GIOVANNI FALCONE Articoli 4° Parte

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro  Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima. 

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA  Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L’FBI E CON RUDOLPH GIULIANI Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia.Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta ”camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA “GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l’associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell’organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l’inequivocabile contesto probatorio sull’esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell’associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell’area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall’organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l’assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all’improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un’adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell’identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant’è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l’uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l’inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all’interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, ”Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con…, Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l’estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell’omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA’ Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell’informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l’infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l’esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l’impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all’ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l’appartenenza. Si infranse così il mito dell’invincibilità e dell’impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l’aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l’opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL “METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana,  la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell’esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a  Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell’ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il”metodo Falcone”.

Io, uditore nella stanza del dottor FalconeAccompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò – me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo – adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene – ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo – che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione. E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” – quel che colpiva particolarmente – da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso – e le custodisco gelosamente – di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra – quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio “Affidatario”, noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone. (Di Vincenzina Massa – Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell’ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone)


Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie .da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte.un ‘ indagine come tante è all’origine del grande processo che segna l’inizio della fine per i padroni della Sicilia, un giudice come tanti diventa il magistrato più amato e più odiato d’Italia.  Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata , in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo a mettere veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l’uomo che cambia Palermo e l’Italia.  Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi di e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. E’ celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba.  Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi per quello che fa o per quello che non fa. Ci riescono alle 17:56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso la città. A quell’ora, gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di mone Erice registrano un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci. Non è un terremoto . E’ una carica di cinquecento chili di tritolo che fe saltare in  aria GIOVANNI FALCONE. (di  Attilio Bolzoni -Storia di Giovanni Falcone)


QUANDO FALCONE MI DISSE: “CE LA POSSIAMO FARE” – QUELLE PAROLE SEMPRE CON ME  Affettuosamente invitato dagli amici de L’Ora Edizione Straordinaria, torno su questo giornale dopo appena cinquant’anni. Ero uno studente del mitico liceo classico Umberto I di via Filippo Parlatore. E L’Ora per me era un ambiente di famiglia. Negli anni ’50 ci scriveva Beppe Fazio il mio amatissimo zio, quello che a tre anni mi leggeva Pinocchio. Poi lui si trasferì a Roma, a Paese Sera. Ma al giornale rimasero Giuliana Saladino, Marcello Cimino e tutti gli altri che hanno fatto la storia del giornalismo palermitano e non solo. Erano loro, Giuliana in particolare, che seguivano alcuni di noi ragazzini che ogni tanto scrivevamo sulla pagina di L’Ora scuola. Alcuni di quei ragazzini sono poi diventati giornalisti famosi. E ci siamo di nuovo incontrati nella seconda parte della mia vita. Di quell’epoca adolescenziale e di quella redazione mi è rimasta, tra le altre una immagine. Quella di Mauro de Mauro avvolto in una nuvola di fumo nella sua stanza, davanti alla quale capitava di passare e qualche volta anche di fermarsi per un saluto. Giusto perché ero amico di Iunia e conoscevo Franca, le sue figlie. La seconda parte della mia vita comincia alla fine dell’estate del 1985. Quando il presidente del Tribunale Franco Romano, mi convoca e mi dice: “C’è bisogno di un funzionario che cominci ad occuparsi dell’Aula Bunker che si sta costruendo. Ovviamente, dato che tra qualche mese è prevedibile il deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio del Maxiprocesso contro circa settecento indagati, lei farà parte della squadra” Punto. “Se la sente di accettare?” Dalla mia risposta è iniziata la seconda parte della mia vita. Otto novembre 1985. Deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio. I 709 indagati diventano 475 imputati. Abbate Giovanni +474. E io mi trasferisco in una stanza dell’Ufficio Istruzione . E li comincia il mio rapporto con il Dr. Falcone. Ovviamente non diventammo amici, ci davamo rigorosamente del lei, sia con lui che con il dottor Borsellino, con il dott. Guarnotta, con il dott. Di Lello e con quella persona straordinariamente gentile e delicata che era il Consigliere Caponnetto. Non diventammo amici, ma si creò uno strano rapporto di complicità. Tecnicamente io non facevo parte dell’Ufficio istruzione, ero assegnato alla Corte di Assise che avrebbe celebrato il dibattimento a partire dal 10 febbraio 1986. Eppure, forse colpito dall’entusiasmo di quel giovane funzionario, nacque un rapporto affettuoso. Ricordo che in varie occasioni, legate al completamento dei lavori dell’Aula, mi chiamava a partecipare a riunioni con i vertici giudiziari e delle forze dell’ordine. Durante le quali ascoltava tutti, a volte mi chiedeva qualche particolare, poi faceva le sue proposte. Regolarmente accettate. Lui era un semplice giudice istruttore ed io non avevo alcun titolo per partecipare. Ma la sua autorevolezza era di una tale evidenza che nessuno si permetteva di contraddirlo. Ovviamente face to face. Alle spalle il discorso cambiava. Le invidie e le critiche riempivano i corridoi del Palazzo di giustizia. Ma io, tutte le volte che ero con lui e tutte le volte che seguivo le sue indicazioni, anche in epoche successive e fino agli ultimi incontri con lui, al Ministero, pochi giorni prima del 23 maggio 1992, mi sentivo tranquillo. Con la sensazione di una fiducia totale nell’uomo, che andava al di là di un normale rapporto di collaborazione. Il 10 febbraio 1986, nell’astronave verde inizia il processo. All’inizio di gennaio, mentre a Palermo si gioca a tombola e a chemin de fer, si completa l’enorme lavoro di preparazione del dibattimento ed io prendo formalmente in consegna l’Aula Bunker, con una delega del Ministero della Giustizia. Da quel momento il lavoro della Corte d’Assise, presieduta dal dott. Alfonso Giordano, al quale ancora oggi mi lega un rapporto di grande affetto e stima, si avvia tra mille difficoltà. Ma questa è un’altra storia, o meglio, è la storia. Il dibattimento è appena cominciato che viene arrestato Michele Greco. Come ha scritto Piero Melati, i grandi capi non è che proprio si catturano. E non è neppure che proprio si consegnano. Insomma lo arrestano. E lo pongono in isolamento all’Ucciardone. Falcone, che ha in corso la prosecuzione delle istruttorie che porteranno ai processi Maxi-bis e poi Maxi-ter, ha necessità di interrogarlo. Lui da anni, dopo aver subito una aggressione, non va mai in carcere ad interrogare, si fa sempre portare in ufficio i detenuti. Nel caso di Greco, per ovvi motivi di sicurezza, questo non è possibile. Allora organizziamo un interrogatorio in una saletta, collegata con il carcere e con l’Aula, lungo il percorso che i detenuti fanno per assistere alle udienze. Facciamo tradurre Greco nella saletta e attendiamo l’arrivo di Falcone. Che giunge puntualissimo. Da quando è iniziato il processo lui non ha messo piede in aula. Il suo rispetto dei ruoli istituzionali è assoluto. Non vuole che nessuno pensi che una sua presenza possa essere interpretata come una indebita invasione di campo. Come ben ricorda Enzo Signorelli su queste pagine, il giorno dell’apertura del processo non riuscì a fotografarlo. Semplicemente perché non c’era. Poi ricorda di averlo incontrato un giorno, per caso, davanti l’Aula. Era appunto il giorno dell’interrogatorio di Michele Greco. Lo accompagno nella saletta, lui interroga Greco e dopo un po’ esce. Ci rincontriamo davanti alla mia stanza, lo vedo molto carico, si rivolge a me con un modo tutto suo, proprio dei momenti di particolare impegno e mi dice: ”ce la possiamo fare”. Poi ci salutiamo in modo particolarmente caloroso, cosa per lui abbastanza inconsueta. Bene, quella frase ed il tono con il quale la disse, me la porto dentro. E mi ha sorretto in molte occasioni difficili dopo quel giorno. Molte altre volte ci incontrammo durante il processo, ma sempre nel suo ufficio nel bunkerino. Che dopo tanti anni è ritornato a vivere grazie all’ANM, al lavoro quotidiano ed instancabile di Giovanni Paparcuri ed anche alla mia pervicace voglia di salvare alcuni computer con i quali si era avviata la informatizzazione del processo. Che dovevano essere rottamati e che io nascosi alle procedure ordinarie. Insieme ad una poltrona che Falcone aveva utilizzato in un periodo particolarmente rischioso, durante il quale aveva dovuto trasferirsi all’interno di una caserma della polizia. Una fissazione la mia. Conservare cose inutili e obsolete. Come l’affetto e la stima smisurata per una persona che molti non amavano affatto. Come ebbe a ricordare in lacrime, il 26 maggio 1992, in un’aula del Palazzo di giustizia di Milano, la dottoressa Ilda Boccassini. Alla quale si può rimproverare l’irruenza, ma non la mancanza di sincerità e di amicizia vera per Giovanni Falcone. Era già cominciata la corsa degli amici del giorno dopo. Del giorno dopo quel 23 maggio 1992, quando cinquecento chili di tritolo, nitrato di ammonio e RDX fecero saltare in aria un pezzo di autostrada. Ore 17.59 l’Attentatuni. Pochi minuti dopo, dal posto di polizia dell’Aula Bunker, che ancora dirigevo, come ho fatto fino al 30 giugno 2018, mi arriva una telefonata. Sulle radio di servizio hanno sentito dell’attentato. Intanto anche la televisione interrompe i programmi e dà la notizia. Mi dicono che sono feriti, lui e la dottoressa Morvillo. Mi precipito al pronto soccorso dell’Ospedale Civico. Un delirio. Molti magistrati della procura, colleghi. La notizia più tremenda è quella sui ragazzi della prima macchina della scorta, investita in pieno dall’esplosione. Non hanno il coraggio di fare vedere i poveri resti ai parenti disperati. Falcone è appena deceduto. Lo portano nella camera mortuaria. Non so come, ad un certo punto mi trovo insieme a Paolo Borsellino, noi due soli, per alcuni minuti davanti al cadavere dell’uomo che per molti di noi è stato un punto di riferimento. È sereno, ha solo una ecchimosi e una ferita sul volto. Quei momenti non si cancellano più. Neanche l’indomani, quando al palazzo di giustizia, alla camera ardente, comincia la sfilata di amici e non amici. Ma la frase che mi aveva detto il 21 febbraio 1986 in Aula Bunker: “ce la possiamo fare” è sempre vera. Ed io la risento quando guardo tutti quei ragazzi che ogni anno scendono dalla nave e vengono in Aula Bunker, a piazza Magione, a Capaci, al corteo, all’Albero. E l’ho risentita anche quest’anno, quando per la prima volta dopo tanti anni, il 23 maggio non è stato un giorno di fatica, di notti insonni, anche di arrabbiature per certe facce e certi discorsi. E non me ne frega niente delle puntuali polemiche e dei puntuali scoop, che accerchiano sempre quel giorno di dolore. Quest’anno il silenzio. Che consente ed autorizza a riflettere. Ed ho pensato. Ho pensato a lungo. Finalmente me lo posso permettere. E sono andato all’Albero alle 17,59. E quelli che c’erano, erano amici, gente qualunque, qualche scampolo di Autorità, ma proprio lo stretto necessario. Non ci siamo affollati, abbiamo rispettato le regole. Abbiamo respirato. Senza schemi. Ce la possiamo fare Dottor Giovanni Falcone. Ormai sono vecchio, ma ce la possiamo fare. di VINCENZO MINEO  Direttore dell’Aula Bunker