Io sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità.
In particolare nell’ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l’unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia.
Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire.
Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore – i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza.
Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell’esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata.
La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale.
La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena.
Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi.
Questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni.
La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative.
Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari.
Questa è l’accusa che da più parti viene fatta alla “partitocrazia”, a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata.
L’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari.
Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno delle organizzazioni dello Stato.
Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni.
La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l’accesso all’interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa.
27 marzo 1992 a Palazzo Trinacria, a Palermo, in occasione della tavola rotonda su “Criminalità, politica e giustizia”. da ANTIMAFIA DUEMILA
IL POTERE, LO STATO NON HA MAI VOLUTO COMBATTERE SERIAMENTE LA MAFIA Sono anche presidente della sezione di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati, la quale ha da tempo sollecitato un ampio dibattito parlamentare sui problemi della giustizia. E mi sembra che l’ultima volta che questa esigenza fu prospettata al Ministro della Giustizia e al Presidente del Consiglio dei ministri la risposta sembrò essere che la Camera era troppo intasata da altri lavori. E allora, anche se sotto il patrocinio di un gruppo parlamentare può svolgersi un interessante dibattito del genere con l’intervento, oltre che dei parlamentari, di chi può dare un modesto contributo, come me, è un fatto comunque auspicabile, è un fatto comunque di cui ringraziare gli organizzatori di questo convegno. Il cui titolo: “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?” comporta risposte estremamente semplici perché che non si sia arresa la criminalità lo vediamo ogni giorno su tutti i giornali, sia sotto il profilo dei gravi attentati all’ordine pubblico, che avvengono sulle nostre strade, meridionali, soprattutto, e non, sia sotto il profilo dell’ordine istituzionale. Perché delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni, soprattutto locali di Sicilia e Calabria, sono stati pieni i giornali, addirittura in occasione delle ultime elezioni amministrative. Ma erano state denunciate anche, tempo fa, addirittura dal presidente della regione siciliana il quale parlava di indebite pressioni per condizionare gli esecutivi delle Usl e dell’Ente locale comunale.
Verrebbe ironicamente da dire che non si arrende neanche lo Stato perché forse per arrendersi occorre aver prima seriamente tentato di combattere. E su questo, sebbene probabilmente non si possa affermare che non si sia mai combattuto, dobbiamo dire qualcosa anche sui termini di questa lotta tra virgolette, come diceva il collega Alibrante. Io ho esperienze […][nel campo] della criminalità organizzata di tipo mafioso e simili, Camorra, ‘ndrangheta, […] ma diverso, ad esempio, potrebbe essere il discorso in materia di criminalità terroristica dalla quale probabilmente il potere si sentì attaccato e [quindi] reagì in modo molto migliore.
Perché abbiamo tutti la sensazione, possiamo essere polemici quanto vogliamo, ma in materia di criminalità terroristica mi sembra che i discorsi siano più rosei. E quando mi riferisco al potere, tanto per intenderci, […][vorrei citare] un articolo dell’agosto ’88 dell’avvocato Tarantino, che poco fa ho visto ma che ora purtroppo forse si è allontanato. […]
Questo articolo fu […][scritto] in occasione di una violenta polemica esplosa per una mia improvvida intervista del luglio ’88, e l’avvocato Tarantino scriveva sul Secolo d’Italia, il 17 agosto ’88: “E allora un imbroglione c’è, sta a Roma in un palazzo nel centro e lo chiamano potere. Ma è solo un vecchio ipocrita, un cinico mercante, se ne frega dei siciliani onesti, dei figli e dei nipoti. Le occasioni non mancano e a promettere che il nemico non passerà. Un solo dubbio: chi è il nemico, chi loro amico?” Orbene, che questo potere non abbia mai, non dico avute serie intenzioni, ma non ha avuto probabilmente mai intenzioni profonde di combattere la criminalità mafiosa, lo dicono le esperienze di quella prima commissione antimafia che tanto opportunamente, poco fa, è stata richiamata dall’on. Franchi.
Perché a leggersi quei volumi della prima commissione antimafia, che operò fino all’inizio degli anni ’70, a leggersi quei volumi – per chi ha avuto la pazienza di leggerli -, ma era una lettura estremamente interessante, si trova tutto.
Quando nel 1984 Buscetta andò a raccontare ai giudici di Palermo l’esistenza di un’organizzazione verticistica che si chiamava mafia, composta da “famiglie” con determinate caratteristiche, con determinati riti addirittura, quando Buscetta si fermò sulla soglia dei rapporti tra la mafia e il mondo politico, le indagini di quella commissione antimafia non si fermarono. Perché quelle erano una serie di conoscenze che individuavano perfettamente quali erano le caratteristiche del fenomeno. E che cosa avvenne? Mi sembra che sia stato detto che è restato tutto nei cassetti.
Il potere non prese quelle iniziative che l’aver accertato l’esistenza di una situazione così pericolosa doveva comportare. E non solo non le prese, ma quelle stesse conoscenze che erano state così tanto lodevolmente acquisite dalla prima commissione antimafia si dispersero totalmente, a livello di conoscenze comuni, di conoscenze culturali degli operatori del settore. Tant’è che, quando sorse la stagione delle grandi indagini del pentitismo, sembravano conoscenze nuove. Ma […][leggendo] gli atti della prima commissione antimafia [ci si accorgeva che] nuove non erano. Non fu cioè utilizzato questo sforzo di conoscenza che fece il Parlamento; e poi chi ne aveva il dovere, chi muoveva le leve politiche, statuali di allora non utilizzò quelle conoscenze perché si intervenisse nel modo in cui si doveva intervenire, poi accennerò brevemente. E dopo ci fu un periodo di dieci lunghi anni di silenzio. Ma per […][farvi immaginare] di che silenzio si tratta io vi posso soltanto citare di quanto poco fosse sensibilizzata la stessa opinione pubblica a reagire a questo fenomeno impressionante che già la prima commissione antimafia aveva evidenziato.
Per dirvi di che silenzio si tratti e come coinvolgeva addirittura gli operatori privilegiati del settore, cioè anche i magistrati, io vi cito la mia esperienza all’ufficio istruzione di Palermo, iniziata nel 1975, finita poi nel 1986. Dal 1975 al 1980 in quell’ufficio istruzione, nel centro principale della mafia, nella capitale della mafia – qualcuno non lo vuol sentir dire, io la penso così – in quell’Ufficio istruzione, in quei cinque anni, non si fece nessun processo di mafia. Nessuno. E quando nel 1980 fu fatta la prima grossa inchiesta, quella condotta dal collega Falcone, il cosiddetto processo Spatola-Inzerillo si dice, io non ne ho le prove, ma si è detto abbondantemente che una delegazione di avvocati si recò dal Consiglio istruttore, o da qualche altro, dicendo: “ma non c’era l’accordo che processi per associazioni per delinquere non se ne facessero più?” Credo che sia scritto nei diari di Chinnici, qualcosa del genere.
Vi furono cioè dieci anni di assoluta insensibilità e per la mafia questi dieci anni che cosa rappresentarono? Per la mafia questi dieci anni rappresentarono il passaggio dalla dimensione meramente parassitaria a una dimensione imprenditoriale in cui essa diventò produttrice, tra virgolette, di ricchezza. Nel senso che creò i grandi capitali mafiosi e l’enorme pericolo che questi capitali mafiosi rappresentano, perché danno un’enorme forza, un enorme potere di contrattazione alla mafia e quando vengono utilizzati nelle attività paralecite tendono a danneggiare l’economia.
Purtroppo questa è una materia che io conosco poco ma mi sembra chiaro che quando si presenti sul libero mercato un’impresa che ottiene capitali facilmente e facilmente li spende, li paga poco o nulla, questa tende naturalmente a marginalizzare l’impresa che invece deve ricorrere ai sistemi normali di mercato per procurarsi il relativo denaro. La mafia quindi, in questi dieci anni di silenzio, diventò potentissima. Subentrò poi, all’inizio del 1980 una breve stagione di profonda attenzione alla criminalità mafiosa. E viene da domandarsi: allora all’inizio del 1980 quel potere si era svegliato, lo stato era intervenuto, aveva deciso, aveva capito [che era necessario] mettere in essere quegli strumenti, quelle conoscenze che avevamo sulla mafia, acquisite tanto lodevolmente dalla prima commissione antimafia, che era ormai [giunto] il momento di partire all’attacco di questo problema e di risolverlo. [E invece no], non è stata una decisione riferibile al potere.
Non è che lo stato nella sua globalità avesse deciso, a un certo punto, di intervenire nei confronti di questo gravissimo fenomeno il quale, per crisi interne, era diventato un gravissimo problema anche di ordine pubblico. A Palermo e in altre città siciliane. No, non è lo stato. Perché tutti sanno che l’inizio delle indagini antimafia di questo decennio, anzi del decennio trascorso perché siamo nel novanta, non fu la risultanza di una decisione dello stato inteso nella sua globalità, del potere, tanto per intenderci, di coloro che muovono le leve dello stato.
Quello strumento attraverso il quale furono condotte le più importanti indagini antimafia, tanto per intenderci il pool antimafia, nacque per germinazione spontanea, nacque per iniziative successive di Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, per l’estremo impegno del collega Falcone e di alcuni che gli stemmo accanto, ma nacque sostanzialmente non perché a un certo punto lo stato disse: “bisogna fare queste indagini che non sono state fatte nei dieci anni precedenti e quindi organizziamo un ufficio giudiziario in modo che queste indagini si possa farle, compriamo una macchina da scrivere o una fotocopiatrice che non c’è, compriamo una macchina che non hanno tanto che comincino a lavorare”. No! Nacque per germinazione spontanea utilizzando i pochissimi mezzi a disposizione, ritagliandosi uno spazio all’interno di uffici giudiziari decrepiti e sclerotici e operò per qualche anno attraverso strumenti dolorosissimi quale quello del maxiprocesso.
Dico dolorosissimi perché mi rendo perfettamente conto anche dei danni del maxiprocesso. Fu uno strumento dolorosissimo perché per ripigliare le fila di dieci anni di assenza di indagini occorse creare questo strumento che non era un modello di strumento, non era dovuto a una scelta, era dovuto a una grossa necessità di ripigliare le fila di questa situazione. Nacque con l’intento di essere l’ultimo, di non porsi affatto come modello processuale ma pur necessario.
Fu inventato perché in realtà lo stato, e quando parlo di stato intendo sempre dire lo stato nella sua globalità, nella sua possibilità di interventi, non interveniva e allora bisognò inventare artigianalmente qualcosa. E quando questo cominciò a dare i suoi frutti, perché i pentiti vennero dopo questo impegno, perché i pentiti se non vedono l’impegno dall’altra parte delle barricate non parlano, i pentiti parlano soltanto quando ritengono che ci sia qualcuno che li ascolti, e […] che ci sia qualcuno […] in grado di ascoltarli per saper discernere il grano dall’olio, ma, [dicevo], vennero dopo la creazione di questi strumenti nati per germinazione spontanea. E allora non appena i primi successi tra virgolette, non si tratta di successi, i primi risultati giudiziari si cominciarono a ottenere ci fu un momento in cui lo stato ritenne di impegnarsi pesantemente.
Il presidente Giordano fu il protagonista di quella fase, non mi riferisco tanto al protagonista del processo, ma perché ricorderà che in quel momento, per esempio, si riuscì a realizzare a Palermo qualcosa che poi soltanto i mondiali hanno consentito: ad esempio un’aula bunker abbastanza sofisticata – […] non si era mai visto a Palermo costruire qualcosa così velocemente, le costruzioni in genere si iniziano e non si finiscono più – arrivarono poliziotti da tutti i lati, arrivarono mezzi, non sapevamo più dove metterli, noi giudici istruttori avevamo tante di quelle macchine da poterci permettere di cambiarne due al giorno, le fotocopiatrici, le macchine da scrivere che non c’erano mai state si contavano, i computer, addirittura, arrivarono addirittura i computer. Però a che prezzo? Contemporaneamente cominciò a montare una delega inammissibile. Cioè fu fatto sostanzialmente credere all’opinione pubblica che in quell’aula di maxiprocesso si processava la mafia e si doveva decretare in pubblico dibattimento la fine della mafia. Sostanzialmente fu affidata alla magistratura e alle forze di polizia una delega che la magistratura e le forze di polizia, con queste modalità, non avevano nessun diritto né nessun dovere di accettare. Perché in realtà la lotta alla mafia non era quella.
Quello era un processo, importante quanto si vuole ma era un processo dove si doveva cercare, e fu fatto egregiamente, di valutare la posizione processuale di imputati, non di mafiosi, perché mafiosi si diventa almeno ufficialmente dopo la condanna. Valutare la posizione di imputati, condannarli se colpevoli, assolverli se innocenti.
Non si processava la mafia in quel processo, come sostanzialmente si tentò di far credere ma non da parte dei magistrati, perché magistrati e forze di polizia posero l’accento sin da allora sul fatto che questa delega fosse inammissibile; la lotta alla mafia non era un fatto privato fra magistrati e mafiosi o fra polizia e mafiosi, la mafia bisognava affrontarla soprattutto affrontando le radici socioeconomiche che la generano. Perché altrimenti, accertata l’esistenza di cento mafiosi colpevoli e condannati cento mafiosi colpevoli ne riemergono altri duecento, perché è il sistema perverso che genera il perpetuarsi del fenomeno mafioso. Perché la mafia è qualcosa di diverso dalla banda Vallanzasca o dalla banda Epaminonda. Perché per la banda Vallanzasca si fanno le indagini, si scopre Vallanzasca, si arresta Vallanzasca ed è finita la banda Vallanzasca. E lo stesso vale anche per Epaminonda, anche se Epaminonda aveva qualche contatto con le menti mafiose.
Ma la mafia è qualcosa di più. La mafia è una istituzione alternativa che opera sul territorio ponendosi in alternativa allo stato, non lottando con lo stato andando all’assalto dei palazzi comunali o dei palazzi delle regioni, ma cercando di conquistarli dall’interno con il sistema della collusione, della corruzione, della contiguità. Esiste perché ha consenso, perché dove lo stato è debole o non si sa presentare con la forza imparziale delle leggi, il consenso non va allo stato, va a qualcuno che risolve i problemi o che può risolvere i problemi in modo alternativo allo stato. Perché la forza della mafia si basa soprattutto su questo. La forza della mafia si basa sulla capacità di offrire o di apparire offerente di servigi che lo stato non riesce a dare. E basta pensare, e ogni siciliano lo sa, alla giustizia, la mafia appresta anche il servizio di giustizia. Perché qualsiasi siciliano sa che è inutile ricorrere ad un tribunale per riscuotere una cambiale non pagata, perché la causa si vincerà fra dieci anni. Ma il don Tano, il don Peppe, ora non si chiama più don, comunque il capo mafioso a cui ci si rivolge, te la fa recuperare in 24 ore. Il servizio lavoro, la mafia riesce a trovare lavoro e lo stato invece non riesce a fare i concorsi e il servizio d’ordine pubblico, anche la mafia lo fa. Si dice in Sicilia, si dice spesso che quando i capi, i grossi capi mafiosi sono in galera la piccola criminalità dilaga e da fastidio. Perché la signora la sera deve rientrare a casa con la pelliccia e non può essere messa in balia dei piccoli rapinatori. Solo che la mafia questi servigi li offre a somma algebrica zero. Cioè fa una giustizia ma deve contemporaneamente fare un’ingiustizia, da un lavoro a uno ma lo deve necessariamente togliere a un altro. Non li assicura cioè in modo imparziale.
Sono queste forme apparenti di assicurare quelle che sono le principali funzioni dello stato quelle su cui la mafia attira consenso. E sono quelle che però creano questo humus fertile per la mafia e la prova si ha, non sto parlando di cose antiche, la prova si ha a Palermo quando si inalberano i cartelli [recanti le scritte] viva la mafia, viva Ciancimino in occasione di manifestazioni di operai licenziati da non so quale [impresa]. E’ avvenuto anche recentemente. E non è [un atto] provocatorio, come ha detto qualche giornale. Quelli dicevano: viva la mafia, viva Ciancimino perché volevano dire viva la mafia, viva Ciancimino. Perché la mafia si regge soprattutto su questo. La droga è un incidente della mafia, la mafia è un’altra cosa, la mafia si sta occupando di droga, è potente anche la droga ma la mafia è un’altra cosa.
E’ un’istituzione alternativa allo stato che ha per avventura, anzi è, perché i costituzionalisti ci insegnano che il territorio è parte essenziale dello stato e non è il possesso dello stato, la mafia è un territorio. La famiglia mafiosa è un’istituzione che è un territorio o agisce su un territorio in alternativa con l’istituzione pubblica che per avventura agisce sullo stesso territorio. E allora lo scontro come avviene? Non avviene scontro, la mafia risolve i suoi problemi di rapporto con l’istituzione legittima quale è lo stato cercando di condizionarla dall’interno. Ecco il perché del fatto che il rapporto mafia e politica è un rapporto essenziale. La mafia ha bisogno di questo rapporto, ha bisogno di condizionare i politici, cioè coloro che vanno a occupare le istituzioni. E dico occupare a ragion veduta perché fino a quando dureranno questi sistemi di spartizione, lottizzazione di ogni cosa, di enti locali prima di tutto, la mafia avrà il normale veicolo per inserirsi. Sino a quando non si proverà una riforma istituzionale seria e radicale degli enti locali la mafia avrà la strada aperta per inserirsi all’interno di questi enti locali, addirittura con suoi esponenti (in Campania e in Calabria succede). Esponenti mafiosi che in un paese si erano divisi i partiti: uno democristiano, uno comunista, uno socialista, non so se uno missino non voglio offendere nessuno… ognuno di una famiglia, ci stavano tutti. E si erano inseriti personalmente nelle associazioni o hanno mandato propri uomini – caso Ciancimino ad esempio, almeno secondo l’accusa – nelle istituzioni.
Oppure le hanno condizionate attraverso le collusioni e le concussioni che trovano terreno fertile in un sistema partitico come quello attuale in cui i partiti, o gli uomini di partito, non è che ritengono di andare a servire le istituzioni ma ritengono, in qualsiasi campo, di andare a occupare le istituzioni.
Una volta che le vanno a occupare [queste diventano] di loro proprietà, diventano i normali veicoli di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni.
Quindi il problema della lotta alla mafia non è che sia un problema prevalentemente giudiziario, o repressivo, o preventivo dal punto di vista giudiziario. Il problema della lotta alla mafia è un problema istituzionale, è un problema socioeconomico. [Necessitiamo] di interventi istituzionali, di interventi socioeconomici che impediscano le ragioni per cui la mafia ha linea nel territorio. E in questa materia che cosa è stato fatto? Non debbo dire nulla, ma debbo dire sicuramente poco. Su questo siamo tutti d’accordo a qualsiasi partito, a qualsiasi ideologia si appartenga.
Però lo stato, oltre ad aver fatto poco o nulla con riferimento a questo tipo di interventi non giudiziari, né polizieschi, bensì […] socioeconomici e istituzionali per debellare le vere radici della mafia, dall’epoca della celebrazione del maxiprocesso in poi cominciò a fare ben poco con riferimento all’aiuto concreto che si dava ai magistrati e alle istituzioni per combattere la mafia. O comunque per affrontare il problema della mafia sotto il profilo repressivo, poliziesco. Perché da quel momento, dal 1986/87 l’impegno, anche sotto questo limitatissimo profilo, che è quello giudiziario – perché io sono convinto che si tratti di un intervento limitatissimo perché il più importante è l’altro – cominciò a scemare. Già nel 1986, ricordo che io ne parlai per la prima volta in occasione del primo anniversario dell’uccisione di Ninni Cassarà – nella sala del Consiglio comunale di Palermo fu fatta la commemorazione – e per la prima volta dovetti affrontare il tema della normalizzazione, che io chiamai smobilitazione […][dal momento] che si stava squagliando già tutto.
Poi, nel 1988, scoppiò la crisi del pool antimafia che, nonostante le apparenze del documento votato dal Consiglio superiore della magistratura nel settembre di quell’anno, in realtà si è concluso nella smobilitazione anche del pool antimafia.
Che era stata l’unica struttura seria creata dalla base e non dal vertice, dal potere. [Perché non fu il potere] che lo volle, bensì coloro che ne fecero parte. […] fu smontato anche quello. In occasione delle polemiche aspre sorte a seguito della mia intervista del luglio ’88 circa la smobilitazione del pool antimafia, il ministro Vassalli intervenne, con un articolo se non piglio errore su Epoca e disse: “beh, tutta questa polemica riconduciamola nei temi istituzionali, probabilmente occorre una legge che regoli il lavoro di équipe, cioè i pool antimafia”. Poi ha fatto il codice ed era l’occasione migliore per inserire in questo codice di procedura penale una regolamentazione dei pool antimafia. Troviamo invece quell’articolo, che non ricordo perché io con i numeri ho scarsa dimestichezza, quell’articolo che è stato citato non so da chi a proposito del coordinamento, e l’altro giorno, in occasione di una audizione della commissione antimafia a cui ho partecipato assieme a quasi tutti i procuratori della repubblica e ai procuratori generali d’Italia, eravamo tutti d’accordo [nel dire] che è inutile fare questa norma sul coordinamento visto e considerato che esso è basato soltanto sull’adesione volontaria dei singoli partecipanti. E io citai il caso di avere invaso l’Italia di talune dichiarazioni importanti che riguardavano fatti avvenuti in Sicilia, a Milano, a Roma ecc. dicendo a tutti i miei corrispondenti Procuratori della repubblica: “visto che abbiamo una fonte comune prendiamo contatti, coordiniamoci per gestirla per evitare che ognuno faccia danno agli altri”. Mi rispose solo […] il Procuratore della repubblica di Reggio Calabria che non era il destinatario dei verbali contenenti i fatti più importanti. E in quella riunione si venne alla triste considerazione che questo coordinamento non è niente.
Perché è inutile che una norma dica che i pubblici ministeri si devono coordinare tra loro, e se non si voglio coordinare? O se uno di loro non si vuole coordinare l’altro che strumenti ha? Nessuno. Non esistono strumenti per costringere a coordinarsi. Ed è una cosa importante perché, sempre per tornare al fatto dei pentiti, se io ho un pentito che mi dice fatti che riguardano me, fatti che riguardano altri, faccio i dovuti riscontri, faccio le dovute indagini, poi a un certo punto scopro la fonte perché chiedo i provvedimenti cautelari. Faccio quella che ormai si chiama, con termine americano, discovery.
Ma se non sono coordinato con l’altro a cui vengono gli atti gli posso far danno perché può essere che lui è più avanti o è più indietro di me e ha necessità ancora alla segretazione.
Dico solo per questo. Anche per queste cose [è necessario il coordinamento], non solo per dirigere indagini assieme ma anche per evitare gravi danni a queste indagini. Il codice di procedura penale non contiene niente di tutto questo. […] L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ben poco se non niente, almeno per ora, ha ottenuto e lo sapete che significa che non ha ottenuto niente?
Che in Italia viviamo in un periodo che rasenta l’assenza non della giustizia ma della giurisdizione. Perché? Perché non basta il momento normativo perché si cominci a operare con il nuovo codice, al cui tessuto normativo mi riservo, se ho tempo, di fare pochissime critiche. Occorre che il nuovo codice entri in vigore allorché vi siano le strutture adeguate per farlo funzionare, e le strutture non erano adeguate nemmeno a fare funzionare il vecchio. Figuriamoci il nuovo. Che per altro si è rivelato, nonostante le dichiarazioni di principio, si sta rivelando nella pratica estremamente formalistico con riferimento proprio a quella parte delle indagini, cioè quelle di parte del pubblico ministero che dovevano invece essere le più snelle e le più veloci possibili e invece sono infarcite di adempimenti. L’altro giorno facevamo i conti con il gip di Marsala [e siamo arrivati alla conclusione] che per far trascrivere una brevissima intercettazione telefonica avevamo bisogno di tre o quattro mesi, o qualcosa del genere.
Per una serie di adempimenti. E’ bene che il legislatore tenga presente questo fatto e sollevi il pubblico ministero soprattutto da questo tipo di adempimenti minuti che prevede il codice. Perché sono veramente per la maggior parte inutili, non sono garantisti, non assicurano nessuna difesa a nessuno, servono soltanto perché l’esasperato formalismo, forse degli italiani, tende a complicare necessariamente le cose.
Ma la cosa più grave è quella di carattere generale. Lasciamo stare il codice, probabilmente è uno dei migliori codici che siamo mai venuti fuori nella storia del mondo, ma chi lo sta attuando? Ebbene siccome io, come poco fa accennai, sono procuratore della repubblica non di Trapani ma di Marsala, e questo ha la sua importanza perché Marsala – lo prendo come esempio non perché voglio tirare acqua comunque al mio mulino – pur essendo un circondario più grosso di quello di Trapani che ha più abitanti e ha soprattutto la maledetta zona del Belice – con grossissima presenza mafiosa – […] ha dovuto subire quella che è la conseguenza di una legge, entrata in vigore assieme al nuovo codice di procedura penale, che è la modifica dell’ordinamento giudiziario il quale, pochi sanno, ha diviso l’Italia in tribunali di serie A e tribunali di serie B. Nel senso che non essendoci magistrati a sufficienza per istituire il nuovo organo di procuratore della repubblica presso le preture, nei tribunali di serie B, cioè quelli non capoluoghi di provincia, senza tenere conto se si trattava di tribunali piccoli, tribunali grossi, tribunali impegnati nella lotta alla criminalità organizzata oppure no, il Procuratore della repubblica presso il tribunale, cioè io nella fattispecie ma anche il collega di Termini Imerese, anche il collega di Locri e di Palmi, con la criminalità agguerrita che esiste in quelle zone, assomma in se provvisoriamente, e tutti sappiamo che in Italia non c’è nulla di più definitivo che il provvisorio, anche le funzioni di Procuratore della repubblica presso la pretura. E allora da un giorno all’altro, in questi tribunali di Locri, di Palmi, di Termini Imerese consentitemi anche di Marsala, un ufficio che deve interessarsi mediamente di un omicidio alla settimana, perché questa è per difetto la media, uffici che debbono dirigere le indagini riguardanti associazioni criminose estremamente agguerrite vengono immediatamente travolti da una massa di assegni a vuoto, illecite edilizie, contravvenzioni per il 650 del codice penale, guida senza patente, e chi più ne ha più ne metta.
I numeri: un tribunale come il mio, che trattava una media di 4.000 procedimenti l’anno, di colpo ne tratta 40.000 senza avere neanche un uomo in più. Ma […][per uomo non intendo] un magistrato in più [ma anche solo] un dattilografo in più. Questo è il modo in cui è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale. E che questa sia stata una scelta logica per Lodi o per Legnano, dove probabilmente si è pensato: “Beh, sono piccoli tribunali, lavorano poco, quanto meno facciamogli fare anche il lavoro pretorile”, [non discuto]. Ma è stata una scelta incredibilmente tragica per le zone dove opera la più feroce criminalità organizzata. E dove la struttura giudiziaria della procura della repubblica, che ora ha avuto la delega, deve dirigere sin dal primo momento le indagini di polizia – e indagini di polizia dietro le spalle del magistrato non se ne fanno più -, queste procure sono state travolte da questa massa di carte che non si ha il tempo neanche di scrivere i registri.
Registri i quali furono mandati caoticamente lo stesso giorno in cui iniziava a entrare in vigore il codice. Perché ora si è arrivati alla condizione che mentre prima i giudici erano accusati di non riuscire a portare a termine i processi ora non li riescono più neanche ad iniziare.
Brevemente perché vi ho tediato troppo. Noi, l’Associazione Nazionale magistrati, nell’ultimo incontro con il Presidente del consiglio dei ministri, il ministro Vassalli, oltre a quel dibattito parlamentare sui problemi della giustizia, abbiamo chiesto che si ponesse subito mano quantomeno a due riforme: dell’ordinamento giudiziario l’una e di diritto sostanziale l’altra. Cose di cui non parla più nessuno.
Una è l’istituzione del giudice di pace. Il magistrato deve essere sollevato […] dalle miriadi e miriadi di faccende bagattellari dalle quali oggi viene sommerso. E’ vero che i magistrati italiani sono molti ma mai, in nessun paese del mondo come in Italia, la legislazione penale, soprattutto, si occupa di tante sciocchezze. Oggi qualsiasi fatto, anche se non provoca nessun tipo di allarme sociale, viene immediatamente penalmente sanzionato.
Perché è la strada più breve. Ma il magistrato deve essere sollevato da questi fatti perché altrimenti giustizia in Italia non se ne farà più. Perché solo se si depenalizzassero gli assegni a vuoto, l’emissione di assegni a vuoto, la giustizia italiana verrebbe sollevata probabilmente del 70% del suo carico di lavoro.
Il ministro Vassalli una volta mi confidò in una sua venuta a Marsala che la relazione del progetto di legge per la depenalizzazione di assegni a vuoto… che è un fatto importantissimo!
Devono essere depenalizzati! Perché altrimenti la giustizia italiana, per questa sciocchezza, non funzionerà più, perché noi siamo travolti nel nostro lavoro per il 70% almeno da questo.
Sono sciocchezze, ma moltiplicando per 1.000, per 2.000, per 3.000, per 4.000, per 10.000 un lavoro, anche ripetitivo, che però si è costretti a fare, ci accorgiamo che non si trova più il tempo di fare il resto. Ebbene, il ministro Vassalli mi confidò che la proposta di legge, o il disegno di legge, non so che cos’era, era stata dimenticata dal relatore nel cassetto essendo il relatore diventato intanto sottosegretario o qualcosa del genere. Mi disse: “la abbiamo dovuta ripescare”. Forse era un paradosso, un’iperbole ma intanto sta di fatto che non se ne parla. Basterebbero soltanto queste due iniziative per ridare fiato a una giustizia la quale si alimenta di meno dell’1% del bilancio nazionale. E con i pattini […] non si può correre né la mille miglia né questa gravissima gara e importantissima scommessa, una gara di Formula Uno, che è il funzionamento della giustizia nel momento della riforma del codice di Procedura penale.
Convegno “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?”- 22 giugno 1990. Da archivio sonoro di Radio Radicale – Trascrizione a cura di Monica Centofante. La trascrizione è fedele al documento sonoro, con alcuni interventi a discrezione dell’operatore: 1) l’apposizione della punteggiatura; 2) l’inserimento di parole, comprese in parentesi quadre, per aiutare la comprensibilità del testo; 3) la correzione delle deformazioni fonetiche dialettali.
IL CONSENSO DELLA SOCIETA’ CIVILE PER LO STATO, ARMA CONTRO LA MAFIA La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie.
E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […]
Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende.
Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare.
In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri.
Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato.
Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi.
E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose?
E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose.
Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”.
Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro.
La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino.
Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire.
Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni.
4 maggio del 1989 – liceo Visconti di Roma. Conferenza incentrata sul tema dell’importanza dei giovani nella lotta alla “mentalità mafiosa”.