad approfittare di ogni indecisione. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società. Spetta a tutti noi mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e portare avanti la lezione di legalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato. Fondazione Giovanni Falcone
I pentiti raccontano: «Falcone ucciso per il Maxiprocesso» Cosa Nostra si era attivata per tentare di aggiustare il processo durante i vari gradi di giudizio e soprattutto in Cassazione. La strage di Capaci – secondo il pentito Leonardo Messina – era un segnale per i detenuti, «essendo andate deluse le aspettative che essi nutrivano sulla persona del dottor Carnevale, che a loro risultava essere “raggiungibile” dal Senatore Andreotti»
Le considerazioni sopra esposte in ordine all’attività svolta da Giovanni FALCONE prima nell’ambito delle funzioni giudiziarie e poi come Direttore Generale degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia evidenziano in modo certo quale è stato l’oggetto principale e costante della sua attività professionale. Anche quando ebbe ad interessarsi da Magistrato ad indagini riguardanti altre attività illecite o allorché, essendosi ampliato per la nuova carica ricoperta il suo raggio di azione, si occupò sotto il profilo amministrativo delle questioni collegate alle inchieste che altri Uffici Giudiziari di diverse parti di Italia stavano conducendo – si pensi, per fare un esempio, alle indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Milano sul fenomeno criminale che i mass media hanno reso noto come Tangentopoli – il baricentro dei suoi interessi, cui tendeva per la specificità delle conoscenze acquisite e per la lucida consapevolezza degli urgenti e gravi problemi che poneva, era sempre costituito dal fenomeno mafioso e, d’altra parte, il ministro MARTELLI, come si è già ricordato, lo aveva chiamato a quell’incarico proprio per avviare a soluzione quella che riteneva la principale emergenza nazionale. Ma se il contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso fu l’obiettivo al quale Giovanni FALCONE consacrò l’intera sua attività professionale sino all’estremo sacrificio, nel campo opposto l’eliminazione di un avversario così tecnicamente agguerrito e tenace costituì un obiettivo costantemente perseguito da COSA NOSTRA sino al conseguimento dello scopo. Si è già parlato nel primo paragrafo di questo capitolo delle indicazioni fornite da vari collaboratori di giustizia in ordine ai precedenti attentati progettati da COSA NOSTRA contro Giovanni FALCONE, nel presente paragrafo si intende, invece, fare riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboranti sui moventi della strage per cui è processo, limitando la nostra attenzione a quelli che, essendo affiliati alla predetta organizzazione, avevano una conoscenza diretta, o comunque appresa all’interno del gruppo di militanza, dei fatti riferiti. In proposito lo ANZELMO, dopo aver rappresentato che la morte del dottore FALCONE era stata decretata da vari anni per l’attività investigativa svolta nei confronti di COSA NOSTRA, riferendo anche di alcuni precedenti progetti, ha aggiunto che uno dei principali obiettivi di questo sodalizio criminale era stato quello di condizionare l’esito del maxiprocesso ed in particolare di ottenere una pronuncia giurisdizionale che dichiarasse l’infondatezza del c.d. teorema BUSCETTA, e cioè del principio per cui le decisioni in ordine alle questioni strategiche per l’organizzazione, ivi compresi gli omicidi degli uomini delle istituzioni, che potevano determinare la reazione dello Stato contro l’intera compagine criminale, dovevano essere adottate dagli organi posti al vertice di questa struttura unitaria, e cioè in primo luogo dai componenti della commissione provinciale di Palermo. Attraverso una siffatta pronuncia l’organizzazione intendeva conseguire due essenziali vantaggi, l’assoluzione degli imputati che detenevano il potere nell’ambito di COSA NOSTRA e la definitiva delegittimazione del dottor FALCONE, la cui attività professionale sarebbe stata irrimediabilmente screditata.
GLI OMICIDI DI SALVO LIMA E IGNAZIO SALVO Per conseguire tali scopi l’organizzazione si era attivata durante i vari gradi del giudizio ed in Cassazione aveva riposto le maggiori speranze di un esito favorevole per l’intervento di SALVO Ignazio e dell’onorevole LIMA, speranze che erano poi andate deluse a seguito della sentenza n. 80 del 30 gennaio 1992. E proprio a causa di tale esito, secondo lo ANZELMO, erano stati assassinati il LIMA ed il SALVO, rispettivamente nel marzo e nel settembre del 1992, per non aver saputo assolvere all’impegno preso. Il BUSCETTA, data l’epoca non recente della rottura dei suoi rapporti con COSA NOSTRA, è stato in grado di riferire sul punto solo che questa organizzazione considerava il dottor FALCONE il pericolo numero uno per l’attività giudiziaria svolta.
- BRUSCA Giovanni, dopo aver dichiarato di non essere a conoscenza di un concorso di ambienti esterni a COSA NOSTRA nella deliberazione della strage di Capaci, ha evidenziato che essa costituiva l’attuazione di una volontà di eliminare il Magistrato per l’attività giudiziaria svolta che risaliva ad un’epoca immediatamente successiva all’uccisione del dottor CHINNICI e che da allora non era mai più stata abbandonata. Aggiungeva che su tale volontà non aveva esercitato alcun peso di rilievo la preoccupazione che il dottor FALCONE potesse ricoprire l’incarico di Procuratore Nazionale e che piuttosto essi erano ben consapevoli del fatto che il Magistrato, pur ricoprendo un incarico ministeriale, non aveva mai smesso di interessarsi a COSA NOSTRA e seguiva a Roma le sorti del maxiprocesso. Ha, altresì, dichiarato il BRUSCA che dopo la sentenza della Corte di Cassazione summenzionata, ritenuta da COSA NOSTRA particolarmente sfavorevole, essa aveva deciso “di chiudere tutti i conti con gli appartenenti dello Stato, o per lo meno quelli che contrastavano COSA NOSTRA” e che in prima fila tra questi obiettivi vi era il dottor FALCONE. Aggiungeva ancora che l’uccisione del Magistrato in quel maggio del 1992 era particolarmente auspicata dal RIINA, che voleva così assestare anche un colpo decisivo alle speranze che allora il Sen. ANDREOTTI coltivava di essere eletto Presidente della Repubblica. Ha spiegato, infatti, il BRUSCA che COSA NOSTRA riteneva che il Sen. ANDREOTTI li avesse traditi, consentendo che il maxiprocesso venisse sottratto al dottor CARNEVALE e che una delle punizioni sarebbe stata quella di ostacolarne la corsa alle elezioni presidenziali allora in corso commettendo un omicidio che per la sua rilevanza avrebbe nuociuto alle aspirazioni di quel candidato, essendo egli discusso per la sua vicinanza ad ambienti mafiosi. Nella stessa ottica di punizione per l’impegno tradito ed il cattivo esito del maxiprocesso si poneva, secondo le dichiarazioni del BRUSCA, l’omicidio dell’On. LIMA, consumato proprio nel periodo in cui erano prossime le elezioni nazionali per cancellarne la corrente politica, vicina in Sicilia al Sen. ANDREOTTI, nonché l’omicidio di Ignazio SALVO, ritenuto al pari di LIMA colpevole di non essersi adeguatamente impegnato per un esito favorevole del maxiprocesso.
- Il CANCEMI, oltre a confermare che il dottor FALCONE era considerato dai vertici di COSA NOSTRA il principale nemico, ha dichiarato che l’organizzazione sapeva che il Magistrato era intervenuto per impedire che il maxiprocesso in Cassazione venisse presieduto dal dottor CARNEVALE e che quando il RIINA era stato messo al corrente di ciò aveva mandato a Roma MESSINA DENARO Francesco, capomandamento di Mazara, per parlare con un avvocato e chiedergli di interessarsi affinché il processo venisse assegnato alle Sezioni Unite, per consentire al dottor CARNEVALE di far parte almeno del Collegio giudicante. Ha confermato il CANCEMI che la maggiore preoccupazione del RIINA era di evitare che la Cassazione confermasse la responsabilità della commissione provinciale di Palermo per gli “omicidi eccellenti” e che sia gli omicidi LIMA e SALVO sia la strage di Capaci erano stati determinati dall’esito sfavorevole del maxiprocesso in Cassazione, essendo stati uccisi i primi due per non aver saputo portare a termine il compito loro affidato e il dottor FALCONE perché aveva impedito l’assegnazione del processo al Collegio presieduto dal dottor CARNEVALE, da COSA NOSTRA ritenuto sicura garanzia di un esito favorevole.
- Il DE FILIPPO, dopo aver dichiarato che COSA NOSTRA era convinta che il dottor FALCONE avesse seguito il maxiprocesso in tutti i gradi del giudizio, onde evitare che esso potesse avere un esito propizio per l’organizzazione mafiosa, e che ciò acuiva i motivi di rancore nei confronti del Magistrato, ha aggiunto che il suocero SPADARO Tommaso, esponente di spicco della “famiglia” di COSA NOSTRA di Porta Nuova, in ordine all’uccisione del dottor FALCONE aveva commentato dal carcere, ove si trovava da tempo detenuto «finailmenti nni putiemu fari anticchiedda i galera assistimata. Cioè lui mi voleva dire che adesso che avevano ucciso il dottor FALCONE anche se loro stavano in carcere per tutta la vita, erano soddisfatti».
L’ESITO DEL “MAXIPROCESSO” Il DI MATTEO ha confermato che il dottor FALCONE era stato ucciso per i duri colpi assestati a COSA NOSTRA con la sua attività giudiziaria e che esisteva anche un legame con gli omicidi LIMA e SALVO, poiché essi erano stati uccisi per non “avere avuto la forza” di aiutare l’organizzazione in relazione al maxiprocesso.
- Il FERRANTE, oltre a rendere dichiarazioni conformi a quelle summenzionate in ordine ai tentativi di COSA NOSTRA di condizionare l’esito del maxiprocesso in senso alla stessa favorevole ed al desiderio di vendetta che si nutriva nei confronti del dottor FALCONE per la predetta sentenza della Corte di Cassazione, ha aggiunto che con l’uccisione del Magistrato si intendeva anche dare ai detenuti affiliati un segnale di forza ed al tempo stesso mostrare che l’organizzazione non si era disinteressata di loro.
- Il GALLIANO ha confermato sia che il dottor FALCONE era ritenuto da COSA NOSTRA il nemico numero uno, sia che, essendo risultati vani i tentativi dell’organizzazione di “aggiustare” il maxiprocesso, si era deciso da una parte “di decapitare tutte le persone che non avevano potuto mantenere gli impegni presi” in quel senso, e ciò con riferimento agli omicidi LIMA e SALVO, e dall’altra di uccidere le persone che “avevano messo in ginocchio la mafia” e dare così un segnale di potenza, e ciò con riferimento tra l’altro alla strage di Capaci. Dichiarazioni convergenti in tal senso ha reso anche il LA BARBERA, che ha evidenziato un collegamento con l’esito sfavorevole del maxiprocesso sia per gli omicidi di coloro che, come LIMA e SALVO, “avevano girato le spalle a COSA NOSTRA” sia per gli omicidi di coloro che, come il dottor FALCONE, avevano “colpito sul serio” questa organizzazione.
- Il MARCHESE, in grado di riferire in ordine alle aspettative che nutrivano gli affiliati a COSA NOSTRA detenuti circa l’esito del maxiprocesso, ha dichiarato che il dottor FALCONE era da loro ritenuto un avversario irriducibile e si temeva che potesse essere nominato Procuratore Nazionale Antimafia e che, inoltre, si sperava di ottenere dalla sentenza del predetto maxiprocesso soprattutto una smentita del “teorema BUSCETTA” ma si vociferava tra loro che il summenzionato Magistrato si stesse “interessando” al processo. Dopo la sentenza della Cassazione del 30.1.1992 ha aggiunto il collaborante di aver ricevuto , mentre si trovava nel carcere di Voghera insieme al fratello, un bigliettino passato durante un colloquio, a firma del RIINA, nel quale questi esprimeva rammarico per l’esito del processo, diceva che vi erano state delle “pressioni” contrarie ed affermava “che si stava provvedendo” e che essi erano sempre nel suo cuore. Dal tenore della comunicazione essi avevano compreso che da parte di COSA NOSTRA si stava preparando “qualcosa di grosso”, opinione questa che venne confermata anche dalla spontanea costituzione di alcuni affiliati, che sembrava finalizzata a precostituirsi un alibi per ciò che doveva accadere.
- Il MESSINA ha dichiarato che la strage di Capaci costituiva la risposta di COSA NOSTRA all’esito sfavorevole del maxiprocesso ed aveva al tempo stesso la finalità di dare un segnale ai detenuti, essendo andate deluse le aspettative che essi nutrivano sulla persona del dottor CARNEVALE, che a loro risultava essere “raggiungibile” dal Sen. ANDREOTTI. Aggiungeva il collaborante che la notizia della strage era stata accolta tra i detenuti con un boato di esultanza a cui avevano fatto seguito dei brindisi.
- Il MUTOLO, infine, ha confermato che le aspettative di COSA NOSTRA erano riposte in una sentenza della Cassazione che smentisse l’impalcatura accusatoria del dottor FALCONE e che lo distruggesse sotto il profilo professionale e che, pertanto, la delusione era stata piuttosto cocente e la colpa era stata ancora una volta addebitata al predetto Magistrato. Allo stesso si rimproverava, inoltre, che i provvedimenti a firma del ministro Martelli e del ministro SCOTTI fossero “tutta scuola che dava il dottor FALCONE”.A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Giovanni Falcone aveva messo fine all’impunità di Cosa Nostra Il magistrato aveva compreso che sul territorio palermitano non operavano autonome organizzazioni criminali, di volta in volta tra loro contrapposte o alleate, ma che esisteva un organismo unitario e strutturato in modo verticistico: Cosa Nostra
Le emergenze processuali evidenziano in modo incontestabile che tutti i progetti di attentato ai danni di Giovanni FALCONE di cui si è detto sopra trovavano la loro causa nell’attività giudiziaria svolta da quest’ultimo, attività che era stata incessantemente volta a contrastare il dilagare del fenomeno mafioso, le cui propaggini si erano estese a vari settori del tessuto politico, economico e sociale non solo a livello regionale, settori sui quali esercitava un perverso effetto inquinante.
Man mano che il magistrato approfondiva le proprie indagini su tale fenomeno, che in Palermo storicamente coincideva con l’attività dell’associazione criminale denominata COSA NOSTRA, acquistava sempre più precisa consapevolezza del fatto che le innumerevoli e multiformi manifestazioni illecite di matrice mafiosa che costituivano oggetto dei vari procedimenti da lui istruiti non rappresentavano altro che le diverse sfaccettature di un’unica realtà, quella appunto riconducibile a COSA NOSTRA. Giovanni FALCONE aveva compreso che non operava sul territorio palermitano una molteplicità di autonome organizzazioni criminali più o meno ampie di tipo mafioso, di volta in volta tra loro contrapposte o alleate, ma che, invece, almeno nel momento storico a partire dal quale il Magistrato aveva svolto la propria analisi operativa, esisteva un organismo unitario e strutturato in modo verticistico, alla cui base vi erano le diverse articolazioni territoriali, le “famiglie”, che controllavano una porzione di territorio comprendente uno o più quartieri in ambito metropolitano ovvero un paese o una frazione in ambito extraurbano e che poi si raccordavano in organismi più ampi e centralizzati, i mandamenti, costituiti da almeno tre “famiglie” operanti su territori limitrofi, che a loro volta erano rappresentati nella commissione provinciale di Palermo, composta di norma da un esponente (che a partire da un certo momento storico si identificava con il capo) per ogni mandamento.
Stante il carattere unitario e fortemente centralizzato di tale realtà criminale, Giovanni FALCONE avvertì che la dispersione delle energie investigative negli infiniti rivoli dei diversi procedimenti scaturenti da ogni singola attività illecita posta in essere da COSA NOSTRA avrebbe comportato il conseguimento di risultati assolutamente inadeguati rispetto sia agli sforzi profusi che all’entità del fenomeno da contrastare ed avrebbe, inoltre, impedito di cogliere gli aspetti più inquietanti di tale fenomeno, quelli cioè che non si manifestano all’esterno con il clamore dell’episodio omicidiario o comunque violento ma che costituiscono, invece, il prodotto di una silente e sotterranea attività di acquisizione di spazi di potere e di risorse economiche sempre più ampi. Attività questa che non si esprime necessariamente nelle forme di una fattispecie delittuosa e che anche quando ciò avviene non è facilmente percepibile dall’esterno senza indagini mirate che non possono prendere le mosse da una specifica “notitia criminis”, spesso mancante, bensì dall’analisi accurata delle linee di tendenza del fenomeno complessivo.
LA NASCITA DEL POOL ANTIMAFIA Da questa comprensione delle caratteristiche del fenomeno mafioso e delle esigenze investigative atte a contrastarlo nasce l’elaborazione del “metodo FALCONE”, cioè delle tecniche di indagine più appropriate per l’acquisizione di elementi probatori che potessero dimostrare in modo inoppugnabile le responsabilità degli affiliati di COSA NOSTRA, ponendo fine al mito della sua invincibilità. Venne così costituito presso l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo un “pool” di magistrati, incaricato di seguire tutte le indagini sulla criminalità di stampo mafioso. Ciò rispondeva non solo all’esigenza di una suddivisione del rischio, atta a tutelare maggiormente l’incolumità del singolo magistrato, maggiormente esposto a pericolo quando è l’unico depositario di un importante patrimonio di conoscenze, ma anche ad agevolare quella circolazione delle conoscenze (senza il timore di fughe di notizie che possono avere effetti assai negativi) tra tutti coloro che si occupavano di indagini di mafia che è premessa indispensabile per una migliore comprensione del fenomeno complessivo. Essendo, infatti, unitaria la realtà criminale che da origine alle varie manifestazioni illecite, ne consegue che ogni delitto di COSA NOSTRA non può essere considerato, a differenza degli altri reati, un episodio a se stante, ma bensì come l’anello di una lunga catena, traendo esso causa dai fatti precedenti ed a sua volta creando le premesse per quelli successivi. Solo in tale visione unitaria è possibile trovare le chiavi di lettura per la ricerca delle causali del singolo delitto e per individuare gli spunti investigativi più utili all’accertamento delle responsabilità personali degli autori del crimine predetto. L’accentramento delle indagini di mafia in un unico “pool” e la circolazione delle notizie al suo interno consentivano, pertanto, all’Ufficio giudiziario di cui Giovanni FALCONE era uno dei principali motori di non disperdere nessuno dei tasselli emergenti dalle molteplici attività investigative svolte e di ricomporli in un mosaico meno incompleto e, quindi, di interpretazione meno complessa.
Nello svolgimento di tale attività investigativa Giovanni FALCONE attribuiva particolare importanza alle indagini di carattere patrimoniale ed economico, e ciò non solo perché convinto del fatto che per intaccare il potere di COSA NOSTRA fosse indispensabile “impoverirla”, confiscare cioè le sue enormi disponibilità finanziarie, ma anche perché riteneva fondatamente che ad una ricerca tecnicamente corretta fosse più facile rinvenire le ingenti ricchezze accumulate da questa organizzazione nello svolgimento delle sue attività illecite piuttosto che le altre tracce materiali dei reati commessi. Da qui il suo certosino lavoro di ricerca, che non trascurava neanche i dettagli apparentemente insignificanti, per ricostruire i numerosi passaggi attraverso i quali COSA NOSTRA è solita occultare i flussi economici provenienti dalle sue attività, avvalendosi di una molteplicità di canali non solo in ambito nazionale. E Giovanni FALCONE, consapevole di tale realtà, ebbe cura di allacciare anch’egli proficui rapporti di lavoro con le autorità giudiziarie di vari Paesi, tra cui la Svizzera, sede tradizionalmente privilegiata per il transito o il deposito di attività finanziarie bisognose di occultare le proprie origini per la sua legislazione particolarmente rigorosa nella tutela del segreto bancario, nonché gli Stati Uniti d’America, ove esiste una COSA NOSTRA altrettanto organizzata e potente con la quale quella isolana svolgeva la sua attività più redditizia, quella del traffico internazionale della droga, come già si è detto sopra.
Giovanni FALCONE avvertiva, quindi, l’esigenza di una collaborazione internazionale delle indagini contro il fenomeno mafioso, il quale non conosceva da parte sua le barriere nazionali e che si avvantaggiava, invece, di quelle poste dagli Stati, che rendevano più difficoltose dette indagini. Il Magistrato cercò di sopperire a tali difficoltà allacciando una rete personale di contatti con alcuni dei più validi inquirenti dei predetti Paesi e di numerosi altri, apportando nel lavoro comune il prezioso bagaglio della sua straordinaria esperienza e del suo acume, che gli valsero la stima incondizionata dei suoi colleghi, che sopravvive alla sua morte e ricevendo da loro importanti informazioni ed utili suggerimenti che arricchirono ulteriormente il suo patrimonio di conoscenze.
Elemento caratterizzante di questa suo così intenso lavoro investigativo è stato costituito dalla ricerca scrupolosa del dato probatorio certo, in mancanza del quale ogni ipotesi accusatoria è destinata a rimanere un mero teorema, come tale privo di qualsiasi validità nelle aule giudiziarie e l’attività inquirente, lungi dal conseguire i suoi obiettivi, non fa che rafforzare il “prestigio” dell’associazione mafiosa.
LE INDAGINI GIUDIZIARIE I metodi di lavoro elaborati da Giovanni FALCONE trovarono la loro più emblematica ed efficace applicazione nell’indagine, nel corso della quale vennero progressivamente affinati, sfociata nel maxiprocesso di Palermo nei confronti dei più autorevoli esponenti di COSA NOSTRA, indagine che finì per abbracciare i più disparati settori di attività illecita di questa organizzazione, dagli omicidi alle estorsioni, al traffico della droga, agli intrecci politico-affaristici, ai reati contro l’amministrazione della giustizia e così via.
Come risulta dalle sentenze del più corposo troncone in cui venne separata la predetta attività istruttoria, noto come il primo maxiprocesso di Palermo a COSA NOSTRA, il procedimento in questione prese l’avvio dal rapporto congiunto del 13 luglio 1982 della Squadra Mobile della Questura di Palermo e del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo, con cui venivano denunciati GRECO Michele ed altre 160 persone, quali responsabili di vari reati, tra i quali numerosi omicidi commessi nell’arco temporale intercorrente tra il 23 aprile 1981, giorno in cui venne ucciso BONTATE Stefano ed il 17 aprile 1982, data dell’omicidio di CORSINO Salvatore.
A seguito di tale rapporto la Procura di Palermo emetteva nel luglio del 1982 vari ordini di cattura per i reati di associazione per delinquere aggravata e di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e dopo la formalizzazione dell’istruttoria il Giudice istruttore adottava nei confronti dei medesimi imputati già colpiti dagli ordini di cattura, oltre ottanta, il mandato di cattura n. 343/82 del 17 agosto 1982, mentre procedeva a piede libero nei confronti degli altri indiziati indicati nel rapporto. Venivano, quindi, riuniti tutti i procedimenti già pendenti per i fatti denunciati nel rapporto e si disponevano indagini bancarie e patrimoniali nei confronti degli indiziati.
Successivi rapporti del 14 settembre, 11 e 23 ottobre 1982 e del 24 marzo 1983 della Squadra Mobile di Palermo ampliavano l’oggetto delle indagini ai gruppi mafiosi operanti nelle borgate di Ciaculli, di Corso dei Mille e della Kalsa, mentre ulteriori ampliamenti derivavano dalla trasmissione all’Ufficio istruzione di Palermo da parte di quello di Trento, a seguito di declaratoria di incompetenza del 20.1.1983, di un procedimento per traffico internazionale di droga nei confronti dei fratelli GRADO, dei fratelli FIDANZATI e di TOTTA Gennaro, relativo ai traffici di stupefacenti operati nella piazza di Milano negli anni ’79 ed ’80 dalle predette “famiglie”, nonché all’acquisto da parte dei GRADO presso fornitori turchi di morfina base, che veniva poi da loro trasportata in Sicilia per la trasformazione in eroina.
Venivano, altresì, acquisiti i rapporti della Guardia di Finanza del 23.10.1982 e del 10 e del 22 marzo 1983, relativi agli accertamenti fiscali e patrimoniali compiuti nei confronti di imprese facenti capo al gruppo dei GRECO, di AIELLO Michelangelo ed al gruppo di BONURA, BUSCEMI e PIAZZA.
L’1 marzo 1983 iniziava a collaborare con l’A.G. CALZETTA Stefano, presentatosi al posto di Pronto Soccorso di via Roma a Palermo, che oltre alla cattura di alcuni latitanti, forniva utili indicazioni sul gruppo mafioso degli ZANCA, al quale egli era vicino, nonché sulle attività illecite delle “famiglie” VERNENGO, TINNIRELLO, MARCHESE ed altre. Il 6 maggio 1983, mentre era in corso l’interrogatorio del CALZETTA da parte del Giudice istruttore di Palermo, un attentato dinamitardo distruggeva una fabbrica di proprietà dei fratelli del CALZETTA, che poco tempo dopo interrompeva la lucida collaborazione sino ad allora intrapresa. Sulla scorta delle dichiarazioni del CALZETTA e delle attività di indagine il Giudice istruttore emetteva il mandato di cattura n. 237/83 del 31 maggio 1983 nei confronti di GRECO Michele + 124 per reati associativi.
Poco dopo un barbaro attentato poneva fine alla vita del Consigliere istruttore Rocco CHINNICI, che sino ad allora si era personalmente occupato del ramo principale dell’inchiesta.
E, tuttavia, la perdita di un così valoroso Magistrato non arrestava l’attività dell’Ufficio Istruzione di Palermo, che in data 8 agosto 1983 emetteva i mandati di cattura nn. 372/83 e 373/83 nei confronti delle persone accusate dal CALZETTA di omicidi ed altri delitti.
Veniva, inoltre, acquisito il rapporto della Squadra mobile di Palermo del 4 luglio 1983, relativo all’arresto di TESTA Giuseppe, trovato in possesso a Bangkok di una valigia contenente kg 1,7 di eroina, episodio questo che da successivi accertamenti risultava collegato ad un più vasto traffico di sostanze stupefacenti condotto dalla “famiglia” mafiosa dei MARCHESE.
Di notevole rilievo era l’arresto in Spagna di AZZOLI Rodolfo, che interrogato in sede di rogatoria internazionale a Madrid il 17 novembre 1983 non solo confermava i rifornimenti da parte della famiglia GRADO di morfina base acquistata dai turchi e trasformata in eroina nei laboratori siciliani, ma forniva altresì ulteriori spunti investigativi che portavano ad accertamenti bancari presso l’agenzia del Banco di Bilbao di Benidorm (città in cui si era riscontrata la presenza di vari esponenti di COSA NOSTRA, tra cui i fratelli GRADO), da cui emergeva che a partire dall’ottobre del 1980 su di un conto corrente intrattenuto presso quell’agenzia erano stati effettuati numerosi versamenti per un ammontare complessivo di diverse centinaia di milioni di pesetas su ordine di varie banche svizzere di Lugano, Berna e Zurigo e che inoltre lo AZZOLI aveva acquistato diversi immobili dal novembre del 1981.
Ulteriori indagini bancarie sui conti correnti ed i libretti di deposito a risparmio di pertinenza di GRADO Giacomo presso la succursale n. 16 della Sicilcassa di Palermo consentivano di accertare con prove documentali che su tali conti erano state accreditate somme dell’ammontare di circa 25 miliardi di lire.
Venivano ancora acquisiti nel corso delle indagini elementi probatori da cui emergevano rapporti tra COSA NOSTRA e le “famiglie” napoletane dei NUVOLETTA, ZAZA e BARDELLINO nel traffico di droga e nel contrabbando dei tabacchi lavorati esteri.
Con provvedimento del 21.3.1984 veniva riunito il procedimento nei confronti di MARCHESE Filippo + 36, imputati di reati associativi, omicidiari ed altro, a seguito delle dichiarazioni rese da SINAGRA Vincenzo del 1956, tratto in arresto il 12.8.1982 e che aveva iniziato a collaborare con l’A.G. dal 12.11.1983, fornendo utili indicazioni in ordine alle vicende criminali che avevano interessato in particolare la “famiglia” di MARCHESE Filippo di Corso dei Mille e consentendo la scoperta della c.d. camera della morte, sita nei locali di Piazza S.Erasmo, ove gli affiliati si riunivano per interrogare, torturare ed uccidere le proprie vittime. All’interno di quel covo si rinvenivano armi, munizioni, esplosivi e circa g. 900 di eroina, nonché delle corde con cappi ed un bastone, sui quali erano presenti sostanze pilifere appartenenti a vari soggetti. Sulla scorta delle dichiarazioni del SINAGRA e delle conseguenti indagini il Giudice istruttore aveva emesso nell’ambito del procedimento poi riunito il mandato di cattura n. 71/84 del 29.2.1984 contro SINAGRA Vincenzo + 23, imputati tra l’altro di vari omicidi, tra cui quello del perito del Tribunale di Palermo GIACCONE Paolo, commesso in quella città l’11 agosto 1982.
In data 2.4.1984 il Giudice istruttore emetteva altro mandato di cattura, recante il n. 111/84, nei confronti di GRECO Michele + 12 per gli omicidi commessi tra il Natale del 1982 ed il 16 marzo 1983 nel quadro della sistematica attività di sterminio attuata dalla fazione vincente di COSA NOSTRA ai danni di familiari e di persone comunque vicine a BUSCETTA Tommaso ed a GRECO Giovanni, inteso “Giovannello”.
GLI INTOCCABILI ESATTORI SALVO In data 19.4.1984 il Giudice istruttore sentiva nella qualità di indiziato SALVO Antonino, esattore di Salemi.
Frattanto nuovi filoni investigativi erano stati aperti grazie alla collaborazione avviata tra le autorità inquirenti di Palermo e degli U.S.A. di cui si è già detto, riguardanti imponenti traffici di eroina tra la Sicilia e Stati Uniti ed i relativi dati probatori acquisiti consentivano il 9 aprile 1984 un’operazione condotta simultaneamente dalle Polizie dei due Paesi che portava all’arresto di numerose persone indagate nell’inchiesta nota come “Pizza Connection”. Dopo gli interrogatori di rito, gli atti venivano trasmessi al Giudice istruttore di Palermo, che in data 22.5.1984 ne disponeva la riunione al processo principale.
Importanti elementi probatori venivano, altresì, forniti dalle indicazioni rese da CONIGLIO Salvatore in merito ad un rilevante traffico di eroina e cocaina tra Palermo ed alcune città del Nord, tra cui Milano. Un altro procedimento trasmesso per competenza dall’A.G. di Roma e riunito a quello principale con provvedimento del 2.5.1984 era quello instaurato a conclusione di approfondite indagini del Nucleo Centrale di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Roma, sfociate nel rapporto del 17.11.1983, riguardante l’attività illecita svolta dal clan dei FERRERA, intesi “cavadduzzu”, appartenenti alla “famiglia” catanese di COSA NOSTRA facente capo a SANTAPAOLA Benedetto ed attivi in un traffico di stupefacenti sulla piazza della Capitale nonché in un più vasto traffico di stupefacenti che aveva i suoi canali di approvvigionamento di hashish, morfina ed eroina nel Medio Oriente ed era collegato a “famiglie” mafiose del Palermitano. In tale ambito di indagini si inquadravano l’arresto a Parigi all’aeroporto di Orly il 10.11.1981 di GASPARINI Francesco, trovato in possesso di Kg 4,5 di eroina purissima, divenuto poi collaboratore della Giustizia, nonché le chiamate in correità operate dal cittadino tailandese KOH BAK KIN, grosso esportatore di eroina, da THOMAS Alan, organizzatore di una rete di corrieri della droga, da DE RIZ Pietro e da DATTILO Sebastiano, inteso il “nano”.
Il 14 luglio 1984 si verificava, intanto, un evento importante per l’ulteriore sviluppo delle indagini, e cioè il rientro in Italia di BUSCETTA Tommaso, a conclusione di un lungo iter procedurale per l’estradizione dal Brasile, ove il BUSCETTA era stato tratto in arresto il 15.12.1983. Quest’ultimo, ormai posto al di fuori dell’organizzazione COSA NOSTRA e ricercato dai corleonesi, avversari delle persone a lui più vicine, e cioè BADALAMENTI Gaetano e SALOMONE Antonino , anch’essi “posati”, nonché BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore, entrambi uccisi, dopo aver subito anche la perdita di numerosi congiunti per mano dei corleonesi, decideva di iniziare la sua collaborazione con l’A.G. a partire dal suo interrogatorio del 16 luglio 1984. Il BUSCETTA meglio degli altri collaboratori sino ad allora esaminati, dato il diverso spessore della sua posizione all’interno di COSA NOSTRA, riusciva a fornire un quadro preciso delle regole che disciplinavano il funzionamento di questo organismo, del suo organigramma interno e delle ragioni che avevano portato alla c.d. seconda guerra di mafia (termine questo che egli rifiutava, in quanto rappresentava che non si era trattato di un conflitto dichiarato tra “famiglie” mafiose rivali, bensì un’attività di sterminio posta in essere in modo pressoché unilaterale da una fazione ai danni di quella opposta) che aveva insanguinato le vie di Palermo dall’aprile del 1981. Nel frattempo approfondite indagini bancarie consentivano di scoprire una negoziazione di titoli per circa 600 milioni da parte di impiegati della S.A.T.R.I.S. S.p.A., nonché il riciclaggio di ingenti quantitativi di dollari statunitensi. La struttura di COSA NOSTRA delineata dalle rivelazioni del BUSCETTA e confermata dalle approfondite indagini che nel corso di quegli anni erano state svolte dal “pool” antimafia nel quale operava Giovanni FALCONE portava all’emissione del mandato di cattura n. 323/84 del 29.9.1984 nei confronti di ABBATE Giovanni + 365 per reati associativi ed altri delitti contestati in ben 321 capi di imputazione, che costituiva una tappa assai significativa dell’attività d’indagine condotta a così largo raggio per tanti anni e nel quale trovava piena espressione in un provvedimento giudiziario la consapevolezza della realtà essenzialmente unitaria di COSA NOSTRA, che superava le precedenti erronee concezioni del fenomeno mafioso come un coacervo di bande criminali fra loro autonome. A breve distanza di tempo dall’emissione di questi provvedimenti restrittivi, che colpivano al cuore per la profondità dell’analisi il mondo della criminalità mafiosa, quest’ultimo subiva un’ulteriore sconvolgimento con l’avvio della collaborazione con l’A.G. il 16.10.1984 di CONTORNO Salvatore, elemento di spicco della “famiglia” mafiosa di Santa Maria di Gesù e detenuto dal 23.3.1982. Il CONTORNO, confermando nella sostanza le dichiarazioni del BUSCETTA in ordine alle regole di funzionamento ed alle dinamiche interne di COSA NOSTRA, apportava ulteriori e più aggiornati elementi di conoscenza sull’organigramma dell’associazione e su alcuni delitti dalla medesima posti in essere. Le dichiarazioni dei predetti, inoltre, unitamente agli elementi acquisiti sulla base di indagini bancarie, intercettazioni telefoniche, prove documentali e dichiarazioni di altri testi fornivano preziosi elementi di conoscenza in ordine all’attività di collegamento svolta dai cugini SALVO Antonino e SALVO Ignazio per conto di COSA NOSTRA con centri di potere politico-affaristici. Nei confronti dei predetti veniva, pertanto, emesso in data 12.11.1984 il mandato di cattura n. 390/84 per reati associativi. Ulteriori indagini istruttorie venivano avviate, sulla scorta delle dichiarazioni rese all’A.G. da BONO Benedetta e COLLETTI Vincenzo, rispettivamente amante e figlio del rappresentante della “famiglia” di Ribera COLLETTI Carmelo, in precedenza assassinato, nonché sulla base di intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura della Repubblica di Agrigento, in ordine ai collegamenti intrattenuti dal SANTAPAOLA con elementi di spicco di COSA NOSTRA della Sicilia occidentale, come il predetto COLLETTI Carmelo – che nel corso di intercettazioni ambientali effettuate in Canada presso la latteria di VIOLI Paul veniva indicato quale capomandamento facente parte della commissione di Agrigento – come FERRO Antonio, rappresentante della “famiglia” di Canicattì (Ag) e AGATE Mariano, indicato dal CONTORNO quale rappresentante della “famiglia” di Mazara del Vallo, insieme al quale il SANTAPAOLA era stato controllato in territorio di Campobello di Mazara il 13.8.1980. In data 8 novembre 1985 veniva depositata la monumentale sentenza – ordinanza di rinvio a giudizio, nel quale trovava la sua più compiuta espressione l’analisi del “modus operandi” e dei settori delle attività illecite svolte da COSA NOSTRA nel periodo interessato dalla complessa attività investigativa condotta da Giovanni FALCONE e dagli altri magistrati del “pool” antimafia diretto dal Consigliere istruttore Antonino CAPONNETTO. In proposito può affermarsi senza tema di plausibile smentita che lo straordinario salto di qualità che era stato così impresso alla conoscenza di COSA NOSTRA dall’incalzare delle indagini e delle emergenze processuali e dall’affinamento del metodo investigativo che di pari passo si andava realizzando nell’ambito della predetta attività istruttoria avrebbe costituito per tutti gli operatori giudiziari e per le forze di polizia impegnati nel contrasto alla criminalità mafiosa un imprescindibile punto di riferimento per l’ulteriore lavoro di approfondimento e di aggiornamento della conoscenza di questa realtà criminale. Ma i risultati conoscitivi a quel tempo raggiunti avrebbero, altresì, ispirato la migliore produzione legislativa in tema di misure contro il fenomeno mafioso, perché essendo state concretamente individuate l’essenza unitaria della più pericolosa tra le associazioni criminali aventi tale natura e le proteiformi modalità attraverso cui essa si arricchisce e si potenzia, intrecciando perversi legami con alcuni settori del mondo politico – istituzionale e della società civile, indubbiamente diveniva più agevole la scelta dei mezzi idonei a debellare tale fenomeno. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
19 Gennaio1987, mentre il maxiprocesso di Palermo si avviava alla sua conclusione, il Dott. Caponnetto dovette per ragioni di salute e suo malgrado fare ritorno a Firenze. Il Dott. Caponnetto si convinse di dare le dimissioni anche perché gli era stata data rassicurazione che il suo posto sarebbe andato al Dott. Falcone, tanto da dichiararlo anche pubblicamente. Tutti dunque si aspettavano che il successore fosse il Dott. Giovanni Falcone, ma il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli, un magistrato a due anni dalla pensione che non aveva alcuna esperienza in materia di processi di mafia e che di fatto smembrerà il pool antimafia. Questa decisione del CSM venne presa anche per merito delle polemiche emerse un anno prima con l’articolo di Sciascia sui “Professionisti dell’Antimafia”, dunque il CSM era orientato a tornare al criterio dell’anzianità rispetto a quello della competenza che aveva fatto vincere il posto di Procuratore Capo a Marsala al Dott. Borsellino. I nemici di Falcone dentro e fuori allo Stato riuscirono a reclutare contro il magistrato giudici togati e di nomina politica provenienti da tutta italia. Le correnti si spaccarono. Il relatore Umberto Marconi sostenne che “Accentrare il tutto in figure emblematiche pur nobilissime è di certo fuorviante e pericoloso… c’è un distorto protagonismo giudiziario… si trasmoda nel mito”. L’affondo finale venne da Vincenzo Geraci (definito dal Dott. Borsellino un giuda), il pubblico ministero che aveva accompagnato Falcone in Brasile per l’interrogatorio di Buscetta: “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore.”. Fu così che il Plenum del CSM il 19 gennaio 1988 votò: A favore di Meli si espressero in 14: Agnoli Francesco Mario, Borrè Giuseppe, Buonajuto Antonio, Cariti Giuseppe, Di Persia Felice, Geraci Vincenzo, Lapenta Nicola, Letizia Sergio, Maddalena Marcello, Marconi Umberto, Morozzo della Rocca Franco, Paciotti Elena Ornella, Suraci Sebastiano, Tatozzi Gianfranco A favore di Falcone invece si espressero in 10: Abbate Antonio Germano, Brutti Massimo Calogero Pietro, Caselli Gian Carlo (in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva), Contri Fernanda, D’Ambrosio Vito, Gomez d’Ayala Mario, Racheli Stefano, Smuraglia Carlo, Ziccone Guido Si astennero in 5: Lombardi Bartolomeo, Mirabelli Cesare (Vicepresidente), Papa Renato Nunzio, Pennacchini Erminio, Sgroi Vittorio In quegli anni il Dott. Falcone, unitamente al pool, oltre ad essere accusato venne anche isolato, e quella nomina di Meli rese il Dott. Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia (due anni dopo subirà un attentato, che fortunatamente fallirà), perché la sua sconfitta aveva dimostrato che non era stimato come si credeva. C’è da fare una precisazione molto importante, il Dott. Meli aveva fatto domanda per un altro posto, quello di Presidente del Tribunale di Palermo. Ma la notte prima della scadenza del bando per il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione, ricevette una telefonata da un collega che lo convinse a candidarsi per quel posto, anche se meno prestigioso. La sconfitta personale del Dott. Falcone era sotto gli occhi di tutti: il Dott. Caponnetto prima e il Dott. Borsellino poi avrebbero dichiarato dopo la sua morte che il Dott. Falcone aveva iniziato a morire proprio quella notte, quando Meli diventò Consigliere istruttore al suo posto. Il risultato 14 a 10 con le strategiche astensioni fu il frutto di una strategia costruita a tavolino. In particolare il Dott. Borsellino, in un convegno organizzato da La Rete e da MicroMega il 25 giugno 1992, a proposito della mancata nomina del Dott. Falcone come capo del pool antimafia e in riferimento all’articolo di Sciascia, disse: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia” e aggiunse “Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone” e continuó “Quando Giovanni Falcone solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli.”cosa nostra intanto assassinò l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco (il 12 gennaio 1988), che aveva denunciato le pressioni subite da parte di Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone. Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York. (Fonte: WikiMafia)
Le VITTIME della STRAGE di CAPACI Allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Ecco chi erano: Francesca Morvillo, 46 anni, nata a Palermo, era la seconda moglie di Giovanni Falcone e morì al suo fianco. Sorella di Alfredo Morvillo, sostituto procuratore che fece parte del pool antimafia, aveva conosciuto Falcone a Palazzo di giustizia e lo aveva sposato nel 1986. Rocco Dicillo 30 anni, di Triggiano (Bari.) Quando superò il concorso in polizia, interruppe gli studi universitari e partì per Bolzano, prima sede di servizio. Nel 1989 iniziò a fare parte della scorta di Falcone, e con altri colleghi contribuì a sventare l’attentato alla villa dell’Addaura. Antonio Montinaro 30 anni, di Calimera (Lecce). Agente scelto, era stato inviato in Sicilia e temporaneamente assegnato al servizio scorte di Falcone. All’inizio sognava di tornare a casa, poi decise di rimanere e aprì un piccolo negozio di detersivi per la moglie. Da quando Falcone lavorava a Roma seguiva altre personalità, ma non mancava mai all’appuntamento quando il magistrato tornava in Sicilia nel weekend. Era padre di due figli piccoli. Vito Schifani 27 anni, di Ostuni (Brindisi). Guidava la prima delle tre Fiat Croma che scortavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Lasciò la moglie di 22 anni, Rosaria, e un figlio di 4 mesi. L’immagine di Rosaria ai funerali è rimasta nella memoria di molti. Sull’altare, piangendo, urlò ai mafiosi: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…”.