PROCESSO DEPISTAGGIO requisitoria e reazioni

 

Speciale PROCESSO DEPISTAGGIO

 


 

30.5.2022 – Depistaggio Borsellino, poliziotto imputato: “Sempre fatto il mio dovere”

“Sono assolutamente estraneo ai fatti che mi vengono contestati in questo processo, che già mi ha procurato non pochi danni fisici e morali. La mia unica responsabilità, se tale si può considerare, è di avere sempre svolto i miei doveri istituzionali con la massima dedizione e con la piena osservanza delle leggi, alle quali ho prestato giuramento di fedeltà al momento del mio ingresso nell’Amministrazione“. Sono le parole di Mario Bo, ex dirigente della Squadra mobile di Trieste, uno dei tre imputati al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, in corso a Caltanissetta, che ha reso dichiarazioni spontanee. “Voglio precisare di essermi occupato delle indagini sulle stragi solo dopo il giugno 1993 – dice – In precedenza non mi sono assolutamente occupato delle relative indagini. Venni destinato allo studio di tutta la documentazione inerente le due stragi”. Per il poliziotto, oggi in quiescenza, la Procura ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi, per l’accusa di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. Alla sbarra anche i suoi due colleghi Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Per loro i pm hanno chiesto la condanna a 9 anni e 6 mesi ciascuno. ADNKRONOS



Via D’Amelio, l’accusa dei pm: “Sulla strage il depistaggio dei poliziotti”.  Fiammetta Borsellino: “Omertà di Stato”

 «Vincenzo Scarantino subì un pressing asfissiante — ripete il pubblico ministero Stefano Luciani — venne anche torturato nel carcere di Pianosa. Era sfinito quando disse che voleva collaborare con la giustizia». Nell’aula bunker dove sono stati processati i boss delle stragi, oggi sotto accusa ci sono alcuni uomini delle istituzioni, la procura di Caltanissetta li chiama in causa per la più infamante delle imputazioni: “concorso in calunnia”, per aver tenuto lontana la verità sulla bomba che il 19 luglio 1992 travolse Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, attraverso la costruzione di un falso pentito che ha accusato degli innocenti. Sul banco degli imputati siedono tre investigatori della polizia: il dirigente Mario Bò e due ispettori in pensione, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, erano i principali collaboratori dell’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, morto nel 2002.
Il pm Luciani chiama in causa non solo i suggeritori, quelli che fecero studiare con degli appunti — mostrati in aula — il balordo della Guadagna trasformato in provetto Buscetta. «In questo processo — dice il magistrato — ci sono stati pure testimoni convocati dalla procura, ex appartenenti al gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana». È pesante l’atto d’accusa che segna l’inizio della requisitoria contro chi avrebbe depistato e chi continua a nascondere la verità. «Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere», dice il pm rivolgendosi al rappresentante dell’avvocatura dello Stato. «In questo processo c’è stato un muro da parte di alcuni uomini delle istituzioni».
Le parole del pubblico ministero sono un crescendo. A rilanciarle è Fiammetta Borsellino, che ha seguito tutte le udienze come parte civile. Dice a Repubblica: «In questo processo, abbiamo visto magistrati e poliziotti che non ricordavano passaggi fondamentali delle loro indagini. Abbiamo assistito a una vera e propria omertà istituzionale che ha reso difficile il lavoro importante dei magistrati di Caltanissetta». Non usa mezzi termini la figlia del giudice Paolo: «Dai mafiosi te l’aspetti l’omertà, dagli uomini delle istituzioni no. Sono inaccettabili i silenzi, le reticenze, i pianti e i non ricordo».
Fiammetta Borsellino racconta di avere ricevuto nei giorni scorsi una telefonata del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: «Quando il centralino mi ha annunciato la chiamata confesso di avere provato una certa emozione, ero convinta che mi sarebbero state comunicate notizie sui procedimenti disciplinari riguardanti alcuni ex pm di Caltanissetta che hanno gestito il falso pentito. Invece, il dottore Salvi mi invitava a un convegno. Ho risposto — prosegue Fiammetta — che la famiglia Borsellino non parteciperà ad alcuna iniziativa istituzionale fino a quando non sarà fatta luce su questa incresciosa vicenda».
Dice ancora Fiammetta Borsellino: «Quando ho chiesto notizie dei procedimenti disciplinari, mi è stato risposto che ci sono delle problematiche relative alla prescrizione. Cosa che ritengo inaccettabile. A questo punto, bisognerebbe avere l’onestà morale di comunicarlo al Paese che nessun magistrato pagherà per quello che è ormai definito dalle sentenze il più colossale depistaggio della storia d’Italia». LA REPUBBLICA – SALVO PAPAZZOLO

Depistaggio Borsellino, l’atto d’accusa dei pm: “Alcuni poliziotti hanno mentito in aula, Scarantino subì torture in carcere”

Nell’aula bunker di Caltanissetta, l’inizio della requisitoria nel processo in cui sono imputati tre poliziotti. “Il più grande depistaggio della storia d’Italia”

“In questo processo, ci sono stati testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana”. E’ durissimo l’atto d’accusa del pubblico ministero Stefano Luciani all’inizio della requisitoria contro i tre poliziotti accusati di aver avuto un ruolo determinante nella costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino, che per anni ha tenuto lontana la verità sulla strage Borsellino. “Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere”, dice il pubblico ministero rivolgendosi all’avvocatura dello Stato.

“Scarantino subì un pressing asfissiante– accusa il magistrato – il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage, Scarantino era un uomo disperato, sfiancato da interrogatori, da plurimi procedimenti penali, da condanne per droga”. Fecero anche dell’altro. E’ stata la moglie del balordo della Guadagna a svelare le “torture” subite nel carcere di Pianosa. “Rosalia Basile l’aveva già detto nei mesi in cui tutto questo accadeva, mandando lettere al presidente della Repubblica, al presentatore Funari, alla signora Borsellino, che certo non poteva immaginare cosa stesse accadendo”. Il pm Luciani ripercorre le drammatiche dichiarazioni della moglie di Scarantino, queste: “La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi disse che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli sussurrarono che aveva l’Aids”. Il pm punta l’indice contro La Barbera e i suoi poliziotti.

L’ex capo della squadra mobile di Palermo è morto nel 2002. In questo processo sono imputati il funzionario Mario Bò (“C’era anche lui durante i colloqui investigativi in carcere autorizzati dal ministero e dalla procura”, dice il pm), poi due ispettori in pensione, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. “Il più grande depistaggio della storia italiana nacque a Pianosa”, dice Luciani.

“Questo processo viene in continuità di un lavoro che è iniziato alla procura di Caltanissetta nel 2008 quando Gaspare Spatuzza raccontò una verità che da subito apparve dirompente. Era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo”


Depistaggio strage via D’Amelio, pm accusano: “Scarantino subì torture e poliziotti mentirono in aula”

Al via a Caltanissetta la requisitoria del processo che vede imputati tre agenti accusati di calunnia aggravata in concorso. Avrebbero indotto, “con minacce” l’ex pentito a dire il falso e ad accusare persone estranee sull’uccisione di Borsellino

Alza la voce e scandisce bene le parole, il pm Stefano Luciani, quando dice al Tribunale di Caltanisssetta che “il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa”. E’ qui che viene interrogato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue bugie e contraddizioni, ha fatto condannare degli innocenti per la strage di via D’Amelio che il 19 luglio del 1992 costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della scorta. Parole che già erano state utilizzate da un giudice, Antonio Balsamo, oggi presidente del Tribunale di Palermo, quando scrisse le motivazioni del processo Borsellino ‘quater’. Lo definì “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. E oggi il pm, iniziando la requisitoria del processo che vede alla sbarra tre poliziotti accusati di calunnia aggravata in concorso, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, lo ribadisce. Secondo l’accusa, i tre poliziotti avrebbero indotto, “con minacce” l’ex pentito Scarantino a dire il falso e ad accusare persone estranee alla strage Borsellino. E il pm Luciani, all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, spiega, passo dopo passo, come si arriva al “depistaggio”.

“Il depistaggio nasce a Pianosa”

Partendo dall’arresto di Scarantino, che definisce un “collaboratore costruito a tavolino”, fino ad arrivare al suo interrogatorio a Pianosa del 24 giugno 1994. “Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Bruno Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale, incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”. Ecco, secondo la Procura di Caltanissetta, dove tutto ha inizio. “Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti – ribadisce il pm -. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”.

“I poliziotti testi non hanno ornorato la divisa”

Ma, nel corso della requisitoria, che proseguirà anche domani, e il 10 e l’11 maggio, il magistrato, che oggi presta servizio alla Procura di Roma ed è stato distaccato per concludere il processo sul depistaggio, ha anche accusato duramente alcuni poliziotti, ex appartenenti al Gruppo ‘Falcone e Borsellino’, di cui facevano parte anche i tre poliziotti imputati, che hanno deposto al processo. “I testi del pm, poliziotti ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, si sono trasformati in testi della difesa e lo hanno fatto in maniera grossolana”, dice. E ribadisce: “Sono certo che questo comportamento che per alcuni non ha fatto onore per la divisa che indossano, sia stato segnalato per chi di competenza”. Dice: “Gli ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, sentiti in questo processo, diventano vaghi, sfuggenti, costellati da vari ‘non ricordo’ con alcuni momenti di lucidità in cui ricordano e poi non ricordano più”. E cita uno dei testi: “E’ venuto, ad esempio, un signore, Gaspare Giacalone, e cosa ci ha tenuto a dire? ‘Sono andato a Pratica di mare, non ricordo se c’erano anche magistrati e siamo andati a Pianosa, per fare l’interrogatorio di Scarantino e siamo tornati’. Sulla base di questo e di un dato documentale che è l’acquisizione dei piani di volo dell’elicottero che fa la spola Pianosa-Pratica di mare, ci vorrebbe dire che quel giorno La Barbera non aveva fatto il colloquio investigativo – dice il pm Luciani -, Dal controesame del pm il teste mostra incertezze. Non è così certo come mostra di essere in sede di esame del pm e c’è un ulteriore dato: la volontà di Scarantino era evidentemente veicolata fino alla Procura di Caltanissetta e siccome non è documentato un modo alternativo rispetto al colloquio investigativo ne dobbiamo desumere che il colloquio investigativo c’è stato e che La Barbera la partecipa a Tinebra e che poi si organizza l’interrogatorio e la documentazione prodotta non prova né smentisce nulla”.

“Moglie Scarantino disse che La Barbera non lo lasciava in pace”

Una lunga parte della requisitoria è stata dedicata alla figura di Vincenzo Scarantino. E a quanto raccontato sia dallo stesso falso pentito che dalla ex moglie, Rosalia Basile. “La moglie di Scarantino fece mettere a verbale che il marito le diceva: ‘Non mi lasciano in pace sono sempre qua’. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Luciani ha quindi letto in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile. “Mio marito mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amante’ – dice il pm -. Sono esattamente le stesse cose che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro'”.

Poi prosegue: “Scarantino aveva raccontato alla moglie che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera”. Dopo l’arresto, “subì un pressing asfissiante. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”. Sempre la moglie ha detto agli inquirenti: “La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi disse che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli dissero che forse aveva l’Aids”.

“Scarantino indotto ma ci ha messo anche del suo”

“Tutte le dichiarazioni rese da Vincenzo Scarantino sono dichiarazioni che dal 1998 sono uguali a loro stesse. Nel marasma delle ritrattazioni ci sono alcune vicende che sono state raccontate sempre allo stesso modo”, spiega. Insomma, per Luciani “Vincenzo Scarantino è stato indotto ma ci ha messo anche del suo”. “Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono frutto di sue personali rivisitazioni di circostanze apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare”, dice ancora il magistrato. “Scarantino è stato indotto a fare dichiarazioni ma che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a iniziative di Vincenzo Scarantino, ed è quello sostenuto nel Borsellino quater che non ha assolto Scarantino ma lo ha dichiarato prescritto”. “Scarantino, quindi, è responsabile, e la responsabilità va data, in parti uguali o no non mi interessa, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni”, aggiunge il pm.

Requisitoria dopo 70 udienze e oltre 110 testimonianze

Una requisitoria che arriva dopo settanta udienze e la testimonianza di oltre 110 persone. “Questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”, dice poi il magistrato. E poi aggiunge: “Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata – dice ancora Luciani -. Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”. Tra le parti civili ci sono alcuni degli imputati che furono condannati ingiustamente per le parole di Scarantino ma anche i familiari di Paolo Borsellino. L’udienza riprende domani mattina alle 9.30. ADNKRONOS 26.4.2022


Borsellino, processo per il depistaggio contro tre poliziotti. Il pm: “Sono passati 30 anni, se c’è stato altro ditelo”


Via D’Amelio, il pm al poliziotto imputato: «Dicci chi scrisse gli appunti per Scarantino»

«Se gli appunti sui verbali in possesso di Vincenzo Scarantino non erano tutti farina del suo sacco, ci dica Fabrizio Mattei chi altro ci ha messo mano. Sono passati 30 anni, se c’è stato dell’altro ditelo». L’ha detto nel corso della requisitoria, ripresa questa mattina, il pm Stefano Luciani nel processo che vede imputati tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

Secondo l’accusa, i tre ex componenti del gruppo «Falcone Borsellino», assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. Il pm Stefano Luciani si è soffermato nel corso della requisitoria sugli appunti che Fabrizio Mattei avrebbe scritto di proprio pugno sui verbali in possesso di Scarantino. In un primo tempo il poliziotto, secondo la ricostruzione dell’accusa aveva detto che erano stati interamente scritti da lui per poi dire che non erano tutti suoi. L’accusa – di cui sono chiamati a rispondere davanti al Tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo – è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
«Mattei – ha aggiunto il pm Luciani – non ha detto il vero quando ha tentato di disconoscere la paternità di queste scritture poste a margine. Se si arrivano a rendere dichiarazioni che vengono smentite dalla realtà dei fatti evidentemente una motivazione c’è. Non puoi rispondere in esame con un “non lo so” se ti viene chiesta se è tua la paternità di quelle manoscritture. Allora Mattei non diceva il vero nel 1994».

Per l’accusa è stato il più grande depistaggio della storia italiana. Una definizione forte, la stessa che venne usata anni fa dalla corte d’assise che, per la prima volta in una sentenza, puntò il dito sul clamoroso tentativo di inquinare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, uno dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra. Gli imputati rispondono di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nel quinto dibattimento istruito sull’attentato in cui, ormai quasi trent’anni fa, persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Mi scuso in anticipo con le parti civili perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata», ha detto ieri il pm Luciani che ha ricordato i «numeri» del dibattimento: 70 udienze, 112 testimoni, 4.900 pagine di trascrizioni.

Per l’accusa i fatti emersi sono chiari. Furono vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una falsa verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza riuscirono poi a smascherare. «Fu Spatuzza – dice Luciani – a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti, era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino».

Luciani ha poi ricordato le vessazioni subite durante la detenzione a Pianosa da Scarantino, piccolo spacciatore assurto, nella falsa ricostruzione degli investigatori, al rango di boss al corrente dei più oscuri segreti della stagione stragista. «I suoi precedenti – spiega il pm- erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si è voluto rappresentare. Scarantino ha subito un pressing asfissiante. Interrogatori costanti e ripetuti, plurimi procedimenti penali, condanne per traffico di droga perché mentisse accusando persone che con la strage non c’entravano nulla». A Scarantino, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. «Più andavo avanti e più bravo diventavo», ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l’inchiesta.

«”Mi hanno fatto studiare, mi dicevano quali erano le contraddizioni, mi hanno preparato”. Erano queste le parole di Vincenzo Scarantino. Tutto questo lavoro di indottrinamento, di aggiustamento di dichiarazioni nei confronti di Vincenzo Scarantino è servito per fare condannare la gente all’ergastolo», ha detto il pm Luciani.

«Mario Bo – ha continuato Luciani – era il supervisore dell’attività fatta illegalmente, illecitamente da Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ce lo conferma la ex moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, e lo stesso Scarantino. È una verità che emerge dai documenti che abbiamo mostrato, che sono tutti attribuibili, tutti senza alcun dubbio, a Fabrizio Mattei sulla base della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero e non smentita dalla consulenza di parte. La difesa, da canto suo, non offre elementi per sgravare di responsabilità Mattei. E se mai residuasse un micro margine di dubbio, quella menzogna che ha retto per oltre 20 anni è spazzata via da Gaspare Spatuzza che ci dice che Scarantino aveva mentito». GIORNALE DI SICILIA 27.4.2022


Borsellino e l’illegalità sfacciata dei poliziotti imputati nella strage di via D’Amelio, il pm: “Il più grave depistaggio della storia italiana”

«L’illegalità contrassegnava i giri dei poliziotti imputati. Sono trascorsi trent’anni, adesso è ora di dire basta e di parlare», dice il pubblico ministero Stefano Luciani nella requisitoria del processo, in corso a Caltanissetta, a carico di tre poliziotti (Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo) imputati di calunnia aggravata nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino. La vicenda, che affonda nelle indagini sulla strage mafiosa di via d’Amelio del 1992 in cui morirono il giudice Borsellino e cinque agenti della scorta, rappresenta «il più grave depistaggio della storia italiana» secondo la sentenza che ha ribaltato la verità giudiziaria sulla strage, dopo che i primi processi, basati sulle dichiarazioni di Scarantino, avevano portato a condanne all’ergastolo di innocenti.
I tre poliziotti sono accusati di aver «indottrinato» a tavolino il falso pentito. «È incredibile quello che ci è stato detto in questo processo. Questa vicenda è costellata dal costante piegare strumenti di indagine processuali e non processuali a finalità di legge diverse dalle quali sono pensate», ha detto il pm. In particolare si è soffermato sulle telefonate di Scarantino, all’epoca in cui era sotto protezione in quanto collaboratore di giustizia ritenuto affidabile. «Ci sono troppe anomalie, tra cui telefonate che stranamente saltavano» quando Scarantino parlava con magistrati e poliziotti.

L’inchiesta e il processo, che ha raccolto 112 testimonianze in 70 udienza e oltre 10mila pagine di prove, non è riuscita a risalire ai livelli apicali della catena di comando che avrebbe ordito il depistaggio. «Ma non si dica che la montagna ha partorito il topolino», ha protestato il pm, chiedendo agli imputati di aiutare a individuare eventuali mandanti e moventi. LA STAMPA 27.4.2022

Strage di via D’Amelio, il pm: “Sparite intere conversazioni”

“Intere conversazioni telefoniche che sparivano, una macchina – quella utilizzata per registrare le chiamate – che “stranamente”, solo in certi casi, si inceppava. Si è soffermato sul periodo in cui l’ex falso pentito Vincenzo Scarantino viveva in località protetta a San Bartolomeo a Mare il pm Stefano Luciani nel corso della requisitoria, ripresa questo pomeriggio all’aula bunker di Caltanissetta, del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Delle “anomalie” riscontrate dai poliziotti della sala ascolto che ascoltavano le conversazioni di Scarantino si è parlato più volte nel corso delle varie udienze.

“Contraddizioni nelle deposizioni dei poliziotti”

E su questo argomento oggi è tornato il pm Luciani rilevando alcune “contraddizioni” nelle deposizioni rese dai poliziotti che a quell’epoca si occupavano proprio dell’ascolto e la registrazione delle telefonate che partivano dal telefono messo a disposizione di Vincenzo Scarantino. “Con queste deposizioni – ha detto il pm Luciani – si voleva dimostrare che questa famosa macchina era costellata da frequenti anomalie e malfunzionamenti. Sui brogliacci veniva scritto che non si procedeva per anomalia o interruzione della macchina ma poi si è visto che c’erano eventi telefonici di diversi minuti. Un ingegnere, consulente della difesa, nella sua deposizione è venuto anche a parlarci del fatto che bisognava tenere conto del “fattore stress”. Ma se la linea da registrare era solo una? E le conversazioni da ascoltare solo quelle?”. LIVE SICILIA 27.4.2022

Caltanissetta, requisitoria depistaggio via D’Amelio: Pm, continuo lavoro di indottrinamento Scarantino

Il pm della procura di Caltanissetta Stefano Luciani, durante la requisitoria al depistaggio sulla strage di via d’Amelio, che vede imputati tre poliziotti. ha ricordato le parole del falso pentito Vincenzo Scarantino. “Mi hanno fatto studiare, mi dicevano quali erano le contraddizioni, mi hanno preparato”. Riprendendo le parole di Scarantino, Luciani ha aggiunto che “tutto questo lavoro di indottrinamento, di aggiustamento di dichiarazioni nei confronti di Vincenzo Scarantino e’ servito per fare condannare la gente all’ergastolo”.

Imputati ci sono tre poliziotti del Gruppo della Falcone – Borsellino. Secondo il pm “Mario Bo era il supervisore dell’attivita’ fatta illegalmente, illecitamente da Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ce lo confermano la moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, e lo stesso Scarantino”.

Il pm ha mostrato tutti i verbali, le annotazioni fatte a penna dal poliziotto Fabrizio Mattei, ha piu’ volte sostenuto Luciani. Durante la requisitoria sono state analizzate anche le motivazioni delle sentenze dei procedimenti penali Borsellino 1, bis e ter.LIVE SICILIA 27.4.2022


“Sulla strage di Via D’Amelio il più grande depistaggio della storia”

Iniziata ieri davanti al Tribunale di Caltanissetta la requisitoria del processo per il cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio.

Imputati sono tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono accusati di calunnia aggravata in concorso perché secondo la Procura nissena avrebbero tentato di indurre l’ex pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso. A prendere la parola all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta il pm Stefano Luciani, che da qualche tempo è pm alla Procura di Roma. “Questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”, dice il magistrato.

“Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata – dice ancora Luciani – Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”.

Luciani ha quindi ricordato quando nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza, che ha fatto scoprire le falsità di Scarantino – riporta l’AdnKronos – “inizia a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo. E’ facile dunque comprendere che tipo di impegno attendeva la procura di Caltanissetta e le altre procure interessate”. Ha anche ricordato che “questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino”.

“Il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa – ricostruisce quindi Luciani – . Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”. TP24 27.4.2022


Strage di via D’Amelio, la requisitoria del pm al processo sui depistaggi

I tre polizioitti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo devono rispondere di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra perché avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso sviando così le indagini sull’attentato nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta

“Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata. È un processo che si è celebrato in 70 udienze, sono stati escussi oltre 112 soggetti, con oltre 4.900 pagine di trascrizioni. Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”, è iniziata così la requisitoria del pm Stefano Luciani nel processo che vede imputati tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

Le accuse di depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Secondo l’accusa i tre ex componenti del gruppo “Falcone Borsellino”, assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. L’accusa, di cui gli imputati sono chiamati a rispondere davanti al Tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo, è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.

La requisitoria “Questo processo – ha continuato Luciani – viene a continuità di un lavoro che inizia alla Procura di Caltanissetta nel 2008 quando Gaspare Spatuzza inizia a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo. È facile dunque comprendere che tipo di impegno attendeva la procura di Caltanissetta e le altre procure interessate. Questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino. E allora questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”.

Pm: “Il più grande depistaggio d’Italia è nato a Pianosa” “Il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa. Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”, ha affermato nel corso della requisitoria Luciani. “I suoi precedenti – ha aggiunto il magistrato – erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si vuole rappresentare. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”.

“La moglie di Scarantino disse che lo torturavano”. “La moglie di Vincenzo Scarantino raccontò che lui era un uomo robusto di oltre 100 chili, quando lo vide a Venezia era già ridotto alla metà, a Pianosa è ormai in condizioni terribili. Perché Scarantino, è lui stesso a raccontarlo alla moglie Rosalia Basile, in carcere è vittima di pressioni psicologiche e minacce. E chi sono gli autori? Scarantino aveva raccontato alla moglie che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera”, ha proseguito Luciani. “La moglie – continua il pm – disse a verbale che Scarantino le diceva: ‘Non mi lasciano in pace sono sempre qua’. La donna riferiva sempre esattamente quello che le diceva il marito. Scarantino veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare. ‘Mio marito – ha detto Luciani leggendo in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile – mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amante’. Sono esattamente le stesse cose – ha continuato Luciani – che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro'”.

“Scarantino ammise di aver recitato un copione” “Mi hanno spogliato nudo e mi colpivano i genitali con la paletta, mi dicevano di guardare a terra e mi colpivano se guardavo a terra, mi buttavano l’acqua gelata mentre dormivo nella cella. Tutto questo dietro la promessa: ti facciamo uscire da qui e ti diamo 200 milioni di lire. Questo raccontava Vincenzo Scarantino alla moglie Rosalia Basile ed è un cliché che si ripete con Salvatore Candura, al quale vengono fatte le stesse promesse e le stesse pressioni psicologiche. Alla fine Scarantino sotto il peso delle pressioni cede e si accolla le accuse: cioè il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba per la strage. Scarantino ha poi detto: ho recitato un copione esattamente come mi era stato detto di fare da Arnaldo La Barbera e dal poliziotto Mario Bo”, ha proseguito il pm nella sua requisitoria.

“Anche Scarantino ci ha messo del suo”. “Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono ricostruzioni di cose apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare. Che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, è certo. Scarantino è stato indotto a mentire ma ci ha messo anche del suo e quindi è responsabile, e la responsabilità va data, in parti non so se uguali o no, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni. Lo dice lo stesso Scarantino, ‘più andavo avanti e più bravo diventavo'”, prosegue la requisitoria. SKY TG24


Depistaggio via D’Amelio, il pm si scusa nella requisitoria del processo

«Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata». È iniziata così la requisitoria del pm della procura di Caltanissetta Stefano Luciani, nel processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 

  • Il processo vede imputati tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I tre ex componenti del gruppo “Falcone Borsellino”, assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, sono ritenuti responsabili di aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino, un «delinquente di borgata» come lo ha definito il pm Luciani, ad autoaccusarsi del furto della Fiat 126 usata per l’attentato a giudice Borsellino. Lo avrebbero fatto mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti.
  • «È un processo – ha proseguito il pm – che si è celebrato in 70 udienze, sono stati escussi oltre 112 soggetti, con oltre 4.900 pagine di trascrizioni. Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero»
  • In quello che il pm ha definito «il più grande depistaggio della storia italiana», Vincenzo Scarantino fu definito un «boss mafioso», in una nota del Sisde, uno dei due rami dei servizi segreti italiani fino al 2007. Recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa nel 1992 e condannato a 18 anni di carcere, nel 1998 ammise di non aver compiuto il furto. Nel 2007 le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ammise di essere stato lui stesso l’autore di quel furto, valsero a scagionarlo, gettando luce sul depistaggio compiuto.  DOMANI 28.4.2022

Borsellino: pm, più grande depistaggio d’Italia nato a Pianosa

Luciani, Scarantino ammise di aver recitato un copione  “

Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”.

Lo ha detto nel corso della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio il pm Stefano Luciani. Secondo l’accusa gli imputati del processo, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. “I suoi precedenti – ha aggiunto Luciani – erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si vuole rappresentare. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”. “Mi hanno spogliato nudo e mi colpivano i genitali con la paletta, mi dicevano di guardare a terra e mi colpivano se guardavo a terra, mi buttavano l’acqua gelata mentre dormivo nella cella. Tutto questo dietro la promessa: ti facciamo uscire da qui e ti diamo 200 milioni di lire. Questo raccontava Vincenzo Scarantino alla moglie Rosalia Basile ed è un cliché che si ripete con Salvatore Candura, al quale vengono fatte le stesse promesse e le stesse pressioni psicologiche.
    Alla fine Scarantino sotto il peso delle pressioni cede e si accolla le accuse: cioè il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba per la strage. Scarantino ha poi detto: ho recitato un copione esattamente come mi era stato detto di fare da Arnaldo La Barbera e dal poliziotto Mario Bo”, ha detto il pm Luciani.   ANSA


Processo strage via D’Amelio, il pm: “Su morte Borsellino il più grande depistaggio della storia”

Il pm Stefano Luciani iniziando la requisitoria del processo per la morte di Borsellino, ha definito le indagini “Il più grande depistaggio della storia italiana”.

Per il pm Stefano Luciani sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui hanno perso la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, c’è stato “Il più grande depistaggio della storia italiana”. Ed è partito tutto da Pianosa. Proprio lì viene interrogato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue bugie e contraddizioni ha fatto condannare degli innocenti per la strage avvenuta il 19 luglio del 1992, per poi ritrattare tutto anni dopo. In precedenza il giudice Antonio Balsamo, oggi Presidente del Tribunale di Palermo, scrivendo le motivazioni del processo Borsellino ‘quater’, lo aveva già definito “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”.

“Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”, ha detto oggi il pm nel corso della requisitoria del processo, iniziata oggi al Tribunale di Caltanissetta, dopo 70 udienze, la testimonianza di oltre 112 persone e 4.900 pagine di trascrizioni.

Secondo la Procura nissena gli imputati del processo, i poliziotti Mario Bo (oggi assente), Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (entrambi presenti) devono rispondere di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra: avrebbero tentato di indurre l’ex pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso, con minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. Fu il pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 a far emergere le falsità di Scarantino, che non era altro che un piccolo spacciatore palermitano.

“I suoi precedenti – ha detto Luciani – erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si vuole rappresentare. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”. 

“Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono ricostruzioni di cose apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare. Che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, è certo. Scarantino è stato indotto a mentire ma ci ha messo anche del suo e quindi è responsabile, e la responsabilità va data, in parti non so se uguali o no, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni. Lo dice lo stesso Scarantino, ‘più andavo avanti e più bravo diventavo’“, ha aggiunto Luciani nell’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta.

Il pm ha anche letto in aula le dichiarazioni rese dal falso pentito Scarantino: “Visto che non dicevo la verità ero sempre preoccupato che non ricordavo bene le cose. Sia il dottore Arnaldo La Barbera che il dottore Mario Bo mi rassicuravano che dovevo avere fiducia dei ragazzi che me li avevano messi accanto per sostenermi”. A fare “studiare” Scarantino sulle dichiarazioni che avrebbe dovuto fare, secondo la ricostruzione dell’accusa, erano Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. “Scarantino – ha proseguito Luciani – in maniera diretta e chiara mette in connessione l’attività di studio fatta con Mattei e Ribaudo con l’attività di supervisione di Arnaldo La Barbera e Mario Bo”. FANPAGE 28.4.2022


Il “j’accuse” dei pm nisseni al processo sulla strage di via D’Amelio: «Il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa»

«Il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa. Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso».

Lo ha detto nel corso della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio il pm Stefano Luciani. Secondo l’accusa gli imputati del processo, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti.

«I suoi precedenti – ha aggiunto Luciani – erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si vuole rappresentare. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato».

 «Mi hanno spogliato nudo e mi colpivano i genitali con la paletta, mi dicevano di guardare a terra e mi colpivano se guardavo a terra, mi buttavano l’acqua gelata mentre dormivo nella cella. Tutto questo dietro la promessa: ti facciamo uscire da qui e ti diamo 200 milioni di lire. Questo raccontava Vincenzo Scarantino alla moglie Rosalia Basile ed è un cliché che si ripete con Salvatore Candura, al quale vengono fatte le stesse promesse e le stesse pressioni psicologiche. Alla fine Scarantino sotto il peso delle pressioni cede e si accolla le accuse: cioè il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba per la strage. Scarantino ha poi detto: ho recitato un copione esattamente come mi era stato detto di fare da Arnaldo La Barbera e dal poliziotto Mario Bo». Lo ha detto il pm Stefano Luciani nel corso della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che si svolge a Caltanissetta. Secondo l’accusa gli imputati, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. I tre sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra. 
«La moglie di Vincenzo Scarantino raccontò che lui era un uomo robusto di oltre 100 chili, quando lo vide a Venezia era già ridotto alla metà, a Pianosa è ormai in condizioni terribili. Perché Scarantino, è lui stesso a raccontarlo alla moglie Rosalia Basile, in carcere è vittima di pressioni psicologiche e minacce. E chi sono gli autori? Scarantino aveva raccontato alla moglie che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera».

Lo ha detto nel corso della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio il pm Stefano Luciani. Secondo l’accusa gli imputati del processo, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. «La moglie – continua Luciani – disse a verbale che Scarantino le diceva: ‘Non mi lasciano in pace sono sempre quà. La donna riferiva sempre esattamente quello che le diceva il marito. Scarantino veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare. ‘Mio marito – ha detto Luciani leggendo in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile – mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amantè. Sono esattamente le stesse cose – ha continuato Luciani – che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro». 

«Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono ricostruzioni di cose apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare. Che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, è certo. Scarantino è stato indotto a mentire ma ci ha messo anche del suo e quindi è responsabile, e la responsabilità va data, in parti non so se uguali o no, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni. Lo dice lo stesso Scarantino, “più andavo avanti e più bravo diventavo”». E’ questa la continuazione della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio del pm Stefano Luciani. LA SICILIA 26.4.2022