La strage di via D’Amelia
La richiesta delle pene arriva dopo quattro udienze: ed è pesantissima. Undici anni e nove mesi per Mario Bo, dirigente della polizia di Stato, 9 anni e sei mesi per i funzionari Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è avere inquinato le indagini sulla strage di Via d’Amelio creando a tavolino una falsa verità sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta. Un depistaggio definito il più clamoroso della storia giudiziaria italiana che ha portato alla condanna all’ergastolo di 8 innocenti, scoperto dopo anni dai magistrati grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L’imputazione per i tre poliziotti è di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia: la falsa ricostruzione dell’eccidio avrebbe nascosto le responsabilità nella morte del giudice dei mafiosi della cosca di Brancaccio.
Si chiude con una richiesta severissima, dunque, l’atto di accusa del pm Stefano Luciani che ha istruito il processo e che, nelle ultime udienze, è stato affiancato dal neo procuratore Salvo De Luca. Nel corso della requisitoria il magistrato, che ha raccolto e verificato le dichiarazioni di Spatuzza, ha ricostruito anni di menzogne, dichiarazioni estorte con le minacce e con la violenza, balordi fatti assurgere al rango di pericolosi boss, ritrattazioni mai prese sul serio dai pm dell’epoca, sentenze scritte a dispetto della verità. In aula sono risuonate, attraverso la lettura dei verbali, le rivelazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna con piccoli precedenti per spaccio, «promosso» dai tre imputati a capomafia, costretto ad addossarsi colpe mai avute e ad accusare persone che con la strage non avevano nulla a che fare, oggi parti civili in un processo a pezzi dello Stato.
«Sono qui oggi quasi come testimone perché l’eccellente lavoro fatto dal collega Luciani non ha bisogno di alcuna integrazione – ha detto il procuratore – Sono qui per testimoniare, ed è quasi superfluo, che le conclusioni che saranno oggi formulate non rappresentano il convincimento isolato di un pubblico ministero ma che tutta la Procura di Caltanissetta le condivide. Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia. I plurimi, gravi, elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza». “Tutti sapevano – ha sottolineato De Luca – che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C».
I tre imputati, che sarebbero arrivati a minacciare i falsi pentiti e a suggerire loro, come fossero attori, i copioni da recitare, si sono sempre detti innocenti. Non si è invece potuto difendere il quarto protagonista della storia, Arnaldo la Barbera, capo del pool che indagò sulla strage, mente, secondo l’accusa, del clamoroso depistaggio, morto nel 2002. Ma quale sarebbe stato il movente dei poliziotti? Perchè creare una falsa verità sulla morte del giudice? Accenna una risposta il pm nella requisitoria. «La versione che dà Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza sulla fase esecutiva della strage di via D’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino – sottolinea il rappresentante dell’accusa – è la presenza dell’uomo all’interno del garage in cui venne imbottita di tritolo l’auto usata per la strage non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa». Coprire la partecipazione, dunque, di terzi estranei a Cosa nostra: il movente del depistaggio sarebbe stato questo. 11 Maggio 2022 IL GIORNALE DI SICILIA