Giustizia riparativa

Gli ex brigatisti che rapirono Moro, Bonisoli e Faranda, si confrontano con i famigliari delle vittime degli Anni di Piombo in un percorso umano fatto di dialoghi e ascolto, oltre la legge e le sentenze nella terza edizione di ”Vivere e non Sopravvivere”

La conduzione dell’incontro, fondato quest’anno su ”la storia, il linguaggio, la parola e l’ascolto”, è stata affidata al noto giornalista e saggista Gad Lerner.

A spiegare meglio di cosa si tratta agli ottocento presenti, tra studenti delle scuole superiori e cittadini, sono intervenuti ospiti di assoluto rilievo: Agnese Moro, figlia dello statista Aldo ucciso dalle Brigate Rosse nel ’78, Giorgio Bazzega, figlio del poliziotto Sergio ucciso dal brigatista Walter Alasia nel ’76 a Sesto San Giovanni, Manlio Milani, marito di Livia morta nella strage di Piazza della Loggia a Brescia nel ’74, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso dalla mafia nel ’92.  Hanno poi incontrato e ascoltato Franco Bonisoli, ex brigatista componente del comitato esecutivo delle Br e Adriana Faranda, membro della colonna Romana delle Br. Parteciparono entrambi al sequestro di Aldo Moro.


Cos’è la giustizia riparativa

”Si tratta di riflettere sulle vittime, su ciò che è stato, chi è stato a farlo, che non è mai troppo scontato. La realtà circostante va capita, affrontata e compresa” ha esordito Alessandro Tassi-Carboni, presidente del Consiglio Comunale e rappresentante anche per la Provincia di Parma.

”Il tema della giustizia riparativa su cui si fonda il progetto – spiega Massimiliano Ravanetti, Filctem Cgil Parma – offre la possibilità, soprattutto ai giovani, di conoscere e capire, attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti, una modalità di approccio ai conflitti, fatta di dialogo e  avvicinamento. L’incontro e l’ascolto come strumenti per provare a curare le proprie ferite”.

”E’ un’iniziativa  fondamentale nella lotta all’oblio di questo tempo per dimostrare  come la conoscenza possa spezzare la catena d’odio, all’interno di percorsi di violenza e sofferenza, spesso difficili da affrontare anche dopo molti anni”, si inserisce Manlio Maggio, presidente Rinascimento 2.0.

Lisa Gattini, segretaria generale Cgil Parma, ha puntualizzato infatti che non si tratta di un evento volto a lasciare  spazio a giudizi o sentenze, ma a mettere l’accento sull’importanza del dialogo, del confronto, della parola. Le parole hanno una valenza fondamentale, fanno la differenza anche durante i conflitti: costruiscono la realtà e fanno cadere le maschere che ci nascondono.

C’è ancora speranza?

L’ascolto delle vittime e degli esecutori dei crimini, che hanno intrapreso un percorso di avvicinamento per provare a vivere e non sopravvivere appunto, con grande senso di responsabilità, senza cedere a falsi buonismi e senza fare sconti a nessuno, parte sempre  dalla consapevolezza di quanto il linguaggio possa essere un mezzo, un diversivo per disattivare la violenza.

Ecco come le complesse e delicate storie personali dei protagonisti dell’incontro assumono una valenza collettiva: comunicare per veicolare un messaggio di non odio, bensì di riparazione, speranza, o comunque un libero confronto a cuore aperto tra diverse posizioni. E’ qualcosa di prezioso e potente allo stesso tempo.

L’incontro ha voluto puntare l’attenzione sui protagonisti degli anni di Piombo, ovvero gli anni Settanta.

Anni difficili, ”affollati’, segnati da una parte da un florida crescita sociale, culturale e politica. Fu approvata la Legge Basaglia che vide la chiusura immediata di tutti i manicomi, il diritto al voto ai diciottenni, fu modificata la normativa sul delitto d’onore, giusto per citare qualche esempio.

Ma furono anche anni devastanti, dominati dall’uso massiccio della violenza come arma politica, ad opera del terrorismo nero e rosso, per dimostrare l’incapacità della democrazia a governare l’ordine pubblico e l’esigenza di preparare la strada ad un regime ”autoritario”. Stragi, omicidi (anche di poliziotti e magistrati), rapimenti, bombe piazzate nelle stazioni, sui treni e nella piazze, erano all’ordine del giorno.

Sono eventi senza dubbio traumatici, difficili ancora oggi da affrontare, ma che possono essere elaborati e ”compresi” anche partendo dalle vicende private, per arrivare a guardare cosa è rimasto di quei fatti atroci e dei loro responsabili, partendo come sempre dalla parola e dall’ascolto.

Ed è proprio quello che fa la giustizia riparativa o restaurativa: apre spazi nuovi  e agisce prima dello stesso processo. Si considera il reato principalmente in termini di danno alle persone. Da ciò ne deriva per l’autore un ripensamento critico a ciò che ha compiuto e perchè. Il processo tradizionale infatti normalmente non risponde a queste domande, si limita a attribuire gli anni di pena relativi all’illecito commesso.

Un incontro apparentemente contradditorio, un momento ad altissima carica emotiva, ma in realtà tutte e due le parti  accomunate dallo stesso desiderio di  capire quello che è successo, di costruire ponti e non muri, escludere la violenza e contemplare percorsi di crescita personale. Offrire conforto e confronto.

La prima questione sollevata da Lerner riguarda il tema della cura della sofferenza: qual è la reazione giusta?

La figlia di Moro esordisce affermando che vedere ”marcire” in carcere il colpevole e ”buttare” la chiave è sicuramente un pensiero tanto diffuso quanto consolatorio. Ma a lei non stava bene: il problema della perdita irreparabile rimane, la sofferenza altrui non attenuava la sua. “E’ un dolore disgustoso, che crea odio, rancore, rabbia e sensi di colpa”. Sentimenti condivisi anche dagli altri famigliari delle vittime.

Il fatto però di aver guardato in faccia il mostro e di veder riconosciuto e accolto il suo dolore, ha attenuato la sua rabbia, commenta poi Bazzega. Più il tempo passava, più le ferite si laceravano e più cresceva in loro il desiderio profondo di incontrare i carnefici dei loro cari per il bisogno di capire, e la vera domanda è diventata ”Come hai potuto? Umanamente, oltre la legge e le condanne”. Le parole e l’ascolto come tramite tra le persone, per risanare anche soltanto una piccola parte di quella ferita così profonda.

Il primo ad incontrare la figlia di Moro è stato Franco Bonisoli (ex brigatista), il quale si è sentito veramente ascoltato, come mai prima. Un ascolto che non vuole giustificare, ma per lo meno provare a capire. In fin dei conti, le stesse domande se le ponevano anche gli stessi terroristi: come si può odiare tanto una persona al punto di toglierle la vita?

L’ex brigatista Adriana Faranda afferma che per arrivare alla coercizione c’è un percorso culturale e preparatorio, freddamente calcolato. La violenza era un mezzo che usavano tutti quanti, per cui si sentiva ”autorizzata” ad abusarne anche lei. Tutto ciò si traduce, di conseguenza, in una necessità della violenza, un mezzo per migliorare la società. Ma la violenza porta solo altra violenza.

Anche Fiammetta Borsellino non si è data per vinta e ha lottato per chiedere un incontro con i mafiosi che uccisero il magistrato nella strage di via D’Amelio. Un percorso tortuoso, pieno di ostacoli e di depistaggi. Non è mai andata con rabbia o sentimenti negativi, perchè, come dichiara, è per colpa di queste persone che si entra nella spirale dell’odio e della violenza. Bisogna solo essere aperti ad un dialogo civile e responsabile e abbandonare per un attimo la legge, le pene e tutto ciò che ne concerne.

Stesse difficoltà provate anche da Manlio Milani, il quale ribadisce la necessità di aprirsi al dialogo, perchè ”non ascoltare significa tenersi dentro tutti i  mostri e fantasmi che inevitabilmente ci rovinano la vita”.

Molti hanno criticato questi incontri, pensando che chi abbia ucciso non abbia diritto di parola. In realtà questo permette di creare una nuova umanità, rigenerata, che filtrerebbe la violenza diffusa: non si considerano vittime solo quelle effettive, ma anche i loro stessi aguzzini.

Quest’ultimi, infatti, ammettendo le loro responsabilità e colpe, dimostrano ulteriormente la loro volontà a fare i conti con la propria coscienza, a provare a fare qualcosa in più che accettare una mera sentenza.

 

di Serena Squarcia 23.11.2021