Falcone e Borsellino così lontani, così vicini. Intervista a Gian Carlo Caselli

Da “la mafia non esiste” alla fine dell’impunità di Cosa nostra con il Maxiprocesso. Dalla delegittimazione dei magistrati alle stragi del 1992, fino alla nuova mafia degli affari. A 30 anni da Capaci e via D’Amelio, il presidente onorario di Libera ripercorre la storia dell’antimafia.

Chissà cosa avrebbero appuntato nelle proprie carte o nelle loro agende Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dovendo descrivere questo 2022 fitto di ricorrenze. Trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, quaranta dall’uccisione del sindacalista Pio La Torre e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Si contano i decenni e si contano anche i morti: l’elenco dei soli magistrati assassinati è lungo. A ricordarlo con MicroMega è Gian Carlo Caselli, presidente onorario di Libera, che attualmente dirige l’Osservatorio della Coldiretti sulle agromafie. Dopo essere stato giudice istruttore a Torino e aver guidato la Procura della Repubblica di Palermo, è stato Procuratore Generale e Procuratore della Repubblica di Torino.

L’elenco di magistrati assassinati è una lunga scia di sangue.

Comprende Pietro Scaglione, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Antonino Saetta, Giovani Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino. Tutti uccisi da Cosa Nostra, tutti uccisi in Sicilia. Salvatore Lupo, tra i principali storici di mafia, si è interrogato su quale significato abbiano queste vittime e ne ha desunto che suscita un sentimento di sorpresa il fatto che – in un’Italia senza senso della patria e dello Stato – ci siano funzionari disposti a morire per compiere il loro dovere per questa patria, per questo Stato. A ogni commemorazione prende forma l’idea – di per sé contraddittoria – dei magistrati come rivoluzionari in quanto portatori di legalità. Così essi restituiscono al Paese un po’ di fiducia, in modo che i cittadini possano pronunciare le parole di Piero Calamandrei “lo Stato siamo noi” come qualcosa di realmente sentito.

Lei è arrivato a Palermo subito dopo le stragi del 1992 e ci è rimasto per sette anni. Che esperienza ne ha tratto?

Provo a tracciare una breve storia di Cosa nostra, a partire dalla stagione in cui la mafia ancora non esiste, nel senso che fior di notabili, cardinali, procuratori generali e politici hanno fatto a gara nel negarne l’esistenza. È evidente che, se qualcosa non esiste, nessuno la cerca; e, se qualcuno la cerca lo stesso, difficilmente la trova; e, se la trova, facilmente gli sfuggirà di mano. In effetti questa è la stagione in cui i pochi processi che si fanno si concludono con un’assoluzione per insufficienza di prove.

Del resto se una condotta non è prevista come vietata, e di conseguenza punita in quel libro dei delitti e delle pene che è il codice penale, quella condotta non esiste.

Se noi cerchiamo la mafia nel codice penale oggi ce la troviamo come reato previsto dal 416 bis, che riguarda l’associazione di stampo mafioso. Ma la mafia – quella siciliana come le altre – esiste da circa due secoli, mentre bisogna arrivare al 1982 perché sia effettivamente presente nel codice penale.

Cosa successe per far risvegliare il nostro Stato all’improvviso?

Una strage, quella di via Carini a Palermo, che causò la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, allora Prefetto antimafia di Palermo, della moglie e del loro autista. Eccidio verificatosi sei mesi dopo l’assassinio di Pio La Torre, l’uomo politico ideatore di una normativa che però, con la sua morte (dovuta probabilmente proprio a quel progetto), venne relegata in un cassetto.

E lì sarebbe rimasta al chiuso per sempre se, dopo la scomparsa di dalla Chiesa, non fosse esplosa nel Paese un’ondata di rabbia incontenibile e di indignazione collettiva che costrinse chi era parte delle istituzioni a tirar fuori dal cassetto il disegno di legge La Torre, trasformandolo nella legge Rognoni-La Torre dai nomi del ministro degli Interni dell’epoca e del sindacalista che la creò.

Quasi tutta la legislazione antimafia appare come una sequela di bis, ter,  quater…

Una legislazione del giorno dopo. Raramente si interviene per prevenire, quasi sempre invece quando non se ne può più fare a meno, poiché si è verificato un fattaccio che scuote le coscienze. Il 416 bis non è una qualunque norma che con la sua genericità non serve a niente e a nessuno. È un articolo specifico, attinente alla realtà della mafia, uno strumento di intervento concreto che prima non esisteva. Falcone sostenne che senza il 416 bis sperare di fermare la mafia era come “illudersi di poter fermare un carro armato con una cerbottana”.

Quali altri cambiamenti avvennero?

A questa novità se ne aggiunse un’altra: il metodo di lavoro del pool palermitano che, usando con intelligenza lo strumento del 416 bis, riuscì a conseguire un risultato straordinario: segnò la fine dell’impunità di Cosa nostra, grazie al Maxiprocesso iniziato nel 1986 e concluso dalla sentenza 30 gennaio 1992.

Creato da Rocco Chinnici, poi sviluppato e perfezionato da Nino Caponnetto, il pool di Falcone e Borsellino promuoveva una nuova organizzazione del lavoro della magistratura, basata su due parametri, rivoluzionari per quel tempo, abituali oggi: la specializzazione e la centralizzazione.

I magistrati che facevano antimafia dovevano occuparsi soltanto di questo, in modo che la loro sensibilità e la loro capacità di approfondire il fenomeno si sviluppassero sempre più. La centralizzazione significava inchieste non più parcellizzate in mille rivoli, ma confluenti – quanto a esiti – in un unico motore di raccolta, una prima rudimentale banca dati. Così da non dover partire ogni volta da zero, ma poter contare su conoscenze già acquisite.

Un metodo che ha pagato?

Da esso proviene quel capolavoro investigativo-giudiziario, che è il Maxiprocesso. Maxinon perché, come è stato detto più volte malignamente, Falcone, Borsellino e altre toghe coinvolte volessero finire sotto i riflettori in quanto ammalati di protagonismo. Ma poiché altrettanto grande era stata l’impunità di cui Cosa nostra (che prima non esisteva) aveva goduto.

E difatti segnò la fine del mito dell’invulnerabilità della sua forza. Si dimostra, nel rispetto delle regole, che Falcone aveva ragione quando diceva che la mafia è “una vicenda umana come tutte le altre e che, come ogni altra, ha un inizio, uno sviluppo e può benissimo avere anche una fine”.

Tutto va posto dunque?

A dispetto del Maxiprocesso, successe una cosa che – se non fosse vera – nessuno crederebbe. Quando vado a parlare nelle scuole, mi capita a volte di fare questo discorso: ragazzi, abbiamo visto che la mafia è una brutta cosa; abbiamo visto che Falcone e Borsellino riescono a sconfiggerla (nell’interesse di tutti, considerato che non è un problema esclusivamente siciliano).

Secondo voi, a questo punto, cos’è accaduto? C’è sempre un ragazzo che mi guarda con occhi spalancati, come stesse pensando: cosa vuoi che sia successo? Gli avranno dato una mano ad andare avanti! E io dico al ragazzo che ha risposto bene, secondo logica e buon senso, ma che storicamente ha sbagliato.

Perché a Falcone e Borsellino non hanno dato nessuna mano per andare avanti. Anzi, dal punto di vista professionale, li hanno spazzati via. Uno scandalo che molte volte dimentichiamo.

Come sarebbe ‘spazzati via’?

Sommersi da una serie infinita di polemiche: una tempesta di accuse vergognose, ingiuste, diffamatorie, ma efficacissime, che riuscirono a sortire quanto si proponevano. Si comincia con i “professionisti dell’antimafia” dal titolo di un articolo di Sciascia sul Correrie della sera – lo scrittore in seguito corresse il tiro (ndr.) – a significare che Falcone, Borsellino e gli altri erano gente che faceva antimafia per fare carriera, scavalcando coloro che non avevano avuto la fortuna di fare processi antimafia.

Si prosegue con “l’uso spregiudicato dei pentiti” (Falcone, ancora sul Corriere della sera, che portava i cannoli a Buscetta, per sottintendere che cercava un rapporto personale con i pentiti affinché dicessero ciò che voleva lui, non la verità). E poi con l’“uso distorto della giustizia per fini politici di parte”. Non è ancora di moda l’espressione toghe rosse, ma la sostanza era la stessa.

Il pool fu considerato come un centro di potere, tanto che alla fine fu cancellato e con esso quel metodo di lavoro vincente. Il contrasto alla mafia subisce in questo modo “un arretramento di una trentina d’anni”, secondo la valutazione di Paolo Borsellino.

Che ruolo ebbe il Consiglio Superiore della Magistratura?

Dovendo nominare il successore di Caponnetto, il Csm non sceglie il campionedell’antimafia, cioè Giovanni Falcone. Nomina invece un magistrato, Antonino Meli, digiuno di mafia, che rispetto a Falcone aveva il vantaggio di essere una trentina d’anni di carriera più anziano.

Dirà ancora Borsellino, dopo la strage di Capaci, che “Falcone cominciò a morire” proprio quando gli venne negato quello che era un suo diritto – dirigere l’Ufficio Istruzione dopo Caponnetto – quando venne umiliato col preferirgli un magistrato senza titoli antimafia in una situazione che invece ne esigeva al massimo livello.

La vicenda di Falcone non si conclude con l’umiliazione del Csm.

Di mortificazioni ne arrivano altre. Tutte le porte, anche quelle degli uffici giudiziari, si chiudono in faccia a Falcone che alla fine viene di fatto espulso da Palermo. Nessuno lo vuole più. Per il grande (ma solo dopo morto) Falcone non c’è più posto in città.

Deve trovare una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma al ministero di via Arenula. Dove (coraggioso e “testa dura” nel senso più alto del termine) persevera nel suo impegno creando l’antimafia moderna, quella che funziona bene ancora oggi.

In che modo operò il promotore della Dia?

Recuperando a livello nazionale quei valori (specializzazione e centralizzazione) che erano stati sperimentati con successo in Sicilia. Crea così la Procura nazionale antimafia, le Procure distrettuali antimafia, la Dia (una specie di Fbi italiana antimafia).

E mette in cantiere una serie di norme, anche il quattro bis, di cui tanto si è parlato in questi giorni a proposito dell’ergastolo ostativo, che ancora adesso sono l’architettura legislativa antimafia e non vanno toccate.

La Cassazione, intanto, conferma in via definitiva le condanne del Maxiprocesso, convalidando il cosiddetto teorema Buscetta. Quindi suffraga tutta la ricostruzione fatta dal pool in ordine alla struttura di Cosa mostra e alle responsabilità sia associative sia individuali.

Le vicende del Maxiprocesso sono complesse e ramificate.

Il grande merito del risultato finale va attribuito al presidente della Corte di Cassazione di allora, Brancaccio, che – in base a un monitoraggio condotto da Falcone sulle sentenze della Cassazione – decise di assegnare i processi di mafia non più sempre allo stesso presidente Corrado Carnevale (definito in maniera irriverente da alcuni cronisti “l’ammazzasentenze”), ma di fare una rotazione. Per cui il Maxi venne assegnato a un magistrato diverso di nome Valente.

Nomen omen? Una coincidenza? Sta di fatto che, contro tutte le aspettative, in particolare di Cosa nostra, per la prima volta nella storia la Cassazione conferma in via definitiva pesanti condanne per un ampio gruppo di mafiosi di ogni ordine e grado.

Da un lato c’è quindi Falcone che sta creando l’antimafia moderna, dall’altro la Cassazione che frustra le aspettative di Cosa nostra, malgrado quest’ultima avesse cercato di condizionare il processo.

Un ‘uno-due’ micidiale per la Cupola, assolutamente intollerabile. Nella logica criminale significa una cosa sola: strage. Nel ‘92 esplodono le bombe di Capaci e via d’Amelio, vendetta postuma della criminalità organizzata nei confronti dei suoi peggiori nemici Falcone e Borsellino e al contempo tentativo di seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente.

Con le stragi, dice Caponnetto quando torna in Sicilia per il funerale di Borsellino, sembrava ormai “tutto finito”.

Sì, sembrò non ci fosse più niente da fare. La nostra democrazia stava per essere travolta dalla potenza criminale mafiosa che intendeva trasformare l’Italia in un narco Stato, uno Stato-mafia controllato dai corleonesi stragisti. Invece no, si fa squadra tutti insieme: la politica (che vive un momento di unità), le forze dell’ordine, la magistratura, la società civile che protesta (con le lenzuola bianche stese sui balconi di Palermo). L’unione degli sforzi comuni si dimostra efficace: la mafia non passa. Lo Stato rialza la testa e inverte la tendenza.

La risposta investigativo-giudiziaria del dopo stragi è imponente.

Basta una cifra riferita alla Procura di Palermo che allora dirigevo. Non mi piace fare il notaio degli ergastoli, ma devo rammentare che quelli chiesti e ottenuti dalla Procura di Palermo sono stati 650, un numero che parla da solo.

Oltre all’ala militare di Cosa Nostra, oltre ai mafiosi doc, sono stati fatti processi contro la zona grigia, contro le relazioni esterne, spina dorsale del potere mafioso.

Non saremmo ancora qui a parlarne, se i mafiosi fossero soltanto gangster. Se lo fossero non appesterebbero il nostro Paese da oltre due secoli. Tutte le bande di criminali al mondo sono sparite – se non altro per motivi generazionali – dopo 40/50 anni.

Perché questo non accade coi mafiosi?

Oltre ad essere delinquenti, godono di coperture, complicità, collusioni in alto loco, proprio da parte della zona grigia grazie alle ‘relazioni esterne’. I processi si devono fare anche ai protagonisti di quest’area, ai mandanti, le “menti raffinatissime” ricordate da Falcone, se ci sono i presupposti in fatto e in diritto, altrimenti la lotta alla mafia si fa a metà.

Vengono istruiti i processi ai politici, per citare i due più importanti, ad Andreotti e a Dell’Utri. Ma ecco anche – a causa di questi processi – insorgere una reazione simile a quella che aveva colpito il pool di Falcone e Borsellino. Stesse accuse, stesse calunnie, stessi attacchi ingiusti. Con una differenza: il pool fu spazzato via, noi no.

Tuttavia il grande risultato raggiunto dalla Procura di Palermo nel dopo stragi sfugge.

Non siamo stati spazzati via, ma la strada si è fatta sempre più in salita. Per usare un’immagine sportiva, stavamo per battere un facile rigore, ma qualcuno ci ha portato via il pallone…

Effetto della delegittimazione organizzata contro di noi come ai tempi di Falcone. Cosa nostra subisce ancora colpi durissimi, ma è un’organizzazione criminale con un’intelligenza che funziona. Non resta passiva ad aspettare altre sorprese. Si inabissa, entrando in stand by, diventa mafia degli affari.

Non uccidono, non fanno più stragi neppure d’estate…

Cercano di non farsi notare per non scatenare altre reazioni dello Stato. Nel frattempo altre mafie vengono alla ribalta e si affermano: la ‘ndrangheta attualmente in espansione in Italia e in Europa; la camorra fortemente presente nel napoletano; le mafie pugliesi, quella foggiana in particolare.

Ma, con l’eccezione di queste ultime due, si ammazza sempre meno. Le mafie tendono a non esasperare la situazione, nel proprio interesse, per condurre i loro loschi affari senza svegliare il can che dorme, lo Stato.

Sta tornando di nuovo a galla la tendenza a considerare la mafia una questione di ordine pubblico, non un sistema criminale.

Se scorre il sangue, c’è un problema. Ma se non uccidono non esistono. Perciò le mafie finiscono agli ultimi posti dell’agenda politica. Non nella considerazione delle forze dell’ordine e della magistratura: basta sfogliare i quotidiani per questo. Giorno dopo giorno si dà notizia di operazioni efficacissime sul versante del contrasto alle organizzazioni mafiose.

Tuttavia le difficoltà per la magistratura sono decisamente superiori a quelle del passato, in quanto la mafia cerca di non farsi notare, di mimetizzarsi ed è quindi più difficile scovarla e colpirla. Non c’è più bianco o nero, domina il colore grigio, una nebbia in cui è più difficile muoversi.

Una sentenza della Corte di Cassazione (n.15412/15 del 23.2/14.4 2015 -processo “Minotauro” sulla ‘ndrangheta in Piemonte) ha stabilito questo principio: il metodo mafioso può essere adoperato anche in forma “silente”, cioè senza ricorrere a situazioni ecla­tanti, piuttosto “avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancor più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dall’evocazione di una po­tenza criminale cui si ritenga vano resistere”, quando “la capacità di intimidazione della ‘casa madre’ è ben presente nella memoria collettiva”.

La Cassazione ha colto un’importante evoluzione del fenomeno mafioso.

Pur non praticando in modo palese forme di violenza, esso continua a esercitare quella “gestione” o quel “controllo di attività economiche, di concessioni, di auto­rizzazioni, appalti e servizi pubblici” che sono l’essen­za dell’articolo 416 bis.

Fa parte del codice genetico della criminalità mafiosa l’abilità camaleontica di adattarsi alle circostanze di tempo e luogo in cui si trova a operare. Una caratteristica che riguarda la mafia ovunque nel mondo (guai a circoscriverla alla sola Italia), consentendole di esse­re costantemente al passo coi tempi. Tanto da potere utiliz­zare le nuove opportunità che l’evoluzione quotidiana del sistema tecnologico offre. Le mafie moderne compiono operazioni di “arruolamento”, lautamente remunerato, di operatori sul­le diverse piazze finanziarie del mondo.

Si tratta di individui colti, preparati, plurilingue, con importanti relazioni internazionali al servizio del business mafioso che, proprio grazie a loro, assume e consolida un’apparenza per­bene, transnazionale e globale. In tal modo la mafia trova maggiore accesso ai salotti buoni, dove si fanno gli affari migliori.

E la magistratura come si comporta, specie quella parte di essa incolpata di voler scrivere, se non addirittura riscrivere, la storia attraverso i processi?

A mio avviso ha saputo anch’essa rinnovarsi e trovare risposte adeguate alle nuove mafie. Credo che il nostro Paese debba riconoscenza e rispetto a coloro che, ancora adesso, si occupano di questi problemi da posizioni ‘di frontiera’ mantenute con efficienza, determinazione e coraggio. Spesso a prezzo di sacrifici personali e privati non facili da compiere.

Rossella Guadagnini – MicroMega  20 maggio 2022


L’Italia e il governo della paura. Caselli: “Legalità sia obiettivo reale”

Rossella Guadagnini il .

Timori e insicurezza non devono diventare opportunità d’investimento politico e massmediatico. La legalità non è uno slogan, sostiene Gian Carlo Caselli che tocca con MicroMega – a partire dal libro sul processo Andreotti – i temi della giustizia e della criminalità organizzata: dalla riforma delle intercettazioni alla trattativa Stato mafia, quello che ci aspetta dopo il voto.

intervista a Gian Carlo Caselli di Rossella Guadagnini

Davvero non c’è una spiegazione alle stragi d’Italia, agli omicidi eccellenti, alle collusioni pericolose? Davvero sono passati troppi anni dagli eventi per capire, per sapere, per ricordare? Davvero non c’è soluzione alle questioni del presente, che ci attanagliano ogni volta che parliamo del triangolo tra criminalità, politica e giustizia? Una croce a cui il nostro Paese sembra inchiodato da decenni senza molte possibilità di riscatto, con protagonisti che – a tutt’oggi – occupano le pagine dei giornali e portano i nomi di politici notissimi e faccendieri incarcerati, di imprenditori e amministratori della cosa pubblica che hanno raccolto scabrose eredità del passato, perfino di imbelli candidati alle elezioni prossime venture.

Ci interessa ancora la verità dei fatti o siamo rassegnati, ormai, a farci bastare la loro apparenza? Magari perché questa verità è scomoda da accettare o troppo complessa da esaminare, mentre la post-verità – che ne è la ’narrazione’ superficiale e banalizzata, come ricordano gli Oxford Dictionaries – grazie ad abbellimenti e sottrazioni riesce a distorcerla, trasformandola in qualcosa d’altro, più facilmente ricevibile? A evitarci, insomma, tutte quelle domande a cui non sappiamo dare risposta, riuscendo così a schivare anche le conseguenze che le risposte comporterebbero.

Il tema della post-verità, che non liquida la verità ma la rende superflua e irrilevante, è sotteso – fin dal titolo – al libro ”La verità sul processo Andreotti”, uno svelto volumetto (pp. 87, Editori Laterza), appena uscito in libreria, denso di nomi, fatti e date ma, soprattutto, di chiarimenti. È scritto da due magistrati, Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, che hanno deciso di analizzare quel procedimento dal loro osservatorio privilegiato.

Dottor Caselli, affermate di voler ristabilire una prospettiva corretta contro il negazionismo.

L’idea del libro scritto con Lo Forte, collega della Procura di Palermo e pm nel processo Andreotti, nasce dalla constatazione che la verità sul processo è stata fatta a brandelli. La Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza della Corte d’appello di Palermo, che ha dichiarato “il reato di associazione a delinquere [con Cosa nostra] commesso fino alla primavera del 1980”, ma prescritto per decorso del tempo. Eppure un’ossessiva campagna di fake news – a tutti i livelli – ha truffato il popolo italiano (in nome del quale le sentenze vengono pronunciate), facendogli credere che l’imputato sia stato pienamente e felicemente assolto. Non esiste in natura un imputato assolto per aver commesso il fatto! È un’offesa alla logica e al buon senso. Eppure, ancora recentemente ho letto che Andreotti non fu condannato “perché non si riuscì a dimostrare che si fosse mai adoperato personalmente per favorire Cosa nostra”. Invece è scritto a tutto tondo nella sentenza della Corte d’appello – confermata in Cassazione – che l’imputato “con la sua condotta […] ha non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. E tutto questo sulla base di un elenco dettagliato di fatti gravi, tutti provati. Non fu condannato solamente in quanto il reato commesso era prescritto. Senza che l’imputato avesse rinunciato alla prescrizione, come avrebbe potuto.

Una vicenda emblematica del processo Andreotti?

Tra i tanti fatti gravi provati, ne ricordo uno in particolare. La partecipazione a due incontri con Stefano Bontade e altri boss (presenti Lima e i cugini Salvo) per discutere di fatti criminali riguardanti Piersanti Mattarella, l’onesto presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Senza che Andreotti abbia mai denunciato, a nessuno, gli elementi utili a far luce su tale delitto che pure conosceva, in quanto derivanti dai diretti contatti avuti coi mafiosi.

Esistono somiglianze con l’attuale processo sulla trattativa Stato-mafia?

Lo Forte ed io abbiamo pensato che potesse essere utile nel caso Andreotti chiarire le vicende processuali in sé, anche per comprendere meglio alcuni aspetti essenziali della storia del nostro Paese. Lo sviluppo della trattativa Stato-mafia (su cui è ancora in corso un delicato processo a Palermo, attualmente in gran parte a giudizio in primo grado, con alcune posizioni trattate in “abbreviato”), nel libro viene inquadrato nell’ambito della politica di “relazioni esterne” con la società e lo Stato, che caratterizza tutta la storia di Cosa nostra. Un susseguirsi di rapporti – a seconda della stagione – di coesistenza o di compromesso, di alleanza o di conflitto: dalla strage di Portella della Ginestra al Golpe Borghese; dagli omicidi politici mafiosi degli Anni Settanta/Ottanta alla stagione del pool antimafia e del maxiprocesso; dalla strategia stragista degli anni ‘92-’93, con la cornice appunto delle “trattative”, fino agli scenari attuali.

Come valuta la recente riforma delle intercettazioni?

Il mio giudizio coincide con l’intervento di Roberto Scarpinato, che MicroMega ha pubblicato integralmente. Vero è che il ministro Andrea Orlando ha promesso una sorta di “monitoraggio”, con riserva di modificare la riforma all’esito ove le perplessità di Scarpinato e altri risultassero riscontrate in concreto. Ma non sappiamo chi sarà il nuovo ministro della Giustizia. Se fosse ancora Orlando, secondo me, ci si potrebbe fidare. Ma se non fosse lui? Se fosse, per esempio, l’avvocato Giulia Bongiorno (una delle possibili candidate del centro-destra) avrei qualche perplessità in più. Non tanto per la sua posizione nel merito della riforma (anche Bongiorno ha espresso alcune critiche), quanto piuttosto per quel che dell’avvocato si può leggere nelle prime due pagine dell’introduzione al nostro libro sul processo Andreotti. Una questione di metodo, spoglia di profili “personali”.

Il tema della legalità è uno dei grandi assenti di questa campagna elettorale.

Paradossalmente viene da dire: meglio così! Che in campagna elettorale non siano inflitti ulteriori colpi a un vocabolo – quello della legalità – che soffre da tempo. Che va protetto e usato con parsimonia per evitarne la strumentalizzazione da parte di personaggi impresentabili, che hanno scelto di convivere (se non peggio) con il malaffare. La speranza è che nella nuova legislatura si parli di legalità non più come slogan, ma come obiettivo vero. Da perseguire senza cedere a quell’altra tentazione tipica di certa politica: l’evaporazione dei fatti, la cancellazione del mondo reale che ci circonda. Il mondo reale, oggi, parla di una grandissima quantità di risorse sottratte dall’illegalità economica (evasione fiscale, corruzione e mafia). Una rapina che si traduce nel colossale impoverimento della nostra collettività. Senza risorse, la qualità della vita è fatalmente destinata a peggiorare. Perciò la legalità non è solo questione di “guardie e ladri”, ma costituisce per tutti un vantaggio, una diretta convenienza. La buona politica dovrebbe muovere in questa direzione. Non correre con occhi bendati in direzioni di cui s’ignora il senso oppure in una direzione conosciuta e utile sempre e soltanto ai “soliti noti”.

Cos’è più urgente fare per migliorare la situazione della giustizia in Italia? Quali misure dovrebbe attuare un futuro governo?

Diciamo prima quel che non si dovrebbe fare mai. La separazione delle carriere fra pm e giudici, che invece tanto sta a cuore a molti avvocati e a Silvio Berlusconi, il quale va ancora raccontando la storiella dei magistrati che prendono il caffè insieme e quindi per ciò stesso farebbero… pastette. La separazione sarebbe una vera jattura, perché in tutti i paesi in cui c’è separazione, il pm di fatto prende ordini o riceve direttive vincolanti dal governo. Dovremmo, in Italia, rinunciare all’indipendenza dei pm e darli in pasto a certa politica, quella che – ripeto – è fatta anche di impresentabili? Sarebbe un vero e proprio suicidio per la prospettiva di una giustizia che punti alla eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alle misure da attuare in positivo mi limito a due punti essenziali: la riforma della prescrizione (siamo l’unico paese al mondo, in cui essa non si interrompe mai) e la riforma dei gradi giudizio. Se proprio non si vogliono ridurre (anche in questo caso siamo l’unico paese al mondo con un rito processual-penale di tipo accusatorio che tollera una pletora di gradi), almeno si introducano dei severi filtri di grado in grado, per impedire i ricorsi inutili, pretestuosi e dilatori. Altrimenti il processo non finisce mai! È ipocrita lamentarsi poi se tutto ciò comporta una giustizia denegata al posto della giustizia.

Sta emergendo un fenomeno nuovo di cui si parla ancora poco: le mafie organizzate da immigrati nel nostro Paese, ad esempio quelle nigeriane.

Le mafie di “importazione” (dalla Nigeria come dall’Est europeo) vanno contrastate con la stessa determinazione con cui si combattono le organizzazioni “indigene”. Forze dell’Ordine e magistratura già lo fanno. Probabilmente servirebbero strumenti legislativi (un aggiornamento del 416 bis) specificamente mirati su queste nuove realtà.

Mafie, criminalità, immigrazione senza regole alimentano un clima di tensione, aggressività e timori incontrollati, utilizzati a volte per fini politici distorti e dalla cattiva informazione. È esagerato parlare di governo della paura?

Paura e insicurezza sono problemi seri da affrontare e possibilmente da risolvere. Invece sempre più di frequente si rivelano occasioni da sfruttare. Questi mali da sanare, sembrano essersi trasformati in opportunità d’investimento politico e massmediatico. Prima si accresce la paura – che c’è per cause obiettive – ma ci si lavora su per espanderla. Poi, invece di governarla, si finisce per restare governati dalla paura, nel senso che è la paura che oggi (molte, troppe volte) sembra dettare le scelte della politica e dei media. Con rischi evidenti di deriva democratica.

Come si comporta una società che ha paura?

Qui ‘rubo’ una formula al mio amico, don Luigi Ciotti: la sicurezza rischia di trasformarsi in una specie di killer. Nel senso che (intesa in un certo modo) cancella o, quantomeno, pregiudica decenni di lavoro sulle radici della violenza. Se la paura è un’opportunità di investimento, facilmente avremo non riforme vere, ma più che altro gesti simbolici, rassicuranti, un’indignazione che spesso può essere in prevalenza strumentale. Inoltre (forse non ce ne rendiamo conto, ma è sempre più così) impariamo a vivere nell’ostilità contro tutto e tutti, specie quando non si va oltre il recinto delle nostre individualità, degli interessi particolari o personali. Tuttavia vivere immersi nella cultura del sospetto non è più vita: succede che si modifica, in negativo, la qualità della nostra esistenza. Anche perché si comincia così e poi non si sa dove si va a finire. Oggi i rom, domani chissà.

Ma la sicurezza non è argomento più che valido, tanto più per chi – come lei – ha trascorso una vita da magistrato?

Se quello della sicurezza diviene un terreno da coltivare, anziché una questione da risolvere, occorre fare molta attenzione: i timori si autoalimentano. Le risorse a disposizione saranno prevalentemente, se non esclusivamente, convogliate su controlli e sempre più controlli (tipica la richiesta di impiego dell’esercito), su forme di repressione, nuovi reati e così via. Sempre meno, invece, saranno le risorse impiegate per scuole, ospedali, alloggi, più lampioni in periferia, trasporti pubblici meno degradati, politiche di inserimento e integrazione. Col risultato che, nel medio-lungo periodo, la criminalità invece di diminuire rischia di aumentare o rimanere sui livelli che già la caratterizzano. Il che comporta un aumento dell’insicurezza. Ecco il cortocircuito, pericoloso quando non si superano i luoghi comuni. Quando non si cerca di ragionare con la testa anziché con la pancia.

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