GIOVANNI FALCONE articoli 3° parte

<> GIOVANNI BRUSCAIniziammo i turni il 21 maggio di pomeriggio. Eravamo sempre gli stessi ma Bagarella non c’era più. Infatti quando finimmo di collocare l’esplosivo, lui prese la moglie e se ne andò a Mazara del Vallo. In quel periodo era latitante. La squadra si ridusse a me, La Barbera e Gioè, del mandamento di San Giuseppe Jato; Troia e Battaglia perché avevano la disponibilità del villino di Capaci; e Biondino, che faceva da tramite fra noi e i Ganci che si trovavano a Palermo. Ci eravamo messi d’accordo su come fare. Non potevamo andare sulla montagna dieci minuti prima, all’ultimo momento. Appena arrivava il segnale della macchina che partiva, dovevamo andare a collocare la ricevente. Avevamo preparato degli spinotti che ormai si dovevano solo collegare. Avevamo l’antenna pronta e tutto il sistema era composto da un motorino che doveva andare a fare massa con un chiodo di ferro e poi sarebbe avvenuta l’esplosione. Avevo anche detto a Ferrante: <<Giovà, mi devi fare la cortesia che quando arrivi in aeroporto, tu devi scendere dalla macchina. Devi guardare dentro l’auto di Falcone: dobbiamo essere sicuri che dentro non c’è qualcun altro. Dovessimo fare qualche pasticcio…Quindi tu lo devi vedere, Giovà; lo devi vedere. Hai capito? Scendi dalla macchina, ti metti all’ingresso del passaggio di polizia, in aeroporto. Falcone lo devi vedere entrare in macchina, devi essere sicuro. Capito Giovà? Solo allora telefoni a La Barbera>>.Poteva fare quello che gli dicevo perché in quel momento era libero, non era latitante. Quindi lui vide in faccia il magistrato. (Da -HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- di Saverio Lodato. La confessione di Giovanni Brusca.)


<>E’ siciliano di Licata, terra agrigentina. Nasce nel 1930, a ventitré anni è già uditore giudiziario, poi giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. E’ una carriera di glorie e fasti quella di CORRADO CARNEVALE, il giudice che ama il cavillo. Lavora per due decenni all’Ufficio del Massimario, alla prima sezione civile e alle sezioni unite della Suprema Corte, va alla Corte di Appello di Roma, rientra in Cassazione. Alla prima sezione penale dove approdano i delitti di mafia, terrorismo, omicidio, strage. Nel dicembre 1985 diventa il presidente della prima sezione penale (<< Il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione>>, precisa lui), piega a livelli fisiologici l’arretrato. Quando si insedia sono 7065 i processi che attendono l’esame, nel maggio 1989 scendono a 837. Prima del suo arrivo la prima sezione è chiamata <>, diventa la <>. Esamina 6 mila processi l’anno, uno su tre è <>, con o senza rinvio. Alla prima sezione ci resta per sette anni meno quattro giorni. E’ dotato di una memoria prodigiosa. I suoi colleghi dicono che conosce ogni carta del processo che giudica. Come giudica è altro argomento. La Cassazione è l’ultima spiaggia per la mafia di Palermo. Dopo le pesanti condanne in primo grado e l’ <> che il maxi processo ha subito in Appello, tutte le attese degli uomini d’onore si sono concentrate sulla Suprema Corte e nella persona di Carnevale, il presidente della prima sezione penale. Già a inizio del 1991, Carnevale ha rimesso in libertà Michele Greco e 42 boss per decorrenza dei termini di carcerazione. Giovanni Falcone studia una contromossa e il ministro Martelli ordina di riportarli all’Ucciardone dopo appena cinque giorni. <>, commentano i mafiosi con rabbia. Lo sanno tutti che dietro Martelli c’è Falcone. Corrado Carnevale disprezza il giudice di Palermo e non ne fa mistero. Dice: <>. Lo sbeffeggia: <<C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei mali che affliggono la società>>. Aspetta pazientemente il maxi processo in Cassazione per farlo a pezzi. Ma, al ministero, da qualche mese, è partito un monitoraggio sui provvedimenti della prima sezione penale della Suprema Corte. Ne scelgono 12.500. Falcone e i suoi collaboratori li esaminano tutti, uno per uno. Si accorgono che i magistrati di quella sezione giudicano ogni singolo indizio autonomamente senza incrociarlo con gli altri. Una <> stravagante e sospetta, che finirebbe per demolire il maxi processo. Quante sentenze ha invalidato il presidente Carnevale fino a quel momento? Quasi 500. Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e banda armata, ha annullato la condanna a Michele Greco per l’omicidio Chinnici e il processo per la strage dell’Italicus, ha cancellato i provvedimenti di arresto del prete mafioso calabrese don Stilo e del camorrista Giuseppe Misso, ha ordinato un nuovo processo per la strage del rapido 904 Napoli-Milano, ha azzerato 19 ergastoli a Mommo Piromalli e agli affiliati della sua cosca, ha respinto il ricorso di Enzo Tortora che vuole il suo processo lontano da Napoli e al contrario ha trasferito quello sui <> dell’Iri da Milano a Roma. Gli chiedono: <> Risponde: <>. Corrado Carnevale si muove nell’ombra per ottenere il maxi processo. Ma non ci riesce, ci va un altro magistrato a presiederlo. Nelle carceri i boss si sentono perduti. Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra < (Dal libro Uomini Soli di Attilio Bolzoni)


Nel 1939 via Castrofilippo non era il simbolo del degrado palermitano. E la piana della Magione raccoglieva i palazzi della buona borghesia. Gli enormi portoni di legno lasciavano intravedere gli atri all’aperto che anticipavano le bianche scalinate. I balconi lunghi, con le ringhiere in ferro battuto e le persiane verdi, rappresentavano lo status symbol dei palermitani che avevano conquistato almeno il “pezzo di pane sicuro” con lo stipendio statale. No, né la Magione, col gioiello arabo-normanno al centro dell’enorme slargo, né la Kalsa con le sue chiese barocche, Palazzo Butera e l’ultima residenza palermitana del Gattopardo, venivano considerati quartieri a rischio. Certo, il “popolino” c’era anche allora, ma non dava manifestazioni di turbolenze. Anche la mafia esisteva già, pur se non si faceva vedere. Presenza discreta e immanente per garantire una tranquilla convivenza tra classi sociali che avevano poche affinità, se non il “comune sentire” e la vocazione a “farsi i fatti propri”. Ciò assicurava alla mafia, ancora primitiva e scarsamente industrializzata, il controllo del territorio, agli abitanti -anche a quelli non mafiosi- di poter rincasare col buio senza essere derubati o infastiditi. Non erano tempi eccezionali. Di quel periodo Sciasca dirà che viveva “dentro una società doppiamente non giusta, doppiamente non libera, doppiamente non razionale. Gli analfabeti erano il venti per cento della popolazione. Palermo contava più di quattrocentomila abitanti e il reddito medio (ma non tutti avevano un reddito) era di 3029 lire al mese.I Falcone, che il reddito lo avevano, abitavano al numero 1 di via Castrofilippo, al “piano nobile” di un bel palazzo antico che era stato la casa del sindaco Pietro Bonanno, fratello della nonna, quello della villa con le palme davanti a Palazzo d’Orléans. Appartamento, grande, con le volte alte, gli affreschi sul soffitto e le maioliche pregiate del pavimento. Una famiglia tranquilla, né ricca né povera, quella del dottor Arturo Falcone, direttore del laboratorio provinciale di igiene e profilassi. Lavorava solo lui; la moglie, Luisa Bentivegna, stava in casa a badare ai figli.In quella casa, il 18 maggio del 1939, col fondamentale aiuto di una levatrice e di un medico, è nato Giovanni, terzogenito molto atteso dopo due femmine. Era un giovedì di primavera inoltrata, ma Palermo era spazzata da un fastidioso vento di scirocco. L’umidità raggiungeva punte altissime. Il calendario annunciava la festa di san Venanzio martire e il “Giornale di Sicilia”, come piatto del giorno, consigliava “Quaglie alla siciliana”. La cronaca, invece, non offriva grandi spunti, tranne un infortunio al cantiere navale e il caso di una bambina, Caterina Restuccia, caduta nella pentola di acqua bollente e morta per le ustioni. Il 18 maggio i nati erano venticinque. Allentante il cartellone degli spettacoli: al Teatro Massimo l’ultima rappresentazione della stagione con la Traviata interpretata da Attilia Archi e Gino Fratesi. Al cine-varietà del Massimo il Gruppo d’arte “Novecento” dava La Casa del peccato con la Negri. Quel 18 maggio le cronache sportive davano conto del fatto che la squadra di calcio del Palermo aveva superato “agevolmente la combattiva Salernitana” e si attestava sui 32 punti in classifica. La prima pagina annunciava l’imminente visita del principe Umberto. Ma in casa Falcone, quel giorno, non ci fu tempo per leggere il giornale. Era arrivato il maschio, dopo due femminucce: Maria, che aveva tre anni e Anna, la più grande, che ne aveva quasi nove.(Francesco La Licata -Storia di Giovanni Falcone)


Cosa Nostra ha buona memoria e non dimentica facilmente. Se poi un fantasma che credeva di aver esorcizzato le si presenta di nuovo come un incubo, come una persecuzione, la necessità di (rimuoverlo) diventa quasi fisiologica. Falcone era diventato l’ossessione della mafia, al (vecchio conto) si aggiungeva quello recente e, soprattutto, i timori per il futuro se il giudice fosse riuscito ad ottenere la giuda della Superprocura. Ciò che accade nei primi mesi del 1992 non fa che accrescere le preoccupazioni di Cosa Nostra. La Cassazione (fa acqua) il clima generale è cambiato: (Roma influenza l’orientamento della magistratura), (siamo alle sentenze politiche), così vengono vissute negli ambienti della (palude) le iniziative del governo contro i boss. Falcone entra sempre di più nel mirino dei commenti al vetriolo degli avvocati di mafia. Cresce il suo prestigio, ma aumenta il rischio. L’ultima (vittoria) è del 22 febbraio: il tribunale di Caltanissetta sancisce che Falcone fu calunniato dal (Corvo) il giudice Alberto Di Pisa, rinviato a giudizio perché ritenuto l’autore della lettera anonima, condannato a un anno e mezzo di reclusione (Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo. (Da -STORIA DI GIOVANNI FALCONE- di Francesco La Licata)


 


Una strage per fermare Giovanni Falcone, il giudice che fa paura alla mafiaIl 23 maggio 1992 i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registravano gli effetti dello spostamento d’aria provocato dall’esplosione verificatasi nel tratto autostradale Palermo Punta Raisi. La registrazione venne effettuata dai macchinari alle ore 17.56.48 italiane. La certezza di tale dato consentiva di risalire con esattezza all’ora della deflagrazione, che può fissarsi alle 17.56.32 Il 23 maggio 1992 i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registravano, attraverso un aumento di ampiezza relativo ad un segnale ad alta frequenza, gli effetti dello spostamento d’aria provocato dall’avvenuto brillamento di sostanze costituenti verosimilmente materiale esplosivo, verificatosi nel tratto autostradale Palermo Punta Raisi. Secondo quanto riferito dal teste Smeriglio Giuseppe, primo ricercatore all’Istituto Nazione di Geofisica ed all’epoca responsabile della sezioni Dati Sismici, premesso che non v’erano dubbi che si trattasse di un’esplosione posto che di essa si era riscontrata la forma tipica, nettamente diversa dal segnale rilasciato dalle onde sismiche, la registrazione venne effettuata dai macchinari alle ore 15.56 secondo l’orario di Greenwich, corrispondenti alle 17.56.48 italiane. La certezza di tale dato consentiva di risalire con esattezza all’ora della deflagrazione, che può fissarsi alle 17. 56. 32, essendo stato necessario detrarre dall’arrivo del segnale sedici secondi, cioè il tempo impiegato dall’onda, che si propaga alla velocità di 4 km al secondo, per percorrere la distanza dal punto di scoppio all’osservatorio, coprendo un tragitto di circa 65 km. L’ esplosione investiva l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con l’autista Costanza Giuseppe. A causa della deflagrazione si arrestava la marcia anche della terza auto del corteo, occupata dagli agenti Corbo Angelo, Capuzza Paolo e Cervello Gaspare, e di conseguenza anche di altra che la seguiva, una Lancia Thema targata Palermo 931166, nonchè di altre due autovetture che transitavano nella corsia opposta, una Opel Corsa targata Pa A53642 e una Fiat Uno targata Pa 718283. I momenti immediatamente successivi allo scoppio vedevano il Corbo e gli altri colleghi che viaggiavano insieme a lui, impegnati, malgrado le ferite riportate, nell’opera di soccorso dei due magistrati e dell’autista, i quali, con l’ausilio dei primi soccorritori, venivano estratti dall’autovettura, ad eccezione del dottor Falcone, per il quale era necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco essendo il magistrato rimasto incastrato fra le lamiere dell’autovettura. I primi soccorritori avevano modo di constatare che tutti gli occupanti della Croma erano in vita, avendo verificato che la dott. ssa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, mentre invece il dott. Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i magistrati sarebbero poi deceduti in serata, per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione, mentre per il Costanza la prognosi riservata veniva sciolta favorevolmente dopo trenta giorni. Nell’immediatezza del fatto nessuna traccia si rinveniva dell’auto che era in testa al corteo, che si pensava in un primo momento fosse addirittura riuscita a sfuggire alla deflagrazione e quindi corsa avanti a chiedere soccorsi. Solo nel corso della serata la Fiat Croma veniva ritrovata completamente distrutta, in un terreno adiacente il tratto autostradale, con i corpi dei tre occupanti privi di vita. I tre agenti erano morti sul colpo, e più in particolare, secondo quanto rilevato dall’esame autoptico effettuato dai dottori Procaccianti, Albano e Maggiordomo la sera dell’attentato alle ore 23.45 presso l’Istituto di Medicina Legale di Palermo, il Montinaro e il Di Cillo per effetto dello squassamento della scatola cranica, mentre lo Schifani era deceduto per le gravissime lesioni cranio encefaliche riportate. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA10 maggio 2021


Isolato nella sua città  Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo.(da STORIA DI GIOVANNI FALCONE- di Francesco La Licata)


“Io vado, ci vediamo lunedì” La giornata del 22 maggio 1992 fino a sera, Giovanni Falcone l’aveva trascorsa a mettere ordine nelle sue cose. Aveva utilizzato la macchina tritacarte per distruggere alcuni documenti che non gli servivano più. Chi gli è stato vicino è rimasto molto impressionato da tanta meticolosità. Presagiva la fine? Forse è più consolante pensare che si preparasse psicologicamente a lasciare quell’ufficio, in vista della Procura nazionale che, chissà per quale convinzione, sentiva vicina. Nulla fa pensare che temesse: non avrebbe portato con sé Francesca, non l’avrebbe attesa per un giorno e mezzo. Anzi, il ritardo della moglie sarebbe stata la scusa ideale per poter viaggiare da solo, salvaguardandola così senza metterla in apprensione. Invece ha spostato più volte la partenza, si è mosso con estrema tranquillità, trovando persino la voglia e il tempo di fare un salto a casa per cucinarsi un piatto di spaghetti. E quando ha lasciato la sua stanza si è rivolto alla segretaria, salutandola in un modo che non lasciava trasparire timori: “Io vado, ci vediamo lunedì”. Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata