10.01.1989
Non c’è popolo del vecchio continente che viva, almeno in apparenza, con più entusiasmo di quello italiano questa vigilia della maggiore integrazione europea.
Il 1992, anno al cui termine scatteranno alcune importantissime misure comunitarie, è ormai divenuto in Italia riferimento quasi mitico, costantemente indicato in discussioni, convegni e dibattiti.
La recente consultazione referendaria, abbinata al rinnovo del Parlamento europeo, ha dimostrato, con i suoi risultati, che gli italiani ritengono di essere un popolo profondamente europeista, pronto a riversare in una entità sovranazionale, che abbracci gran parte del continente, le proprie particolarità regionali, spegnendo ogni residuo sussulto nazionalistico.
Si ha tuttavia talvolta l’impressione che in Italia molto si parli, in termini, come ho detto, entusiastici dell’Europa e poco si faccia per costruirla.
Poco si faccia, e non tanto per carenza di una azione di governo tendente alla edificazione ed al rafforzamento delle istituzioni comunitarie e dei meccanismi di integrazione. E’ noto, invece, che i governanti italiani sono in proposito fra i più attivi a spingere in questa direzione, come è dimostrato dal recente incontro di Madrid.
Si ha l’impressione che poco si faccia in altro senso. Poco si faccia cioè per creare o rafforzare in Italia le condizioni economico-sociali che debbono mettere il nostro paese in situazione di affrontare senza tragici traumi l’appuntamento, direi quasi la scommessa, del 1992 e degli anni successivi.
E da parte sua l’opinione pubblica, pur entusiasticamente europeista, par quasi attendere che i benefici della maggiore integrazione ci vengano calati dall’alto, automaticamente risolvendo i nostri numerosi e difficilissimi problemi e gratificandoci gratuitamente di una accentuata e desiderata sprovincializzazione.
Le cose purtroppo non stanno così. Non è certo facile diventare europei. Occorre uno sforzo duro, sia da parte dei governanti che da parte degli aspiranti cittadini di questa sognata realtà sovranazionale. Poiché altrimenti, presentandoci impreparati all’appuntamento, rischiamo di entrare sì in Europa ma di farvi ingresso in condizioni così precarie da porre l’intera nazione o sue vaste aree geografiche in situazione di rapida marginalizzazione.
Non sono esperto in problematiche comunitarie ed avrei quindi poco da aggiungere a queste brevi osservazioni di carattere generale, se non qualche richiamo, anch’esso generico o meramente elencativo, ai gravi problemi monetari legati all’enorme dilatazione del deficit pubblico, alla necessità di una rapida ristrutturazione delle imprese per renderle competitive a fronte degli agguerriti partners continentali, al problema del ridimensionamento radicale della massa di popolazione assistita e così via dicendo. Non continuo l’elencazione e non entro nei particolari dei vari problemi perché in merito sono per certo non competente, pur intuendo la gravità delle questioni.
Ho però bastante esperienza in materia criminale per occuparmi di un aspetto, non fra i più trascurabili, del problema, che è quello della compatibilità fra una proficua integrazione europea e l’esistenza in Italia di agguerrite e specifiche forme di criminalità organizzata. Ed in Sicilia in particolare.
Certo, la criminalità organizzata è nel nostro scorcio di secolo, e principalmente nelle società industrializzate dell’Occidente, un fenomeno ormai endemico, probabilmente insopprimibile, con il quale tutti i paesi debbono fare i conti, per contenerla in termini accettabili, e che, almeno nel nostro continente, non crea ad uno Stato problemi sostanzialmente diversi rispetto agli altri, tanto da porlo in condizioni sfavorevoli nella competizione internazionale.
Agisce però in Italia, e nelle nostre terre quasi indisturbata, una particolare forma di criminalità, quella mafiosa, che lungi dall’essere un fenomeno estraneo ai canoni della normale ed ordinata convivenza sociale, sì che il suo contenimento sia possibile attraverso i normali strumenti di repressione poliziesca e giudiziaria, è nel tessuto sociale profondamente e prepotentemente inserita, tanto da condizionarne grandemente lo sviluppo.
Ci vuol poco allora a capire che questa criminalità, la mafiosa, non è compatibile con una effettiva integrazione europea delle nostre regioni, perché, condizionandone gravemente l’economia a scopi e finalità diversi da quelli di interesse generale, rischia di porle (le regioni che affligge) in condizioni di rapida marginalizzazione nel teatro della competizione europea, che per tanta parte sarà regolato dal libero mercato.
Ecco perché su questa specifica realtà criminale si appunta l’attenzione e la preoccupazione della più responsabile opinione pubblica europea, come è dimostrato dal fatto che il primo settimanale europeo “The European”, stampato per la prima volta a Londra alla fine dello scorso anno, recava in prima pagina una notizia riguardante la Sicilia “Sei omicidi di mafia, tra Gela e Palermo, alla vigilia di una giornata di protesta contro la mafia”. E chi sa quanti, nello stesso periodo, ce ne erano stati, di omicidi, in Inghilterra.
Che stampa nazionale ed internazionale continuino a sottolineare la tragica realtà criminale siciliana non è, però, circostanza che deve di per sé dispiacere e scatenare inapprezzabili reazioni di malriposto meridionalismo.
Mi sembra che i gravissimi fatti verificatisi in questo decennio e le ponderose inchieste giudiziarie espletate abbiano quanto meno prodotto la nascita di una nuova consapevolezza sulla esistenza e pericolosità del fenomeno mafioso, che non giustifica più offese campanilistiche ma impone un globale impegno collettivo, il quale è bene venga sostenuto dalla costante attenzione della opinione pubblica, nazionale ed internazionale. E, a loro volta, i cittadini di queste regioni non debbono temere affrettate e superficiali generalizzazioni allorché denunciano ad alta voce essi stessi i loro mali, chiamando le loro città “capitali della mafia”, perché le spaccature e le prese di distanza sono insostituibili momenti di crescita civile ed oltremodo necessarie sono le distinzioni tra onesti e malavitosi, tra insofferenti alla convivenza con la mafia e succubi della tentazione alla coesistenza.
Se tuttavia le grandi inchieste giudiziarie degli anni ’80 hanno prodotto, al di là dei loro specifici esiti processuali, questa crescita della coscienza collettiva sul fenomeno e sulla sua pericolosità, la rinnovata recente virulenza delle organizzazioni mafiose ha cagionato il venire meno di una periodosa illusione, spesso alimentata ad arte e, comunque, sempre denunciata proprio da chi era più impegnato nella repressione delle attività criminali.
Mi riferisco all’opinione secondo cui la penetrante azione di contrasto di magistratura e forze dell’ordine avrebbe di per sé sola prodotto la sconfitta della mafia e la sua scomparsa dallo scenario meridionale.
Pericolosa illusione che è alla radice della inammissibile delega agli organi di repressione di occuparsi essi soli del problema e della ancor più inaccettabile delega alla magistratura giudicante di sancire in pubblico processo la fine di Cosa Nostra.
Vero è che lo strumento repressivo, in genere, e giudiziario in particolare non avrebbe mai potuto da solo risolvere il problema della criminalità mafiosa o contenerlo in limiti accettabili, e non soltanto per limiti, direi istituzionali, propri di siffatte azioni repressive (volte soltanto all’accertamento dei reati ed alla irrogazione delle relative sanzioni), ma soprattutto a causa delle profonde radici storiche e socio-economiche che la criminalità mafiosa ha nella realtà meridionale e siciliana, sicché, non incidendo a fondo su tali radici, con interventi che vanno ben al di là di quelli meramente repressivi o giudiziari, la mafia è destinata sempre a perpetuarsi, adattando la sua sostanzialmente immodificabile natura ai mutevoli aspetti della realtà socioeconomica.
La mafia, purtroppo, non è soltanto una organizzazione criminale dedita, come altre nel mondo, al traffico di droga. Non si vuole ovviamente negare che da detto traffico dipenda soprattutto l’enorme potenza raggiunta negli ultimi anni dalla organizzazione mafiosa, che proprio in conseguenza di tali commerci ha esteso l’ambito della propria attività ben oltre gli angusti limiti dei confini isolani. Vero è però che essa esisteva ancor prima del traffico di droga e verosimilmente continuerà ad esistere ancor dopo, se gli sforzi congiunti di una organizzazione di contrasto a livello mondiale riuscirà a liberarci un giorno del flagello degli stupefacenti.
Anche nei periodi di maggiore espansione e di maggiori profitti derivanti dal commercio della droga l’organizzazione mafiosa, ben consapevole della sua peculiare natura, non ha mai rinunciato a quel rigido controllo del territorio che fa della “famiglia” di Cosa Nostra un vero Stato nello Stato, perché il territorio e la supremazia su di esso sono indispensabili per l’esistenza stessa del nucleo criminale mafioso come per quella di qualsiasi istituzione statuale.
Controllo del territorio che si esercita pesantemente nei meccanismi di distribuzione delle risorse, con le tangenti, con l’accaparramento degli appalti, con lo sfruttamento delle aree, con l’infiltrazione, per condizionarli a suo favore, negli organi del pubblico potere, politico e burocratico.
Constatata quindi la poca incisività delle mere azioni repressive della tracotanza mafiosa, sempre risorgente dalle sue apparenti ceneri, è necessario si prenda atto che il fenomeno va affrontato alle sue radici con una globale risposta delle istituzioni, senza inammissibili ed esclusive deleghe a questa o quella parte del pubblico apparato.
Più Stato. Certo più Stato, ma attenzione. Una risposta statuale intesa in termini meramente quantitativi di impiego di risorse umane o finanziarie non risolve il problema ed anzi spesso lo aggrava.
Tutti abbiamo appreso delle polemiche scatenatesi in ordine alla profusione di risorse finanziarie nei territori campani terremotati, che hanno finito per scatenare gli appetiti della camorra, trasformando quelle terre, per il loro accaparramento, in un tragico teatro di sangue. Ed è noto quali timori si nutrono a Palermo per l’attenzione immancabile di Cosa Nostra ai finanziamenti pubblici che interessano quella città.
Bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è o non è da solo responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse, tanto da farla definire in recenti studi non il prezzo della miseria ma il costo della sfiducia.
Per altro, già nel lontano 1876, Leopoldo Franchetti, nello scrivere quello che ancor oggi rimane uno dei più pregevoli studi sulla mafia siciliana, individuava due insiemi di cause tra loro collegati: l’assenza di un sistema credibile ed efficace di amministrazione della giustizia (specie quella civile) ed una mancanza di fiducia di tipo economico.
Ambedue le cause, che possiamo ritenere ancor oggi operanti, importano l’assenza di un apparato statuale credibile, sia nel dirimere le controversie naturalmente nascenti dalle private contrattazioni, sia nell’assicurare che tali contrattazioni possano svolgersi in clima di reciproca affidabilità.
A sua volta l’arretratezza economica chiude ogni altra via di sfogo all’attività dei privati. L’unico fine, osserva Franchetti, che ciascuno propone alla propria attività od ambizione è quello di prevalere, sopra i propri pari. Quando è congiunto all’assenza di uno Stato credibile, non può condurre alla normale concorrenzialità di mercato: la pratica che si diffonde non è quella di far meglio dei propri rivali, ma quella di “farli fuori”. E quanto ciò sia compatibile con l’ordinata crescita economica, postulato indispensabile della maggiore integrazione europea, lascio a voi giudicare.
In questo contesto, continua Franchetti, si cominciano a capire i motivi per cui i mafiosi non agiscono come delinquenti comuni che operano isolatamente, in conflitto con la popolazione. Parte della opinione pubblica li ritiene in Sicilia più che altro uomini capaci di esercitare privatamente quella giustizia pubblica su cui nessuno più conta.
Quanto di questi concetti conservino ancor oggi gran parte della loro validità emerge in modo inquietante da talune ricorrenti invocazioni alla mafia o a suoi supposti qualificati esponenti verificatesi in occasioni di pubbliche dimostrazioni per protestare contro asserite ingiustizie sociali od economiche.
Analogo aspetto quello della compenetrazione tra delinquente e vittima che tipicamente si realizza in una delle attività più caratteristiche della mafia, cioè l’offerta di protezione a scopo estorsivo. Infatti l’aspetto più singolare della estorsione mafiosa è la difficoltà di distinguere le vittime dai complici ed il fatto che tra protetti e protettori si stabiliscano legami piuttosto ambigui.
La violenza dell’estorsione e gli interessi personali delle vittime tendono a confondersi ed a formare un insieme inestricabile di motivi per cooperare. Il vantaggio di essere amici di coloro che estorcono denaro o beni non è quindi solo quello di evitare i probabili danni che seguirebbero un rifiuto, ma in certi casi, può estendersi ad un aiuto per sbarazzarsi di concorrenti scomodi. E, quanto ai rapporti con la Pubblica Amministrazione, quale migliore alleato di colui o di quella organizzazione che garantisce un rapporto di “fiducia” nei confronti di un apparato ritenuto non credibile o non affidabile.
In proposito, è abbastanza recente la denuncia della più alta autorità regionale, secondo la quale “ci troviamo in presenza in molte USL ed in molti comuni di spinte fortissime, dirette o ravvicinate, da parte di centri criminali che tentano di intervenire come gruppi di pressione, decisivi addirittura nella formazione degli esecutivi. L’obbiettivo è il controllo del notevole flusso di risorse che questi organismi decentrati amministrano. C’è una pressione sempre maggiore che aree di criminalità organizzata realizzano nei confronti dei punti di decisione ed utilizzo delle risorse”.
In tale situazione, così autorevolmente denunciata, quale migliore brodo di coltura per organizzazioni che traggono la loro forza dalla inefficienza dell’apparato pubblico e dalla sua incapacità ad esser ritenuto meritevole di imparziale “fiducia”?
Il nodo è pertanto essenzialmente politico. La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di Cosa Nostra passa attraverso la restituzione della fiducia nella Pubblica Amministrazione, la cui perdurante inefficienza è oggi incompatibile con l’ordinato svolgersi della vita civile e rischia, protraendosi nel tempo di compromettere gravemente le possibilità della popolazione, specie isolana, di inserirsi nel circuito europeo senza rischiare la completa emarginalizzazione.
Nessun impiego, anche massiccio, di risorse finanziarie produrrà benefici effetti se lo Stato e le pubbliche istituzioni in genere non saranno posti in grado e non agiranno in modo da apparire imparziali detentori e distributori della fiducia necessaria al libero ed ordinato svolgersi della vita civile. Continuerà altrimenti il ricorso e non si spegnerà il consenso, espresso o latente, attorno ad organizzazioni alternative in grado di assicurare egoistici vantaggi.
Fiducia nello Stato significa anche fiducia in un efficiente amministrazione della giustizia, sia penale, sia soprattutto civile.
Occorre registrare con evidente soddisfazione l’introduzione del nuovo codice di Procedura Penale, sia perché sostituisce un insieme di norme di rito ormai sclerotiche e disorganiche, sia perché l’adozione del sistema accusatorio, che entrerà in vigore tra qualche mese, costituisce fuor di ogni dubbio una conquista di civiltà giuridica.
Tuttavia sia ben chiaro che il nuovo rito non potrà funzionare e la sua adozione creerà gravissimi problemi se non sarà accompagnata da un adeguato potenziamento delle strutture e da una razionalizzazione del sistema.
La magistratura associata e le organizzazioni forensi hanno anche recentemente, con atti sofferti e clamorosi quale lo sciopero, indicato un nucleo di problemi la cui risoluzione costituisce un minimum indispensabile per ridare credibilità ad una amministrazione della giustizia cui nelle condizioni attuali più nessuno fa affidamento, col rischio, specie in Sicilia, che si perpetui e consolidi il ricorso ad un sistema alternativo e criminale di risoluzione delle controversie.
Fiducia nelle istituzioni significa soprattutto affidabilità delle amministrazioni locali, quelle cioè con le quali il contatto del cittadino è immediato e diretto e che attualmente risultano incapaci di gestire la cosa pubblica senza aggrovigliarsi negli interessi particolaristici e nelle lotte di fazioni partitiche. La loro riforma non è più procrastinabile, poiché altrimenti, come è emerso dalle allarmate denunce del Presidente della Regione, resteranno i veicoli principali delle pressioni mafiose e delle lobbies affaristiche loro contigue.
Passano anche attraverso queste vie obbligate le direttrici di lotta alla criminalità mafiosa. Una sfida che lo Stato deve vincere in tempi rapidi perché è in grado di farlo, se non prima del fatidico 1992, ormai alle porte, almeno in tempi che ci consentano di affrontare la maggiore integrazione europea forti di una sana ed ordinata vita civile.
Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila giugno 2000