UOMINI SOLI – Giovanni Falcone

di Attilio Bolzoni


 

  • Giovanni Falcone e quella strage che ha cambiato per sempre l’Italia
  • Un giudice blindato nella Palermo dove ammazzano poliziotti e procuratori
  • Una vita “in trincea”
  • Il maxi processo, la prima grande sconfitta della mafia siciliana
  • Il matrimonio con Francesca Morvillo.
  • Il “pittore” Liggio 
  • Un cratere ingoia il giudice che fa tremare i complici della mafia
  • Il maxi processo è in Cassazione, Totò Riina trema e ordina l’esecuzione
  • Bocciato e umiliato anche quando si presenta a Palazzo dei Marescialli
  • Quando la magistratura colpisce alle spalle il giudice Giovanni Falcone
  • Con un colpo di penna un giudice cancella per sempre il pool antimafia
  • Il Corvo, lettere anonime e un ”killer di stato” per isolare Falcone
  • Contorno “sicario di Falcone
  • La sentenza del maxi processo e poi l’omicidio di Salvo Lima
  • L’attentato all’Addaura, l’inizio della fine per un magistrato che fa paura
  • Il pranzo al “Costa Azzurra”, l’ultimo giorno siciliano di Giovanni Falcone
  • La “Superprocura”, la corporazione dei magistrati ancora contro di lui
  • I sicari ritornano a Palermo, comincia il conto alla rovescia di Capaci
  • La vendetta di Totò Riina, l’esecuzione dei poliziotti Montana e Cassarà
  • L’incontro con Beppe Montana
  • Le vendette trasversali
  •  “Prima Luce”, poi Tommaso Buscetta e la mafia è nuda agli occhi del mondo
  • Antonino Caponnetto sbarca a Palermo e nasce il “pool antimafia”
  • Quando le eccellenti toghe tramano e provano a fermare Giovanni Falcone
  • Un giornale amico dei potenti
  • La mattanza di mafia che ha stravolto per sempre Cosa Nostra
  • Quell’indagine su Rosario Spatola che porta al maxi processo
  • Le famiglie siciliane e quelle americane
  • Quell’indagine sui “delitti politici” e le prudenze del procuratore capo

 


Giovanni Falcone e quella strage che ha cambiato per sempre l’Italia

 

Muore anche Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone e anche lei magistrato.
Sono feriti i poliziotti dell’altra blindata, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello.
E’ sanguinante Giuseppe Costanza, l’autista. Sull’autostrada che corre dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo è l’inferno.
Dall’ospedale civico arriva la comunicazione ufficiale: Giovanni Falcone non respira più.
La notizia fa il giro del mondo. I sicari sono già lontani, ma non lo saranno per molto. Hanno lasciato tracce sulla collinetta che guarda l’autostrada. Palermo è un grande microfono, due boss parlano di un “attentantuni”, le cimici intercettano le loro voci. La caccia ai killer è appena cominciata. L’ordine della strage è partito da Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Sconosciuti, ancora oggi, quelli che vengono chiamati “i mandanti altri”.
Dalla morte di Giovanni Falcone sono passati trentanni e questa serie del Blog Mafie la dedichiamo alla strage di Capaci pubblicando ampi stralci del libro “Uomini Soli” di Attilio Bolzoni, ripubblicato in queste settimane da Zolfo Editore.

Un giudice blindato nella Palermo dove ammazzano poliziotti e procuratori

La prima scorta gliela impongono alla fine di agosto del 1980. Agli inizi del mese, il 6, il procuratore capo della repubblica di Palermo Gaetano Costa passeggia da solo come ogni pomeriggio fra un fioraio e la bancarella di libri nella centralissima via Cavour. Un killer gli va incontro e l’ammazza. Una settimana prima, in solitudine, Costa ha firmato una cinquantina di ordini di cattura proprio contro Rosario Spatola e i boss dell’Uditore. Alcuni dei suoi sostituti si rifiutano di sottoscrivere il provvedimento. Lui ci mette la firma e ci rimette la pelle. Poi le auto di scorta diventano tre. Quando l’indagine su Rosario Spatola si intreccia con quella sulla fuga in Sicilia del banchiere Michele Sindona, intorno a un giudice fino a qualche mese prima sconosciuto c’è un apparato di protezione imponente, una macchina da guerra. Due agenti lo precedono nella sua stanza, altri tre lo seguono come un’ombra. Mitragliette automatiche, giubbotti antiproiettile, sirene, lampeggianti. Un elicottero si alza in volo quando il corteo blindato si muove fino alla piazza del Tribunale. Il giudice istruttore della sesta sezione penale del Tribunale di Palermo diventa il primo bersaglio della mafia siciliana. Di notte, in via Notarbartolo, due poliziotti stanno di guardia anche dietro la porta di casa sua. Giovanni Falcone non dorme mai a sonno pieno. Qualcuno comincia dire che è uno «sceriffo», un sbirro travestito da magistrato. Il foglio cittadino, Il Giornale di Sicilia, non c’è mattina che non gli faccia trovare una sorpresa in prima pagina. Un editoriale su come si fa «veramente» il giudice, il commento di un onorevole della Regione sull’«ampollosità di certe messinscena dimostrative», l’intervento di un esimio giurista sulle «comiche figure di strani giudici che popolano il proscenio giudiziario dei nostri tempi». È un attacco permanente a Falcone e alle sue inchieste. Lui non replica mai. Incassa. Tace. Ingoia veleno. Per tre anni vive come un recluso. Tutto per colpa di quell’indagine sull’ex ambulante che ha allungato il latte con l’acqua. Per Falcone, ormai è vietato anche andare dal barbiere. Al cinema non si può più, bisogna liberare tre file di poltrone davanti e tre dietro. Il ristorante nemmeno. Ci prova una volta. Una sera entra in una trattoria sul mare di Mondello, si siede in un angolo con un amico e i vicini cambiano subito tavolo.

Una vita “in trincea”

Anche nella sua casa di via Notarbartolo è un inferno. L’amministratore dello stabile dove abita gli scrive: «Decliniamo ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio».
Un giorno Falcone sta per infilarsi nel portone e sente dire a un passante: «Certo che per essere protetto in questo modo deve avere fatto qualcosa di veramente malvagio».
Ai palermitani disturbati dal clamore delle scorte e dalle sue indagini, dà voce un’«onesta cittadina» che invia una lettera a Il Giornale di Sicilia. Il quotidiano pubblica volentieri e con gran risalto la lettera della signora Patrizia Santoro:
Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato o domenica che tenga), al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera (senza limiti di orario) vengo letteralmente «assillata» da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando, è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro e, quanto meno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore della sirene è molto forte?
Non è che questi «egregi signori» potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini- lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)?

Il maxi processo, la prima grande sconfitta della mafia siciliana

Giovanni Falcone è un bersaglio mobile. I mafiosi seguono tutti i suoi movimenti, decodificano i segnali a favore o contro il giudice che s’incrociano al Palazzo di Giustizia, fanno attenzione alle mosse politiche di Roma sul maxi processo. È una partita a scacchi. Lui e Paolo Borsellino sono appena tornati dall’Asinara dove li hanno trasportati dopo le uccisioni di Cassarà e Montana. «Motivi di sicurezza». Un commissario informa il consigliere Caponnetto che c’è un piano per ucciderli. Il trasferimento è immediato, in elicottero.
Per due settimane sono reclusi come detenuti fra le mura del penitenziario dell’isola. Qualche mese dopo l’amministrazione penitenziaria recapita una fattura all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, 415.800 delle vecchie lire a testa per il vitto e l’alloggio nel supercarcere. Un «regalo» dello Stato al pool antimafia. «Ni vippimu ù vinu ma ù paammu», ce lo siamo bevuti il vino ma l’abbiamo pagato caro, ripete quando è in vena di scherzare Paolo Borsellino ricordando il conto presentato dal ministero di Grazia e Giustizia.
Alla fine dell’estate 1985 Totò Riina è latitante da sedici anni, Bernardo Provenzano da ventidue. Non li cerca nessuno. Palermo è spaccata, la città ha due volti, voglia di cambiare e voglia di mafia. Il maxi processo sta per iniziare e ci sono giudici che si defilano. Nessuno vuole fare il presidente. S’inventano malattie, problemi di famiglia. Nessuno vuole guai. Si fa fatica a trovare un presidente per il processo alla mafia. È la mattina del 10 febbraio del 1986 quando si apre il dibattimento. Sono 474 gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con loro, sono finiti all’Ucciardone anche l’ex sindaco Vito Ciancimino e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Il presidente della Corte di Assise è Alfonso Giordano, viene dal civile, è una grande sorpresa. Il giudice a latere è Pietro Grasso, i pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino.
«Silenzio, entra la Corte», intima in prima pagina il Giornale di Sicilia. Un titolo perfetto per il processo dove per la prima volta ci sono mafiosi che vogliono parlare. Per diciotto mesi a Palermo non vola una mosca. Neanche uno scippo. Il 16 dicembre 1987, dopo 35 giorni di camera di consiglio, 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassa la sconfitta più dura della sua storia: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere.
«La mafia è in ginocchio», dichiarano trionfalmente i ministri di Roma. La notizia delle condanne al maxi processo di Palermo fa il giro del mondo. È la vittoria finale – l’unica, come vedremo – di Giovanni Falcone, quello delle «comiche figure» e delle «sceneggiate» descritte sul foglio cittadino. Tutti sono euforici. Tutti sono sicuri che ormai la mafia è alle corde, ferita mortalmente.
C’è solo un uomo che non si fa travolgere dalla sbornia e dall’eccitazione del successo: Giovanni Falcone. Sa troppe cose sulla mafia e i suoi complici. Sa che adesso sta per arrivare il momento più difficile. Per lui e per Palermo.

Il matrimonio con Francesca Morvillo

Qualche mese dopo l’inizio del maxi processo – nel maggio 1986 – si è sposato con Francesca. Una cerimonia blindata, in gran segreto con i parenti più stretti. Il matrimonio lo celebra il sindaco Leoluca Orlando, un giovane democristiano cresciuto all’ombra del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Orlando è vicino ai gesuiti, ha alle spalle solidi studi in Germania, un’influente famiglia, è un riformatore cattolico che si scaglia contro i ras del suo partito e avvia una rivoluzione politica e morale che prende il nome di «primavera di Palermo». Gli altri sindaci non avevano mai osato pronunciare la parola mafia. Orlando, al contrario, attacca gli uomini d’onore con tutte le sue forze. A cominciare da Salvo Lima e dal suo protettore Giulio Andreotti. Fa costituire il Comune parte civile al maxi processo, scende in piazza con migliaia di ragazzi che manifestano a favore del pool.
Ma dal ventre di Palermo affiorano i fetori di un potere che non si vuole arrendere. In piazza non ci sono soltanto gli studenti. Arrivano anche gli edili senza più lavoro, i cantieri degli imprenditori mafiosi sono chiusi. Urlano contro i giudici, per le strade innalzano cartelli: «Viva la mafia, viva Ciancimino». In corteo portano a spalla la bara del sindaco Orlando, sfilano con loro sindacalisti, uomini politici, tutta la Palermo di un sottobosco che è legato a doppio filo con chi fa droga e morti. Giovanni Falcone, ancora una volta ha visto giusto. Ci sono state le condanne al maxi processo, ma tira sempre una brutta aria in città. Qualcuno cerca di far tornare indietro Palermo.

Il “pittore” Liggio 

Per caso vengo a sapere che uno degli imputati del maxi processo è anche un pittore. E non un imputato qualunque: è Luciano Liggio. I suoi avvocati raccontano che all’Ucciardone scrive poesie, legge Dostoevskij, studia i filosofi presocratici. E dipinge. Paesaggi di campagna, i tetti delle case della sua Corleone, gli alberi del bosco della Ficuzza. A Palermo gli stanno organizzando una mostra – tutta per lui in una galleria d’arte di via Dante, a due passi dal teatro Politeama. Dopo Palermo, i suoi quadri faranno il giro d’Italia. Roma, Firenze, Milano. Luciano Liggio annuncia che donerà il ricavato della vendita delle sue opere all’ospedale di Corleone per acquistare macchinari per la dialisi. Un boss filantropo. Il vernissage è fissato per il 6 gennaio 1987. Qualcuno però mi soffia all’orecchio che il pittore non è lui, Liggio, ma un suo compagno di cella. Non riesco a scoprire chi è. Dopo qualche anno sarà lui a svelarsi. «Ero io a fare quei quadri», confessa Gaspare Mutolo, mafioso della Piana dei Colli quando si pente. Uno di quei paesaggi esposti tanto tempo fa nella galleria di via Dante, adesso è a casa mia. L’ho comprato da Mutolo. È Monte Pellegrino visto da Mondello. Sul mare scende dal cielo qualcosa che assomiglia a una corona di fiori rossi, in realtà sono i tentacoli di una piovra.


Un cratere ingoia il giudice che fa tremare i complici della mafia

È il 23 maggio, ore 16.40. Giovanni Falcone è appena decollato dall’aeroporto di Ciampino su un aereo assieme alla moglie Francesca. È una decisione dell’ultimo momento. Ma i sicari sono già appostati sull’autostrada. Una talpa li avverte che il giudice sta scendendo a Palermo. L’aereo atterra a Punta Raisi. Gioacchino La Barbera percorre in macchina la stradina parallela all’autostrada, segue le tre blindate del giudice con il telefonino sempre acceso. È in contatto con i mafiosi che da un paio di ore sono in attesa sulla collinetta di Capaci: Giovanni Brusca e Antonino Gioè, Santino Di Matteo, Salvatore Biondino, Mariano Troia, Giovanbattista Ferrante. Lo svincolo è quello di Capaci, il territorio è nel comune di Isola delle Femmine. Un botto terrificante, la terra che si apre, il fumo, una colonna di fuoco alta quindici metri, un cratere profondo dove precipitano due delle tre Croma blindate. La terza viene ritrovata a una sessantina di metri, in mezzo a un campo di ulivi. Dentro ci sono i corpi di tre agenti carbonizzati: Antonio Montinaro. Vito Schifani. Rocco Di Cillo. C’è anche l’«indio» con loro? Chiedo subito di lui, l’«indio». Non ho mai saputo il suo nome, ha una faccia da Apache. Ho trascorso mattinate intere a parlare con quel poliziotto tutto nervi e con i capelli neri raccolti in un codino, dietro la porta del bunker in attesa di Giovanni Falcone. È simpatico, sveglio, ha la mania degli orologi. Ne porta tre al polso destro, due a quello sinistro. Ogni volta che lo vedo, gli chiedo che ora è e ridiamo sempre alla stessa stupida battuta. Ci beviamo il caffè, passeggiamo avanti e indietro nell’ammezzato buio, chiacchieriamo di tutto e di niente. Non faccio mai domande sul giudice che lui scorta da dieci anni. L’«indio» lo rivedo ai funerali, il 25 maggio. Mi abbraccia. Ha una gamba ingessata. Una settimana prima è caduto da una scala e se l’è rotta. L’«indio» si è salvato. La morte di Falcone Francesca Morvillo è ferita, se ne va un’ora dopo in ospedale. Alle 19 Giovanni Falcone non respira più. «Mi è morto fra le braccia», singhiozza Paolo Borsellino. Il 25 maggio del 1992 saltano tutte le manovre e le camarille per l’elezione del Presidente della Repubblica. La strage di Capaci porta al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro. 

Il 25 maggio qualcuno fa sparire dal computer del giudice tutti i file che custodiscono i suoi diari. Svuota la memoria di un altro portatile rimasto sulla scrivania al ministero, cancella il disco rigido del Toshiba che è nello studio della sua casa di via Notarbartolo.
Dopo ogni delitto eccellente, passa sempre qualcuno a ripulire la scena.
Il giudice che quasi nessuno ha rispettato in Italia, un mese dopo la morte è commemorato al Congresso americano. A Washington votano all’unanimità una risoluzione per mettere tutti in guardia: la sua uccisione «è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America».
Nel grande atrio della scuola dell’Fbi, a Quantico, in Virginia, c’è un suo busto in bronzo. L’hanno messo lì, proprio in quel punto, perché gli allievi che vogliono diventare agenti speciali devono passare davanti a Giovanni Falcone almeno due volte al giorno. Per rendere onore a un grande italiano.


Il maxi processo è in Cassazione, Totò Riina trema e ordina l’esecuzione

Falcone sa – gliel’ha raccontato Tommaso Buscetta – che Andreotti «è il referente di Cosa Nostra». E poi un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, gli ha rivelato «di avere visto il senatore personalmente a colloquio con alcuni capimafia».

È stato nel 1980, a Palermo, subito dopo l’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella. Il governo Andreotti, decima legislatura, per uno strano scherzo del destino, sarà ricordato come l’esecutivo che ha approvato le più severe leggi antimafia nella storia della nostra Repubblica.

Poi, nel dicembre del 1991, all’improvviso succede qualcosa. Gaspare Mutolo, grande trafficante di stupefacenti e mafioso di rango, dal carcere di Spoleto dove è rinchiuso chiede di parlare con Falcone. Il giudice lo incontra. Mutolo gli dice: «Voglio pentirmi, ma solo con lei».

Falcone è direttore degli Affari penali del ministero, è ormai fuori dai ruoli della magistratura e non può ascoltarlo. Gaspare Mutolo si ferma, si tira indietro. «O lei o nessuno», insiste Mutolo che torna a fare il carcerato.

Nel dicembre del 1991 accade qualcos’altro.

Totò Riina decide di uccidere Giovanni Falcone.

La sentenza di morte è stata emessa nel 1981. Ma dieci anni dopo viene ufficialmente «deliberata» dalla Cupola.

Nelle ultime settimane i boss vengono a sapere che il maxi processo, il loro processo, in Cassazione non sarà presieduto da Corrado Carnevale, il magistrato che negli ultimi anni ha annullato centinaia di sentenze con imputati mafiosi. «Uno giusto come Papa Giovanni», dice di lui Pieruccio Senapa, uno dei sicari agli ordini di Totò Riina.

Chi è Corrado Carnevale

È siciliano di Licata, terra agrigentina. Nasce nel 1930, a ventitré anni è già uditore giudiziario, poi giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. È una carriera di glorie e fasti quella di Corrado Carnevale, il giudice che ama il cavillo. Lavora per due decenni all’Ufficio del Massimario, alla prima sezione civile e alle sezioni unite della Suprema Corte, va alla Corte di Appello di Roma, rientra in Cassazione. Alla prima sezione penale dove approdano i delitti di mafia, terrorismo, omicidio, strage.

Nel dicembre 1985 diventa il presidente della prima sezione penale («Il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione», precisa lui), piega a livelli fisiologici l’arretrato. Quando s’insedia sono 7065 i processi che attendono l’esame, nel maggio 1989 scendono a 837.

Prima del suo arrivo la prima sezione è chiamata «la Corte dei rigetti», diventa la «Corte di San Carnevale». Esamina 6 mila processi l’anno, uno su tre è «cancellato», con o senza rinvio. Alla prima sezione ci resta per 7 anni meno quattro giorni. È dotato di una memoria prodigiosa. I suoi colleghi dicono che conosce ogni carta del processo che giudica. Come giudica è altro argomento.

 


Bocciato e umiliato anche quando si presenta a Palazzo dei Marescialli

È come se fosse trascorso un secolo dalla sentenza del maxi processo nell’aula bunker.
Se Palermo è in bilico, Giovanni Falcone è sull’orlo di un precipizio. All’ufficio istruzione è rimasto prigioniero di Meli, è in feroce polemica con l’Alto Commissario Domenico Sica, alcuni giudici del pool – Giuseppe Di Lello per primo – se ne vanno sbattendo la porta, Paolo Borsellino è diventato procuratore della repubblica di Marsala. L’entusiasmo della città per gli «eroi» dell’Antimafia è passato di moda.
Totò Riina è sempre libero, Palermo è sempre nelle mani dei suoi macellai. I Madonia di Resuttana, i Ganci della Noce, i Graviano di Brancaccio, i Galatolo dell’Acquasanta, i Buscemi di Passo di Rigano. Il giudice Falcone è disperato. E va incontro ad altre delusioni. Il giorno dopo il fallito attentato all’Addaura, il Consiglio superiore della Magistratura lo nomina procuratore aggiunto.
Il capo dell’ufficio è Piero Giammanco, un frequentatore di salotti, buon amico di Mario D’Acquisto, il presidente della Regione ai tempi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Giovanni Falcone rimane incastrato anche in procura. Non può fare un passo. È controllato a vista. La porta di Giammanco è sempre chiusa per lui. Un giorno ha bisogno di parlare con il capo, aspetta su un divano, fa anticamera per trentacinque minuti come l’ultimo degli uditori. Mortificazioni, indagini ferme, altri sospetti. Il giudice si tormenta, non sa più cosa fare.
«Falcone è finito», dicono a Palermo. Ci sono amici che gli consigliano di candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. Lui è contrario. Poi si convince che quella è l’unica soluzione per poter influenzare la politica giudiziaria e continuare la sua battaglia antimafia. Comincia a ipotizzare l’istituzione di una Superprocura per coordinare le indagini delle procure sul territorio, dice che ci vuole anche una polizia specializzata, come l’Fbi.
È questa la sua «campagna elettorale». Non partecipa agli incontri con i colleghi della sua corrente, non cerca voti per farsi eleggere. «Lo sanno chi sono», risponde a tutti. Viene bocciato. I magistrati italiani non lo votano per il Csm. Non lo vogliono fra i piedi nemmeno lì. Sono pochi i giudici che gli vogliono bene. Una è Ilda Boccassini, il pubblico ministero di Milano che in quei mesi – è la metà del 1989 – inizia a indagare sulla mafia al Nord. È la Duomo Connection, trafficanti siciliani in combutta con amministratori pubblici milanesi.


Quando la magistratura colpisce alle spalle il giudice Giovanni Falcone

La scelta del Csm

Il 19 gennaio 1988 in quattordici scelgono Meli e in dieci Falcone. La bocciatura è trasversale. A tramare fra i consiglieri togati del Csm c’è Vincenzo Geraci, un ex sostituto procuratore di Palermo. Tesse la sua ragnatela, convince una larga maggioranza a votare per Meli. A Falcone voltano le spalle anche molti consiglieri della sua stessa corrente – Unità per la Costituzione – e quasi tutti i rappresentanti di Magistratura Democratica. L’unico a difenderlo con passione è Gian Carlo Caselli. «Se non lo fermavamo, ce lo trovavamo fra sei mesi presidente della Cassazione», dicono a Palazzo dei Marescialli dopo il voto. «Sono un uomo morto», confida Giovanni Falcone ai pochi amici che gli sono rimasti. Il giudice sta diventando carne da macello.
Che cosa aveva detto il generale dalla Chiesa a Giorgio Bocca poco prima di morire? «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perché è isolato». La battaglia del Csm non è stata solo una bega fra magistrati, una rissa corporativa. E la prova arriva subito, appena il consigliere Antonino Meli s’insedia e comincia a demolire sistematicamente il pool antimafia. Il maxi processo concluso a dicembre è un ricordo sbiadito. Palermo torna la Palermo di sempre. Da qualche mese, in gran segreto, c’è un nuovo pentito che parla. È Antonino Calderone, un catanese che conosce gli affiliati di Cosa Nostra in tutta la Sicilia. È un’altra retata con centinaia di arresti. Calderone racconta anche i rapporti di contiguità del ministro repubblicano Aristide Gunnella con il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, ricorda come si è dato da fare Salvo Lima per far trasferire alcuni poliziotti non «addomesticabili», descrive i misfatti dei Cavalieri del Lavoro di Catania.


Con un colpo di penna un giudice cancella per sempre il pool antimafia

L’AZIONE DI ANTONINO MELI

Il nuovo consigliere istruttore Antonino Meli avoca l’inchiesta, la sbriciola in una quindicina di tronconi, spedisce brandelli di ordinanza alle procure di competenza sparse per la Sicilia. Con una firma riporta la lotta alla mafia all’età della pietra. Prima dell’avvento di Chinnici e della «creatura», il pool, voluto da Caponnetto. Non è solo un errore di metodo.
E l’azione di Antonino Meli non è ispirata soltanto da un’altra filosofia giudiziaria. La divisione dell’inchiesta che impone – «lo spezzatino antimafia», lo chiamano i palermitani che capiscono di queste cose – è in perfetta sintonia con ciò che va teorizzando e praticando, annullando centinaia di sentenze di condanna ai boss, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione Corrado Carnevale. E cioè che quei mafiosi che Falcone fa arrestare non appartengono a una sola organizzazione – Cosa Nostra, che non esiste – ma «a un’accolita di bande» senza una direzione strategica. Gang di assassini e non «famiglie», cani sciolti senza una testa. Senza una Cupola.
L’altissimo giudice ha già ridotto in carta straccia molti processi. Nel frantumare l’inchiesta Calderone il consigliere Meli nega la competenza territoriale di Palermo per i reati di mafia, è una sconfessione assoluta del pool e delle indagini di Falcone.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con la sua nomina, ha fatto il capolavoro. Giovanni Falcone è fuori gioco. Soprattutto, è tracciata la via per l’Appello del maxi. Ci sarà – è scontato – un’altra sentenza. Il «teorema Buscetta» – o come con disprezzo dicono, il «teorema Falcone» – si sbriciolerà con il senno di giudici giusti. A Palermo è rivolta.
I magistrati del pool sono indignati, in silenzio Falcone annuncia le sue dimissioni, il Tribunale siciliano diventa il «Palazzo dei veleni». Un giorno, Meli accusa Falcone anche di collusione per non aver fatto arrestare Carmelo Costanzo, uno dei grandi costruttori di Catania. È il delirio. Un furore che serve a infangarlo sempre di più. Lui, che ha il culto del riserbo, prova a non farsi travolgere dalle polemiche, fa un passo indietro, si getta a capofitto sulle sue inchieste, finge che non sia accaduto niente. Non ha il tempo di smaltire le tossine della vicenda al Csm che, per lui, fra Roma e Palermo hanno pronta un’altra umiliazione.


Il Corvo, lettere anonime e un ”killer di stato” per isolare Falcone

Da alcune settimane gli chiedono di candidarsi come Alto Commissario per la lotta alla mafia. Ci pensa, ormai ha pochi margini di manovra dentro l’ufficio istruzione. Se vuole continuare a combattere i boss forse l’Alto Commissariato – che ha poteri straordinari – è il posto ideale. Falcone accetta la proposta.

Il 5 agosto del 1988 il Consiglio dei ministri nomina Alto Commissario antimafia Domenico Sica. È un magistrato di consumata esperienza che ha attraversato gli anni del terrorismo. Ha aperto centinaia di inchieste, ne ha chiuse poche. Sbarca in Sicilia e, con i suoi uomini, inizia una sotterranea guerra contro il pool antimafia. I mafiosi sono i primi a capirlo. Giovanni Falcone comincia ad avere paura. Sente che è circondato da troppi nemici.

È trascorso un anno molto tormentato dalla sciagura provocata dal Csm. E una lettera anonima viene recapitata negli uffici dell’Alto Commissariato: De Gennaro, e con lui i vertici della Criminalpol romana, erano perfettamente a conoscenza del fatto che Contorno si recava a Palermo per colpire i corleonesi e stanare Totò Riina. Tutto ciò era stato peraltro concordato anche con dei magistrati e in particolare con i giudici Falcone, Ayala e Giammanco con i quali in questi ultimi tempi De Gennaro si è incontrato a Palermo… De Gennaro quindi e i magistrati suddetti hanno inviato Contorno a Palermo ben sapendo che avrebbe commesso dei gravi reati. Si tratta di gravissime responsabilità se si considera che Contorno ha ucciso Mineo, Baiamonte, Aspetti, Messicati e Cerva. Sono fatti gravissimi. Sono veri e propri omicidi di Stato.

Contorno “sicario di Falcone”

Sono i primi giorni di giugno del 1989. E un Corvo, che conosce tutti i segreti del Palazzo di giustizia di Palermo, accusa Giovanni Falcone di aver manovrato un sicario, «un killer di Stato». È una calunnia, ma è la mossa vincente di un piano per screditare davanti all’opinione pubblica la figura del giudice che per molti in Sicilia rappresenta sempre il pericolo più grande.
La storia comincia il 26 maggio del 1989 quando, nelle campagne di Bagheria, viene catturato Salvatore Contorno.
Il pentito vive nascosto in un paese alla periferia di Roma, sotto protezione, ma in quelle settimane arriva a Palermo per colpire i suoi nemici di cosca. Sfugge al controllo della polizia, qualcuno insinua però il sospetto che sia stata proprio la polizia a sguinzagliarlo e a spedirlo nell’isola per stanare Totò Riina. Con l’«autorizzazione» di Falcone.
La notizia dello sbarco a Palermo di Contorno è top secret, il Corvo è al corrente di indagini molto riservate. Solo tre o quattro magistrati conoscono certi dettagli. Scoppia uno scandalo. Dopo un paio di settimane, il Corvo viene individuato nel sostituto procuratore della repubblica Alberto Di Pisa. Lui nega di essere l’autore dell’anonimo, dichiara però di condividerne il contenuto e attacca pubblicamente il giudice Falcone.
Condannato in primo grado «come responsabile delle delazioni anonime», in appello sarà assolto. Ma Giovanni Falcone è ormai sulle prime pagine dei giornali. Accusato di fare «il gioco sporco». Di aver usato un mafioso contro i mafiosi. È il disonore più grande che gli piomba addosso da quando è a Palermo. È anche il movente ideale per ucciderlo. Perché è andato fuori dalle regole. Perché non è un vero giudice ma – come alcuni insistono da tempo – «uno sbirro».


La sentenza del maxi processo e poi l’omicidio di Salvo Lima

La leggenda in ermellino è seduta su una panca del Palazzo di Giustizia di Palermo. In carne ed ossa. È la mattina del 22 giugno

del 1998, il giorno della prima udienza del suo processo come imputato di associazione mafiosa. Gli vado vicino, non si sottrae all’intervista.

È pentito, presidente? «Rifarei tutto quello che ho fatto». Che opinione ha dei procuratori siciliani che l’hanno messa sotto accusa per aver «aggiustato» un bel po’ dei loro processi contro i boss? «Rifarei tutto quello che ho ho fatto».

Ha dato del cretino a Giovanni Falcone, ripeterebbe mai quella frase? «A casa propria ognuno fa quello che vuole». Ha qualcosa da dire ai magistrati che la giudicano? «Ai signori del Tribunale posso portare il mio libretto universitario».

Verbosissimo, superbo, il magistrato che considera la mafia una favola, Sua Eccellenza Corrado Carnevale mi saluta e se ne va. Assolto in primo grado. Condannato a sei anni di reclusione in Appello. Scagionato da ogni accusa in Cassazione.

In Cassazione

Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra «supera l’esame di legittimità».

È la sconfitta più dura mai subita dalla mafia. È il prodigio di Giovanni Falcone. Nemmeno due mesi dopo, il 12 marzo, a Palermo uccidono Salvo Lima, l’uomo politico più potente della Sicilia. Lo rincorrono lungo un vialetto di Mondello, gli sparano alle spalle come si fa con i traditori. È la prima volta dal dopoguerra che si registra una rottura fra i vertici mafiosi e la direzione della Democrazia Cristiana siciliana, una sorta di crisi diplomatica tra le due istituzioni più potenti dell’isola.

Totò Riina si sente ingannato dai vecchi amici. Il maxi processo è andato male. Lima ne aveva «garantito» il buon esito. Cosa Nostra non perdona.

L’omicidio di Salvo Lima è un segnale anche per Giulio Andreotti. Il cadavere del siciliano gli sbarra per sempre la strada del Quirinale, al quale aspira da anni. «Da questo momento può accadere di tutto», dice Giovanni Falcone ai giudici del pool rimasti a Palermo.


L’attentato all’Addaura, l’inizio della fine per un magistrato che fa paura

I candelotti di dinamite e di gelatina esplosiva sono cinquantotto. Li trovano sugli scogli dell’Addaura, davanti alla villa che il giudice prende in affitto d’estate. Quel giorno, il 21 giugno, Falcone ha invitato a pranzo due colleghi svizzeri, Carla Del Ponte e Claudio Lehman. Un poliziotto della scorta avvista il borsone dove è nascosto l’ordigno, un artificiere dei carabinieri precipitosamente distrugge l’innesco, Giovanni Falcone capisce subito che quello non è un «avvertimento». Sa che vogliono farlo fuori. E sa anche che, ad organizzare l’attentato, non sono stati solo i boss di Cosa Nostra. Dice, il giorno dopo il ritrovamento dei candelotti: «Sono state menti raffinatissime». E spiega: «Ci troviamo di fronte a gente che tende a orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento fra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono davvero capire le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi». Giovanni Falcone, in quell’inizio d’estate, intuisce quello che vent’anni dopo scopriranno i magistrati che indagano sulla sua morte. Mafia ma non solo mafia. Apparati dello Stato, servizi segreti. Il giudice convince la moglie a lasciare la villa dell’Addaura. Resta solo.
E comincia a dormire per terra, su un telo. Sotto il cuscino nasconde una pistola a tamburo, calibro 38. «Voglio dormire a terra per stare scomodo, non posso più avere un sonno pesante e d’ora in poi devo essere pronto a tutto. Ormai non mi posso fidare più di nessuno», racconta al suo amico Paolo Borsellino. Il 21 giugno del 1989 è il giorno in cui Giovanni Falcone comincia a morire.
Sprofondare ad ogni passoÈ agosto, un caldo appiccicoso, Palermo si sta svuotando. Finisco il mio «giro» al Palazzo di Giustizia e ho il taccuino vuoto. Sono circa le due del pomeriggio del 4 agosto 1989. Sto pensando di tornare a casa per fare qualche telefonata dopo pranzo. Sento qualcuno che mi chiama, mi volto, è un poliziotto. «Che fai?», mi chiede. Gli dico che sono stanco, che sto per andare via. Lui mi prende per un braccio: «Aspetta, ti stanno cercando». Siamo al bar «Sanremo» davanti al Tribunale. Poco dopo, arriva un alto funzionario del ministero degli Interni che conosco bene. Ci salutiamo. Mi invita a salire sulla sua auto, non mette in moto, tira fuori da una borsa un pacco di carte e comincia a raccontare: «Questo è un rapporto che ho appena consegnato al procuratore capo della repubblica. C’è tutto». Tutto su cosa?, domando. «Sul giudice Falcone spiato».
Sfoglia il dossier, mi fa leggere di «derivazioni» di linee, di doppi fili, di microspie, di strumenti che hanno registrato «tracce di tensione provenienti da un apparecchio elettroalimentato» sui telefoni nel bunker del giudice Falcone. Mi fa vedere anche alcune fotografie di quei fili incrociati l’uno con l’altro, centraline scoperchiate, apparecchi telefonici smontati. Falcone non è a Palermo. Torno a casa, leggo e rileggo quel rapporto che ho infilato nel mio zainetto. Un centinaio di pagine. È una bomba. Chiamo il caporedattore del giornale. Scrivo il mio articolo. L’indomani, un grosso titolo in prima pagina informa gli italiani che il giudice simbolo della lotta alla mafia è spiato nel suo Tribunale. Alle 10 del mattino arrivano le prime smentite ufficiali. Nel pomeriggio non c’è magistrato o poliziotto di Palermo che confermi una sola parola di quanto ho scritto. Non mi preoccupo. Ho il rapporto che è stato inviato al procuratore capo, sono sicuro che ce l’ha anche lui. Ho le carte. La mia notizia è «blindata». Continuano a smentire tutti. Passa un altro giorno e il mio amico Peppe D’Avanzo, che lavora alla redazione di Roma, raccoglie al Viminale conferme autorevoli sulle informazioni che ho pubblicato.
Il capo della polizia Vincenzo Parisi non parla in via ufficiale ma i suoi fanno sapere: «Le manomissioni scoperte sulle linee di servizio e un reperto sequestrato all’ufficio istruzione ci preoccupano molto: sono la conferma di interessi eterodossi nelle indagini in corso. Abbiamo riscontrato più di una preoccupante anomalia sull’utenza del giudice Falcone». Il coro delle smentite finalmente si placa. Mettono sotto sequestro l’ufficio del giudice. Aprono un’inchiesta ufficiale. Non ho scritto minchiate.
Dopo qualche anno, Peppe ed io abbiamo scoperto che quel rapporto era vero, sì, ma costruito «a tavolino». Nessuno spiava il giudice all’interno del Tribunale. Qualcuno però gli stava addosso. Gli voleva far sapere che era lì, alle sue spalle, pronto a colpirlo. O per proteggerlo. E chissà, salvargli la vita. Un gioco di specchi. Con il falso che diventa vero. E viceversa. Nella giungla di Palermo si può sprofondare a ogni passo.


Il pranzo al “Costa Azzurra”, l’ultimo giorno siciliano di Giovanni Falcone

Il Costa Azzurra è un ristorante sulla splendida baia di Ognina, il proprietario – il cavaliere Alioto – è stato sfiorato da un’indagine di Falcone. Alle 14.30 arriva puntuale. Il cavaliere Alioto, appena lo vede, diventa paonazzo. Poi fa salti di gioia per un ospite così importante nel suo locale. I sette uomini della scorta si siedono a qualche metro di distanza.
Il ristorante è deserto. In un angolo lontano solo un anziano signore calvo, gli occhiali che sembrano vetri di bottiglia. Chi è?, chiedo al cavaliere Alioto. «L’avvocato Cannizzaro, viene qui ogni giorno per pranzo». Giovanni Falcone è a capotavola. Alla sua destra c’è Francesco La Licata de La Stampa, alla sua sinistra ci sono io, e accanto a me Felice Cavallaro del Corriere della Sera. Ordiniamo. Mangiamo. E, intanto, Giovanni Falcone comincia a parlare del suo nuovo incarico a Roma. Verso le 15,30, al Costa Azzura arriva anche Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia che all’epoca è al ministero di Grazia e Giustizia. Dopo i frutti di mare, arriva il sarago. Tempestiamo di domande Falcone. Risponde a tutto. Nessuno di noi tira fuori i taccuini. «Grappa, per favore», chiede lui al cameriere. Sono passate da poco le 17 quando ci salutiamo. Conosciamo le regole. Falcone ha parlato ben sapendo che le sue parole sarebbero finite sui giornali, ha cambiato idea, lui l’intervista la vuole. Torno in albergo, chiamo Repubblica, liberano una pagina, l’indomani esce un bellissimo racconto di Giovanni Falcone sul suo ultimo giorno siciliano.
Diciotto anni dopo, giugno 2009. Sul divano di casa mia, a tarda sera sfoglio una rivista. C’è un articolo sul procuratore Grasso. Parla di Palermo, del maxi processo dove è stato giudice a latere, delle gioie e delle delusioni di una vita. E dei pericoli, delle paure. Racconta che ha rischiato di morire più di una volta. «Anche a Catania, un giorno lontano di febbraio, ero con Falcone e tre giornalisti, l’agguato stava per scattare…».
I killer sono appostati fuori dal Costa Azzurra, sono pronti a fare fuoco per uccidere Giovanni Falcone e poi tutti gli altri. Noi. Ma aspettano il via libera da Benedetto Santapaola, il capo di Cosa Nostra a Catania. Lo cercano disperatamente, non lo trovano. E non si muovono. Io ho saputo del mancato attentato solo tanto tempo dopo e solo sfogliando quella rivista. Nessuno mi ha mai detto niente, nessuno mi ha mai avvertito che ho rischiato di morire ammazzato e che sono vivo soltanto perché al tempo solo in pochi avevano il cellulare. Finisco di leggere l’articolo su Grasso e lo chiamo. «Ma come è possibile che nessuno le abbia mai detto niente?». È possibile procuratore. Chiamo La Licata. «Ciccio, ma tu sapevi?». Lui: «Sì, verso il 1993 e il 1994 mi sono arrivati i verbali di alcuni pentiti che raccontavano tutta la storia del Costa Azzurra. Ma perché me lo chiedi?».
Perché lo sto scoprendo soltanto ora, stasera. Nel 2009.


La “Superprocura”, la corporazione dei magistrati ancora contro di lui

Falcone se ne vuole andare da Palermo. Ha capito che non ha più motivi per restare, che non può fare più di quello che già ha fatto. Gli è appena arrivata un’offerta dal nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli.
Gli ha proposto l’incarico di direttore generale degli Affari Penali di via Arenula. «È un altro mestiere e non è il tuo», gli dicono gli amici. «È lo stesso mestiere: a Palermo ho costruito una casa, qui posso costruire un palazzo», replica lui.
Tutti lo sconsigliano, provano a dissuaderlo, gli spiegano che il ministro «vuole usarlo come un fiore all’occhiello» nella sua battaglia contro i giudici per poi disfarsene. Si raffreddano alcuni rapporti, nascono malintesi anche con i più intimi.
Qualcuno gli ricorda che Martelli fa parte di quella «quaterna» di candidati del Psi che, alle politiche del 1987, ha preso un sacco di voti dai boss, le elezioni dell’«avvertimento» di Totò Riina ai notabili democristiani e con Cosa Nostra che fa votare i socialisti di Craxi.
Martelli, poi, è stato anche uno degli avversari più duri di quella «primavera palermitana» del sindaco Orlando, uno che non ha mai nascosto la sua ostilità per quei «mostri giuridici» che sono i maxi processi. Giovanni Falcone è inquieto, si danna l’anima per quei suoi amici che non riescono a capire cosa lui ha davvero in mente. Vuole finire il lavoro che ha cominciato in Sicilia. Vuole assediare la mafia con leggi, decreti, provvedimenti.«Si è venduto», pensano alcuni a Palermo. «Ce lo siamo levato di torno per sempre», si rallegrano altri. Solo i mafiosi prevedono che là, al ministero, potrebbe «fare più danno» che in Sicilia. Prima di andare a Roma, rilascia un’intervista: «Io sono un uomo di questo Stato. Io credo alle Istituzioni. C’è chi crede di poter aggiustare le cose dal di fuori, io credo il contrario».

Dal Ministro Martelli

Giovanni Falcone prende servizio al ministero il 13 marzo 1991. Sembra un altro uomo quando mette piede nella capitale. All’improvviso dimentica le angosce e gli stenti di Palermo. Lontano dall’aria tetra che si respira in Sicilia, lontano anche da quel «Palazzo dei veleni» che lo ha costretto a vivere con la paura addosso. Falcone sembra sereno. Ma sa che non durerà a lungo. «Io e Francesca abbiamo deciso da tempo di non avere figli per muoverci con più tranquillità e continuare a fare il nostro lavoro. La lista degli orfani qui in Sicilia è già lunga, non credo che io debba contribuire ad allungarla ancora di più», confessa a Paolo Borsellino in uno di quei rari fine settimana in cui torna a Palermo.

A Roma, fuori dal territorio mafioso, è convinto al momento di stare al sicuro. Dopo tanti anni si sente libero. Incontra gli amici nei bar intorno di Trastevere, va a cena con i colleghi del ministero nelle trattorie di Campo dei Fiori. Una vita «quasi» normale. Come non gli accadeva dal 1980. Da quando sulla sua scrivania era arrivato il primo fascicolo su Rosario Spatola.

Con Claudio Martelli c’è intesa. Il ministro della Giustizia gli dà via libera per un «pacchetto antimafia» che ha elaborato e ascolta per settimane i suoi suggerimenti. Anche l’ultimo, quando il giudice gli fa un esempio: «Cosa Nostra ha la sua Cupola e anche noi dobbiamo averla: una Superprocura nazionale che coordini tutte le procure. Solo così riusciremo a fronteggiare il crimine organizzato, altrimenti ogni ufficio giudiziario va per conto suo e noi perdiamo la visione d’insieme del fenomeno…». Il ministro Martelli annuncia l’istituzione della Superprocura. Sembra il posto giusto per Falcone. Ma, ancora una volta, la magistratura italiana gli si rivolta contro. I soliti nemici. E, adesso, anche gli amici. «Non puoi metterti lì, ti vedono come il consigliere del Principe», gli urlano.

È solo anche fra i giudici della sua corrente, il Movimento per la Giustizia che ha contribuito a fondare. È attaccato da Magistratura Democratica e da tutta la sinistra. Troppo potere nelle mani di un solo uomo. Falcone è un accentratore. Falcone non può rappresentare la faccia pulita di Martelli. Qualcuno trova un candidato da contrapporgli. Individuano Agostino Cordova, il procuratore di Palmi che ha appena concluso due inchieste: una sulla massoneria segreta e l’altra sugli scandali dei socialisti in Calabria. È il personaggio perfetto per lanciare la sfida a Giovanni Falcone, «uomo» di Martelli. La commissione per gli incarichi direttivi del Csm si ripete, torna a recitare un copione già visto. Come due anni prima nel caso Meli-Falcone, sceglie il candidato Agostino Cordova per tre voti contro due.

Il Plenum del Consiglio Superiore non farà in tempo a bocciare Falcone per la seconda volta. Il 23 maggio del 1992 è vicino. Giovanni Falcone è furibondo, anche questa volta era sicuro di farcela. Ma va avanti, non molla, è fatto d’acciaio. Al ministro Martelli presenta il suo «piano» Confische dei beni, una legge sui collaboratori di giustizia, il carcere duro per i boss. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli e quello dell’Interno Vincenzo Scotti costringono il presidente del Consiglio Giulio Andreotti a far passare il «pacchetto antimafia». Falcone vuole anche spedire tutti i capi di Cosa Nostra nelle prigioni speciali: sulle isole di Pianosa e dell’Asinara. Il governo sembra d’accordo anche su questo punto

 


I sicari ritornano a Palermo, comincia il conto alla rovescia di Capaci

A Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. È un bersaglio facile.

Falcone passeggia per le strade della capitale senza poliziotti dietro, incontra amici, niente blindate, mitragliette, scorte. Poi, i mafiosi incaricati di ammazzarlo ricevono l’ordine di tornare in Sicilia. Giovanni Falcone deve morire ma non deve succedere a Roma, in un agguato con armi corte – pistole e fucili – dentro un delitto mafioso tradizionale.

Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Nella dinamica che cambia si rintraccerà la matrice della strage, che non è solo mafiosa. Qualcuno indica ai boss il «modo» per farlo fuori. È una di quelle «convergenze di interessi» di cui Falcone ha parlato per anni sui delitti politici di Palermo. Adesso tocca a lui.

In Parlamento sono iniziate le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica. I primi candidati di bandiera sono già bruciati. Andreotti sembra fuori gioco. Sfiora il quorum il segretario della Dc Arnaldo Forlani. Racimola poco più di 200 voti l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Conso. L’Italia non ha ancora il suo presidente.

 


La vendetta di Totò Riina, l’esecuzione dei poliziotti Montana e Cassarà

La notte del 29 settembre del 1984, festa di San Michele, parte la retata antimafia del secolo. I boss vengono trascinati fuori dalle loro case e trasportati in carceri lontane dalla Sicilia. Il giudice Falcone ha quasi concluso quel lavoro cominciato con quel fascicolo su Rosario Spatola. Ha dimostrato a tutti che la mafia non è invincibile. Dopo Buscetta si pente anche Salvatore Contorno. Altri 127 mandati di cattura. Un’apocalisse per Cosa Nostra.
L’inchiesta di Falcone si rivela un successo senza precedenti per lo Stato. È in quei giorni che, accanto all’Ucciardone, cominciano a scavare. Costruiscono una gigantesca aula bunker, una cittadina blindata a prova di attentato. Il maxi processo a Cosa Nostra si farà lì. Il maxi processo che non riusciranno mai a vedere due degli uomini che, al fianco di Falcone, hanno rivoltato e ripulito la città. Sei mesi prima dell’inizio del dibattimento ammazzano anche loro. Il commissario Giuseppe Montana viene ucciso sul molo di Porticello il 28 luglio del 1985, il 6 agosto tocca a Ninni Cassarà. È la prima controffensiva al terremoto provocato dal pool antimafia.

L’incontro con Beppe Montana

Mi cerca una settimana prima. Un pomeriggio me lo ritrovo a casa, non era mai capitato prima. Ci siamo sempre visti da lui, alla squadra mobile, nei corridoi del Tribunale, ogni tanto a colazione alla «Taverna di John», dietro piazzale Ungheria. Beppe Montana sale, gli apro la porta, cerca con gli occhi un divano e ci sprofonda sopra. Preparo un caffè, mi sembra stanco, nervoso. Non gli chiedo niente, perché è venuto a casa mia, cosa è successo, se ha qualcosa da dirmi. Parla lui, dopo qualche minuto: «Mi sembra di girare a vuoto, più scopro questa città e più trovo schifezze. Mi accenna a un’indagine sulla quale sta lavorando, riciclaggio. «Non ti posso raccontare molto. Ma in procura non mi vogliono far andare avanti, io cerco mafiosi e loro vogliono che mi occupi delle partite comprate e vendute del Palermo». Ancora non gli chiedo perché è venuto. Beve il caffè, si alza dal divano. Sulla porta mi dice: «Siamo segnati, siamo soli anche in Questura».
Sette giorni dopo Beppe Montana è morto. Il 6 agosto, è la volta di Ninni Cassarà. Sotto il palazzo dove abita, davanti agli occhi di sua moglie Laura. Sono in quindici ad aspettarlo, alcuni armati di Kalashnikov. Qualcuno probabilmente li avverte. Una talpa. Dentro la polizia ce ne sono tante. E Cassarà, più di una volta, ha sospettato dei suoi superiori. Con il capo della sezione «investigativa» muore anche Roberto Antiochia, l’agente fedele che da anni guarda le spalle a un poliziotto particolare, un investigatore raffinato, un uomo colto, coraggiosissimo. Giovanni Falcone non perde solo lo sbirro che più di altri ha creduto in lui. Piange un amico. Un paio di giorni dopo non sono più a Palermo, sono a Roma. È più tranquilla per me. Sono in redazione a Repubblica e giù, in portineria, c’è una donna che mi cerca. È una signora di una certa età, capelli bianchi, gentile, triste, due occhi lucidi di lacrime. Si presenta: «Sono Saveria Antiochia…».
È la madre di Roberto, mi consegna una sua lettera sulla vita da cani che hanno costretto a fare a suo figlio, al commissario Montana, a Ninni Cassarà. Mandati allo sbaraglio. Nei suoi appunti c’è scritto che l’auto blindata li ha spesso lasciati a piedi, durante qualche pedinamento l’hanno dovuta anche spingere a mano. Porto la lettera di Saveria a Eugenio Scalfari che la pubblica in prima pagina. Si scatena l’inferno al ministero degli Interni. Un alto funzionario del Viminale chiama il mio direttore e lo informa che io «sono portatore di interessi palermitani». Sì, è vero. Quelli di Montana e di Cassarà.

Le vendette trasversali

I Corleonesi lanciano la loro sfida anche con le «vendette trasversali». Fanno fuori i parenti dei pentiti. Trentacinque sono quelli che perde Salvatore Contorno. Dieci Tommaso Buscetta. La campagna terroristica di Totò Riina – chi parla muore! – si apre con l’agguato a Leonardo Leuccio Vitale, un mafioso che tredici anni prima è entrato alla squadra mobile di Palermo in preda a una crisi mistica denunciando 42 boss. Il primo della lista è Totò Riina, allora quasi ignoto agli investigatori. I giudici lo dichiarano «pazzo», internano Leonardo Vitale in un manicomio criminale. Quando Leuccio torna in libertà tutti si dimenticano di lui. Tutti tranne Riina. I pentiti sono «indegni». Rovinano famiglie. Parlano per la «mesata» o per regolare conti con i nemici di cosca. Inventano «tragedie» e spifferano minchiate. Nel gergo dei palermitani entrano nuovi vocaboli.
La prima volta che sento pronunciare certe parole è sui moli dell’Arenella, una delle borgate di Palermo. Ci sono alcuni ragazzini che giocano, si inseguono, si sfottono. Uno grida all’altro: «Sei muffuto», sei spione. L’altro gli risponde: «E tu sei cornuto e Buscetta». Per offendere qualcuno, a Palermo non si dice più «cornuto e sbirro» ma «cornuto e Buscetta». Una sera mi siedo al tavolo di un ristorante dietro la centralissima piazza Politeama. Scelgo il vino, poi con gli amici guardiamo il menu. Arriva il cameriere, sorride, chiede: «Vi posso aiutare?». Polpettine di sarde. Linguine con i ricci. Panata alla palermitana. Prima di andarsene, il cameriere fa un sorriso e dice: «In questo ristorante abbiamo tutto ma non serviamo Contorno»


“Prima Luce”, poi Tommaso Buscetta e la mafia è nuda agli occhi del mondo

Tommaso Buscetta, uno dei più influenti mafiosi di Palermo, uomo chiave del traffico internazionale di stupefacenti, una vita avanti e indietro con l’America – è soprannominato «il boss dei due mondi» – arrestato a Palermo e scarcerato, arrestato sul ponte di Brooklyn e rimesso in libertà, arrestato in Brasile e pronto per l’estradizione in Italia.
È il 15 luglio quando su un Boeing 747 che lo sta riportando a Roma, don Masino tenta il suicidio. Poi decide di vuotare il sacco con Giovanni Falcone. Parla per 45 giorni in una stanza della Criminalpol di Roma. Racconta fatti, personaggi, affari, omicidi, ricatti, vergogne. Vent’anni di mafia. La sua confessione riempie 329 pagine. Il giudice scrive tutto con le sue stilografiche. Non fa verbalizzare a nessuno. Non si fida di nessuno. E non trapela nulla all’esterno.
Tommaso Buscetta da grande mafioso si trasforma nel grande pentito di Cosa Nostra – «Dottore Falcone, noialtri la chiamiamo…Cosa Nostra e non mafia…», gli dice – e rivela migliaia di nomi di affiliati, spiega la divisione che c’è fra le «famiglie» di Palermo e i Corleonesi di Totò Riina, riferisce i retroscena di centinaia di delitti, ricostruisce quello che è accaduto nella Sicilia mafiosa dalla strage di Ciaculli del 1963 in poi. Soprattutto, a Falcone consegna la «chiave» per decifrare il suo mondo. Dopo don Masino, ne arriveranno molti altri a infrangere il muro dell’omertà.
È il primo mito mafioso che crolla. Il pentito affida la sua vita nelle mani di un giudice che è siciliano come lui, che lo capisce con uno sguardo, che sa interpretare anche i suoi silenzi, che da un gesto intuisce uno stato d’animo.
Falcone crede a Tommaso Buscetta. Sa che non ha detto tutto, ma sa che quello che ha detto è tutto vero. Buscetta non si sente un traditore. Si sente tradito dalla «sua» Cosa Nostra che non c’è più, sopraffatta da Totò Riina. Il suo pentimento fa tremare Palermo.
Prima di iniziare il suo racconto, Tommaso Buscetta avvisa il giudice al quale sta per depositare tutti i suoi segreti: «Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia. L’avverto, dottor Falcone. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non se lo dimentichi: il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai». Per la prima volta Cosa Nostra è nuda agli occhi del mondo. Tutti gli schemi investigativi precedenti saltano, le inchieste subiscono uno sconvolgimento, i boss sono atterriti da Buscetta e si preparano al peggio.
Falcone ordina a Gianni De Gennaro 3600 riscontri. Settantacinque giorni dopo quel 15 luglio, il consigliere Antonino Caponnetto, i giudici Falcone e Borsellino, Di Lello e Guarnotta firmano 366 mandati di cattura, contestano 300 reati, fanno luce su 121 omicidi. È il primo pilastro di una gigantesca istruttoria di 8067 pagine, il processo «all’organizzazione denominata Cosa Nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore».
Giovanni Falcone s’inabissa negli inferi mafiosi e non ne esce più. Scopre un mondo di logica implacabile, un sistema di potere che è quasi Stato. Racconta alla giornalista Marcelle Padovani: «Prima di Tommaso Buscetta non avevamo che un’idea superficiale di questo fenomeno. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro, ci ha fornito numerose conferme sulla struttura, tecnica di reclutamento e funzioni di Cosa Nostra, ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno.
Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare con i turchi senza parlare con i gesti. Ci ha insegnato un metodo. Senza un metodo non si capisce niente. Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello e le indagini in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra».


Antonino Caponnetto sbarca a Palermo e nasce il “pool antimafia”

Lo «spettacolo» vero comincia nell’autunno del 1983. L’11 novembre arriva a Palermo il nuovo consigliere istruttore, quello che deve prendere il posto di Rocco Chinnici ammazzato a luglio. Ha sessantatre anni, cereo in volto, è quasi calvo, veste dimesso, passa inosservato, è schivo, sembra gracile, parla poco e ascolta tanto.
Si chiama Antonino Caponnetto, è originario di Caltanissetta e viene dalla Corte di Appello di Firenze. Ha fama di uomo virtuoso e di magistrato di vecchio stampo. Non sa nulla di mafia, di trafficanti, di Rosario Spatola e di Vito Ciancimino. Gli avvocati dei boss si scambiano strizzatine d’occhio, fanno battute su quel magistrato dall’aspetto così anonimo e ormai prossimo alla pensione. È quello che ci vuole per Palermo dopo le «intemperanze» di Rocco Chinnici, uno che la mafia la vedeva dappertutto e andava pure a raccontarla nelle scuole.
Gli avvocati di Palermo prendono un grosso abbaglio. Una settimana dopo il suo insediamento, Antonino Caponetto, che a Firenze ha lasciato moglie e tre figli, convoca i giudici istruttori nella sua stanza. Parla per pochi minuti. Dice: «Dobbiamo continuare il lavoro dal punto dove Rocco è stato costretto a interromperlo, dobbiamo andare avanti tutti insieme». È la nascita ufficiale del pool antimafia. I semi li ha gettati Chinnici, l’«invenzione» di una struttura specializzata per contrastare la mafia è di Caponnetto. Il nuovo consigliere istruttore scrive a Gian Carlo Caselli e a Ferdinando Imposimato, chiede indicazioni tecniche su come si sono organizzati in «squadre» negli anni del terrorismo. Decide di assegnare a se stesso – il capo dell’ufficio – tutti i procedimenti di criminalità organizzata e distribuire ai giudici le deleghe per i singoli atti. Poi sceglie gli «allievi» di Rocco. Sono loro il pool. Uno è Giovanni Falcone. L’altro Paolo Borsellino. Il terzo Giuseppe Di Lello, il quarto Leonardo Guarnotta.
Il consigliere venuto da Firenze è il loro scudo in una Palermo sempre più incarognita. È il fratello più grande, l’amico, il galantuomo al comando di un ufficio giudiziario che diventa il motore di tutte le indagini sulla mafia siciliana. Da quel momento cambia per sempre la vicenda di Palermo. Antonino Caponnetto, della città dove è finito, conosce solo i «percorsi» in cui s’infilano gli agenti della sua scorta, le strade che dalla caserma di via Cavour portano al Tribunale.
Vive come un monaco nella foresteria della Finanza, una branda, le Confessioni di Sant’Agostino e la Recherche di Proust sul comodino, la mensa, il giorno dopo sempre come il giorno prima. I magistrati del pool trovano posto in un mezzanino buio, dietro una porta blindata. Lì Giovanni Falcone trasferisce anche le sue papere. Oltre a quelle di terracotta, adesso ne ha diverse in vetro e alcune di legno, preziosissime, colorate a mano. È una stagione speciale per Palermo. Al ministero di Grazia e Giustizia si alternano Mino Martinazzoli e Virginio Rognoni, all’Interno c’è Oscar Luigi Scalfaro. Arrivano mezzi e uomini in Sicilia. Arrivano auto blindate, fotocopiatrici, i primi computer. Cominciano a ricevere deleghe d’indagine dal pool antimafia anche tre funzionari della Criminalpol di Roma, poliziotti moderni, molto svelti, fidatissimi. Sono Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa.
L’inchiesta su Rosario Spatola si allarga ogni mese di più, adesso ha 120 imputati. Quello che riserva l’immediato futuro, però, non se lo immagina nessuno a Palermo. Neanche Giovanni Falcone. La telefonata gli arriva una mattina d’inizio d’estate del 1984 da Gianni De Gennaro: «Buscetta vuole parlare». Falcone pensa: «De Gennaro è ubriaco».


Quando le eccellenti toghe tramano e provano a fermare Giovanni Falcone

Giovanni Falcone scambia le informazioni della sua indagine con Gherardo Colombo e Giuliano Turone, i giudici milanesi che stanno rinviando a giudizio Sindona per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
S’insospettisce per una loggia segreta, la «Camea», che è una piccola P2. Ormai si rende conto che la sua inchiesta sull’ex venditore ambulante di latte è in realtà un’inchiesta su tutta la mafia di Palermo.
Giovanni Falcone ha bisogno intorno a sé di uomini capaci per poter andare avanti, per non fermarsi alla borgata dell’Uditore e alle valigie piene di dollari che tornano da Cherry Hill. Li trova. Nella Finanza c’è il colonnello Elio Pizzuti. Nella Polizia ci sono il capo della sezione «investigativa» Ninni Cassarà e quello della «catturandi» Giuseppe Montana. Nei carabinieri c’è il capitano dell’Anticrimine Angiolo Pellegrini. Alcuni sono siciliani e altri vengono da fuori, non hanno rivalità di corpo, fanno sempre «coordinamento» – espressione burocratica che in quegli anni non è ancora in uso tra ministri e alti papaveri – e lo fanno con naturalezza: per salvarsi la pelle.
Un prodigioso apparato investigativo sta per mettersi in moto contro la mafia siciliana. Giovanni Falcone si è lasciato per sempre alle spalle la sonnolenza di Trapani, i fine settimana alle Egadi, le cene al Ciclope su a Erice, la laguna di Mozia, le saline.
Palermo è in guerra. È in quei mesi che conosce Francesca Morvillo. Un incontro a casa di amici, una simpatia che diventa amore. Anche lei è magistrato, alla procura dei minorenni. Magistrati pure il padre e il fratello Alfredo. È una relazione alla luce del sole ma, al Palazzo di Giustizia, cominciano a circolare pettegolezzi. Voci sempre più calunniose, veicolate da colleghi e dai soliti avvocati. Quel legame dà scandalo.
È l’occasione perfetta per un intervento ufficiale. Il primo presidente della Corte di Appello, Giovanni Pizzillo – lo stesso che qualche anno prima ha consigliato a Rocco Chinnici di «caricare di processi» Falcone – convoca il giudice nella sua stanza. Lo avverte che investirà del «caso» il Consiglio Superiore della Magistratura, annuncia che forse ci sono anche le condizioni per il trasferimento in un altro distretto giudiziario di uno dei due, lui o Francesca, per «incompatibilità ambientale». Falcone non fa una piega. Pizzillo non si muove. Il suo avvertimento l’ha lanciato.
Contro Falcone è già nato un «partito» dentro il Tribunale. Ci sono quelli che lo denigrano. Come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri che si fingono amici. Come Vincenzo Geraci. Monta ogni giorno di più un risentimento verso quel giudice che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e una profonda conoscenza del fenomeno mafioso. È un magistrato unico nel panorama italiano. La città mafiosa lo teme. Aspetta solo una sua mossa falsa per colpirlo. Palermo si scopre all’improvviso «garantista». Si riempie di valorosi sostenitori delle libertà civili, che gridano instancabili «al rispetto delle regole», che puntano il dito contro «quello che vuole arrestare tutti». E poi un giudice è un giudice. E non «combatte». Neanche contro la mafia.

Un giornale amico dei potenti

Il Giornale di Sicilia dà spazio a chiunque parli male di Falcone. Gli attacchi a mezzo stampa sull’«antimafia spettacolo» si fanno sempre più sfacciati mano a mano che le sue indagini vanno avanti. Il messaggio che passa ogni giorno dalle pagine del quotidiano più letto della città è che l’opera del magistrato è tutta una «sceneggiata». C’è mezza Palermo che batte le mani.
Per anni, Il Giornale di Sicilia l’ho sfogliato per i necrologi. Le notizie vere si trovavano solo in quelle pagine. Moriva un potente e mi andavo a leggere chi piangeva l’«amico fraterno» o portava l’ultimo saluto alla «figura indimenticabile». Sotto quelle due righe dei «dolorosamente colpiti dell’improvvisa scomparsa», c’erano nomi e cognomi, uno dietro l’altro o sparsi nei diversi annunci funebri. A volte il necrologio mi confermava ciò che già sapevo sugli intrecci di un certo ambiente, a volte mi riservavano sorprese. Scoprivo personaggi insospettabili legati fra loro e avvicinati dalla comune amicizia con il morto. Per il resto, Il Giornale di Sicilia era sempre molto prevedibile. Sempre schierato con il potere di Palermo. Lo specchio della città palude.
Ma anche lì dentro non erano tutti uguali. Non ho mai conosciuto Mario Francese, il cronista giudiziario del «Sicilia» ucciso dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Di lui mi hanno parlato i colleghi più anziani, come di un uomo generosissimo e di uno straordinario giornalista. Mario Francese è morto per alcuni articoli sugli affari dei boss. Mentre lui scriveva, il suo editore – il Cavaliere Federico Ardizzone – i boss li frequentava. Mario era un altro uomo solo di Palermo.


La mattanza di mafia che ha stravolto per sempre Cosa Nostra

I muri delle stradine intorno a via Castellana sono coperti da corone di fiori, una folla aspetta la vedova. Filippa scende da una limousine color panna, alcuni uomini in abito scuro – che parlano americano fra loro – l’accompagnano davanti all’altare. Sono i parenti venuti da Cherry Hill. La chiesetta è stracolma, nella piccola piazza ci sono centinaia di ragazzi. Fa caldo, molti sono in camicia, s’intravedono le pistole.
È guerra di mafia a Palermo. Sono tutti «ai materassi». Mi sento in un film. A Passo di Rigano c’è anche Letizia Battaglia, la fotografa.
Ci scambiamo un’occhiata per capire quando è il momento buono per scattare qualche immagine. Uno degli Inzerillo si avvicina a Letizia, indica con la mano la sua macchina fotografica e dice: «Tu te ne devi andare». Poi si rivolge a me: «Tu puoi restare ma non devi fare domande».
Scrivo così la mia prima cronaca di un funerale di mafia.


Quell’indagine su Rosario Spatola che porta al maxi processo

LE “FAMIGLIE” SICILIANE E QUELLE D’AMERICA

La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana.
In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le «rimesse» che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 – emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano – vivono i suoi cugini americani.
È la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. È anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. È una rivoluzione investigativa. Ancora non lo sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.
«Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?», sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della «Cassa di Risparmio per le province siciliane».
Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.
Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni.


Quell’indagine sui “delitti politici” e le prudenze del procuratore capo

Giù a Palermo, la procura ha chiuso intanto la sua inchiesta sui «delitti politici», le uccisioni di Pio La Torre, del segretario provinciale della Dc Michele Reina e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. È un’indagine superficiale, manca di approfondimenti sui mandanti.
Come sempre, c’è solo Totò Riina. «La mia firma su quell’inchiesta non ce la metto neanche se mi torturano», dice Falcone a Borsellino e a qualche altro collega. Ma ancora una volta prevale il senso del dovere, la disciplina, l’ubbidienza, il rispetto della gerarchia. Giovanni Falcone firma.
È stremato dalle polemiche precedenti, non condividere ufficialmente quell’inchiesta equivarrebbe aprire un altro «caso Palermo» e ricominciare con le audizioni al Csm.
Dopo il duello Falcone-Meli, lo scontro Falcone-Giammanco. Capisce che è finito in una trappola. È stanco. Gli spiace solo di non aver indagato di più su «Gladio», l’organizzazione paramilitare nata nell’immediato dopoguerra per difendere le democrazie occidentali dal «pericolo rosso».
Falcone ha trovato alcuni indizi degli «anticomunisti» strutturati militarmente, tracce che lo portano alla morte di Pio La Torre. È il procuratore Giammanco a fermarlo. Lui annota tutto sul suo computer. Consegna qualche appunto a Liana Milella, una giornalista di cui si fida. «Non si sa mai», le confessa. È frastornato, sempre più solo. Si prende i rimproveri e gli insulti anche degli artefici della «primavera» di Palermo.
Il sindaco Orlando lo attacca «per le carte chiuse nei cassetti», il riferimento è alla sua firma in calce all’inchiesta sui cosiddetti delitti politici. È la fine di un’amicizia e la fine di un’epoca. È ancora il Consiglio Superiore della Magistratura ad intervenire, c’è ancora Falcone al centro di un affaire. Ora deve addirittura difendersi dalle accuse di non aver investigato a fondo sui mandanti. Si sfoga. Parla delle vittime eccellenti di Palermo, ma in realtà sta parlando di se stesso:
Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né un alterco fra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni uomini politici a un certo momento si trovano isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo che sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle loro battaglie in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici, certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che essa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.