GIOVANNI FALCONE articoli 2° parte

Un palermitano autentico, il giudice Falcone. Palermo e la storia ne è testimone, è capace di dare “tutto il peggio” ma anche “tutto il meglio”. Certo, appartengono a questa città gli orrori della mafia: la camera delle torture, le stragi, le violenze, la lupara bianca, i cadaveri sciolti nell’acido, i bambini uccisi come gli adulti, le donne divenute spacciatrici o criminali come padri e mariti. Ma è anche vero che sono patrimonio di Palermo molti degli anticorpi che si sono opposti alla cultura della morte, sino al sacrificio finale. Non solo Giovanni Falcone, ma anche Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Libero Grassi, Boris Giuliano, Cesare Terranova, don Pino Puglisi e tutti gli altri. Oppositori di un regime che governa da anni. Una dittatura che si fa forte del cosiddetto “consenso dal basso” e che neutralizza sistematicamente i suoi avversari uccidendoli o “cooptandoli”. Con Giovanni Falcone hanno tentato tutti i sistemi. Dall’adulazione si è passati alle minacce. Poi è stata la volta della delegittimazione con la disinformazione, le accuse di protagonismo, di vocazione accentratrice, di smania di potere. Lo hanno accusato cose più inaudite, persino di aver usato il pentito Salvatore Contorno come “giustiziere di Stato”. Per non parlare delle accuse di servilismo verso il potere, di mancanza di autonomia, di opportunismo. E’ stato attaccato da tutti: democristiani, socialisti, comunisti, magistrati, alti commissari, investigatori. Spesso anche da quelli che erano stati o che sarebbero divenuti suoi amici. Chi lo ha difeso una volta lo ha flagellato subito dopo. Basti pensare a due estremi: Orlando, amico di un tempo, pubblico accusatore davanti al Consiglio superiore della magistratura; Martelli, l’uomo che aveva avversato l’attività del pool antimafia, non solo diventa difensore di Falcone, ma addirittura sostenitore convinto della sua candidatura alla Superprocura. Se, tutto ciò, lo facevi notare a lui, era pronto a risponderti: “Forse è proprio questa la dimostrazione migliore della mia autonomia. Io faccio il magistrato, non devo cercare consensi. Quando arresti qualcuno, specialmente negli ambienti della cosiddetta criminalità dei colletti bianchi, scontenti alcuni e fai felici altri. Ma il giudice deve guardare il reato e niente altro”. (dal libro di Francesco La Licata -STORIA DI GIOVANNI FALCONE)


 

ALLA KALSA SULLE STRADE DI FALCONE E BORSELLINO

Giovanni Falcone, il ragazzo della Kalsa della Palermo giustA “Giovanni Falcone era un ragazzo di Palermo, un ragazzo della Kalsa, quartiere del centro storico della città. In quel quartiere è cresciuto ed ha frequentato Paolo Borsellino, anche lui nato e cresciuto alla Kalsa, ed in quel quartiere ha conosciuto anche coloro che sarebbero diventati i capi zona della mafia. Questa è Palermo, una città dove due mondi, opposti, si incontrano, si frequentano, ma dove molti, coraggiosamente, non cedono alla complicità. Falcone frequenta le elementari al Convitto nazionale, alle spalle della Cattedrale, scuola che adesso porta il suo nome. Laureato in Giurisprudenza, sceglie di diventare magistrato e si dedica alla lotta alla Mafia. Il suo essere un ragazzo della Kalsa lo aiuta a conoscere storia, uomini e mentalità che alimentano criminalità e connivenze, frutto di interesse o paura. Il più importante pentito, Tommaso Buscetta, volle parlare solo con lui. Nelle carte del maxi processo è interessante notare come tutti i verbali delle deposizioni, siano scritti dal giudice di suo pugno. Con quelle carte, assieme a Paolo Borsellino, mette in piedi l’apparato accusatorio del Maxi Processo. Il lavoro di preparazione fu concluso all’isola dell’Asinara, dove i due giudici e le loro famiglie furono tenuti sotto protezione per evitare attentati. Protezione di cui fu chiesto il conto di vitto ed alloggio. Nel libro Cose di cosa nostra, pubblicato nel 1991, intervista a Falcone raccolta da Marcelle Padovani, il giudice afferma: “L’unico tentativo serio di lotta alla mafia fu quello del prefetto Mori, durante il Fascismo, mentre dopo, lo Stato ha sminuito, sottovalutato o semplicemente colluso”. Non a caso il signor Giovanni Grassi, parente di Cesare Mori, ebbe un incontro, su richiesta dei due giudici prima del Maxi processo, affinchè fornisse loro i documenti-diari del Prefetto di Ferro che di Maxi processi ne fece istruire a decine, portati a buon fine dal Procuratore generale dell’epoca Luigi Giampietro. La battaglia di Falcone non è solo sul fronte criminale, presto si apre il fronte all’interno della Magistratura che lo esclude da quelle posizioni di vertice che gli consentirebbero di proseguire il lavoro svolto. Si apre anche il fronte politico: c’è chi lo accusa di incriminare avversari politici. Capisce a poco a poco che attorno a lui si va facendo il vuoto che lo rende obbiettivo facile per la vendetta di Cosa Nostra. Subisce un attentato, fortunatamente sventato, ma in città la calunnia corse veloce e parlava di falso attentato architettato dallo stesso giudice. Trasferito a Roma, al Ministero di Grazia e Giustizia, lavora alla creazione di un coordinamento delle attività investigative contro la criminalità e si ritaglia anche momenti di libertà di movimento dalla scorta che ormai lo protegge da anni. Un sabato, tornando da Roma, trova la morte assieme alla moglie ed agli agenti di scorta, sull’autostrada che porta a Palermo dall’aeroporto di Punta Raisi. Il suo martirio rende evidente la sua linearità di azione e le tante forze che pubblicamente e tacitamente hanno lottato per impedirgli di compiere il suo dovere di servitore dello Stato. Episodio poco raccontato dalle cronache, dopo 15 giorni dall’attentato di Capaci, un incendio distrugge il cantiere navale di proprietà del cognato e della sorella Anna. Ulteriore vendetta di una criminalità che avrebbe continuato la sua azione nei mesi successivi. Oggi Falcone riposa nella Basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo, nella stessa Chiesa in cui si svolsero i suoi funerali. Tornato nel centro storico, il ragazzo della Kalsa oggi riposa fra gli illustri di Sicilia. Francesco Paolo Ciulla 19 Maggio 2020   CULTURA E INDENITA’


 

I discorsi sulla morte si facevano più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche Parole; “Io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”.
No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un po’ come aveva fatto prima di lasciare la Procura.
Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’Università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone. (da Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


La solitudine di Giovanni Falcone– II giornalista Saverio Lodato, il 19 maggio 2002, su “l’Unità”, ricorda un colloquio avuto con Giovanni Falcone alla Procura di Palermo poco prima che il magistrato si trasferisse a Roma come Direttore dell’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, nel marzo 1991. Anche in quell’occasione il magistrato espresse privatamente l’amarezza per gli ostacoli alle sue indagini all’interno della Procura di Palermo.   […] Giovanni Falcone indossava una felpa e pantaloni da ginnastica. Al centro della felpa campeggiava a caratteri cubitali il logo della Dea, la Drug Enforcement Administration, regalo dei colleghi americani durante un recente viaggio negli States dove Falcone negli ultimi anni si recava sempre più frequentemente per ragioni di lavoro. Fra noi due si svolse il dialogo che segue. Io: «Sta partennu?». Lui: «Minni vaiu a Roma, a lavorare con Martelli». Io: «Lasci Palermo?». Lui: «Esatto. Lascio Palermo». E con un sorriso alquanto tirato: «Qualcosa in contrario?». Non so come, non so perché, mi venne fuori una frase che era nello stesso tempo molto sincera e molto irrispettosa: «Giovanni, ci conosciamo da tanti anni. Nell’amicizia posso dirti che secondo me fai una minchiata?».  Falcone girò attorno a una pila di scatoloni (ormai quasi tutti zeppi di atti giudiziari), si diresse alla porta – mentre velocemente cercavo di intuire quale sarebbe stata la sua reazione – e, da socchiusa che era, la chiuse rumorosamente. «Ah, io secondo te faccio una minchiata? Cosa vuoi che ti dica? Va bene, hai ragione tu: faccio una minchiata…».Tentai una difesa. Mi ignorò e ripete: «Cosa vuoi che ti dica? Che qui è diventato impossibile lavorare? Che a Palermo per me non c’è più spazio? Che ho chiuso?». Adesso era paonazzo. Girava per la stanza tenendo in mano un rotolo di nastro adesivo da imballaggio con il quale fino a quel momento aveva sigillato scatoloni. Poi, trattenendo a stento la rabbia, ricominciò: «Ma lo sai che ieri ho telefonato a un giovane collega di Enna per chiedergli notizie su un imputato di mafia? Il collega si è messo a disposizione. E lo sai che mi ha richiamato dieci minuti dopo ed era sconvolto?». Riuscii a chiedergli il perché. «Perché appena ha chiuso la telefonata con me, ne ha ricevuta un’altra. Da chi? Dal mio capo, dal procuratore Pietro Giammanco», E cosa c’era di strano? «Di strano c’è che Giammanco già sapeva che io avevo fatto quella telefonata, quali informazioni avevo chiesto e anche a chi le avevo chieste. E ha telefonato al collega di Enna per ricordargli che il capo di quest’ufficio resta lui e che non gli sfugge niente del lavoro che faccio. Ti basta come segnale? Così non posso più andare avanti». Gli chiesi se qualcuno fosse stato presente alla sua telefonata. Falcone preferì non rispondere. E a quel punto reagii: «E io adesso scrivo un bell’articolo sul “l’Unità” raccontando l’intera storia per filo e per segno. Dimmi solo come si chiama il collega e dammi qualche particolare in più». Non l’avessi mai detto. «Se tieni alla mia amicizia non dovrai mai dire una parola su questa storia. Mi faresti soltanto danno. E mi costringeresti a smentirti. Scordatilla… (dimenticala)». Tentai qualche ultima e inutile resistenza. Verificai che diceva molto sul serio. Che voleva davvero che di quell’episodio non trapelasse nulla. Per allentare la tensione dissi solo: «Ti posso confermare che secondo me fai una minchiata ad andartene a Roma?».  Si mise a ridere: «Certo, certo. Ma dammi la tua parola d’onore che di quello che ti ho detto non scriverai mai nulla… Altrimenti non ti farò più entrare da quella porta…». Mantenni il patto […].  (da “Le Ultime Parole di Falcone e Borsellino”, a cura di Antonella Mascali )

 


La scrivania del giudice è coperta di assegni. Tutti ordinati per data e per nome. Sulla prima fila ce ne sono undici firmati Gambino Tommaso. Sono tre cugini con lo stesso nome. Uno nato nel 1939, l’altro nel 1934, il terzo nel 1940.  Sulla seconda fila gli assegni portano la firma Inzerillo. Per non confondersi, il giudice Falcone dispone gli assegni con cura e comincia a disegnare sull’agenda un albero genealogico. La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana. In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le <> che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 -emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano- vivono i suoi cugini americani. E’ la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. E’ anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.
Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. E’ una rivoluzione investigativa. Ancora non sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.
<>, sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della <>. Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.
Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni. Le prime lettere anonime, bare o croci disegnate su fogli bianchi, gli vengono recapitate dopo che ha ordinato l’acquisizione delle distinte di cambio in valuta estera a partire dal 1975. La sua piccola stanza, in fondo al corridoio buio del piano terra del Tribunale, si riempie di scatoloni. Tutti i movimenti di denaro da New Jersey a Palermo sono lì dentro. E’ la scoperta dell’America.(Attilio Bolzoni -UOMINI SOLI)