Fiammetta Borsellino: “Mio padre e Falcone consegnati alla mafia dai loro colleghi”

 

di Alessandra Ziniti

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La figlia del magistrato ucciso in via d’Amelio: “Da quando abbiamo deciso di parlare siamo rimasti soli. Dello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno”

Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perchè nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Lui e Giovanni Falcone, almeno nell’ultimo anno della loro vita ne avevano piena consapevolezza».

Lei era ancora una ragazzina nel 1992. Si ricorda cosa diceva suo padre?
«Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo”»,

E così è stato?
«Senza dubbio. C’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento. L’ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perchè è stato abbandonato dai suoi colleghi».

Parole dure le sue
«Che occorreva dire. E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l’intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così».

L’ultimo processo, quello sul depistaggio, andrà a sentenza proprio in coincidenza con i 30 anni delle stragi. Non crede che riuscirà a stabilire la verità? 
«Ho assistito a decine di testimonianze di magistrati, avvocati, investigatori, una sfilata di reticenza, di “non ricordo” di fatti che avrebbero dovuto segnare anche le loro vite. Una cosa, dal punto di vista umano, veramente inaccettabile, misera, pietosa. Dall’aula della corte d’assise di Caltanissetta sarei potuta uscire con un sentimento umano diverso se solo avessi percepito una disponibilità alla ricerca della verità che non ho visto».

Tanta amarezza dunque in questo trentennale dalle stragi?
«Mi creda, ormai, abbiamo trovato pace. Tutto finalmente è chiaro. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano».

Come ha raccontato alle sue figlie la storia del nonno e di Giovanni Falcone?
«Capisco che può sembrare strano ma non c’è stato bisogno di raccontare loro nulla. In casa siamo stati sempre circondati dai nonni anche quando non c’erano più. C’è la bicicletta di mio padre appesa a una parete, la vecchia insegna della farmacia di famiglia, le foto della cena di riappacificazione di mio padre e Leonardo Sciascia. Ne parliamo sempre con grande serenità. Posso dire che i nostri figli hanno vissuto quel passato come presente. Certo, a scuola, qualche volta è capitato che gli abbiano detto: “Tuo nonno è morto con un’autobomba” ma anche loro hanno imparat o a gestire questa parte pubblica».

Qual è la più grande eredità che le ha lasciato suo padre?
«La faccia pulita dell’Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell’ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti».

LA REPUBBLICA 19.5.2022

 

 

LA DENUNCIA DI FIAMMETTA BORSELLINO