Ecco perché con l’accelerazione della strage non c’entra il rapporto del Ros Mafia-appalti. L’ombra dei mandanti esterni
Un argomento scomodo, quasi urticante, per cui è necessario instillare il seme del dubbio o, nel peggiore dei casi, della totale negazione. Dal 20 aprile 2018 sono andati in soffitta titoloni come “La Trattativa è una boiata pazzesca”, ma nonostante più sentenze (non solo quella della Corte d’assise di Palermo con 5700 pagine di motivazione) ne certifichino l’esistenza vi è sempre chi è pronto a metterla in dubbio. O comunque a non considerarla in alcun modo come la reale motivazione di quell’accelerazione che portò Cosa nostra a consumare l’attentato a Paolo Borsellino appena 57 giorni dopo la strage di Capaci.
Basta leggere l’intervista, pubblicata su La Repubblica giovedì 4 febbraio, che il collega Salvo Palazzolo ha fatto alla figlia del giudice, ucciso in via d’Amelio con 5 agenti di scorta, Fiammetta Borsellino, dopo l’archiviazione del Gip di Messina dell’inchiesta sui pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia sul depistaggio di via d’Amelio. Una vicenda su cui più volte abbiamo espresso la nostra opinione. Un’intervista in cui si parla di “giustizia malata” in riferimento alle valutazioni espresse da due tribunali differenti sui motivi che portarono alla morte del padre.
“Mi viene in mente il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa Stato-mafia’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via d’Amelio – ha commentato Fiammetta Borsellino – La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.
I 57 giorni e l’accelerazione
In tutti i processi sulle stragi, nelle inchieste e nelle indagini più recenti un punto centrale è sicuramente quello dell’accelerazione che, è certo, intervenne dopo la strage di Capaci. Un’anomalia di cui hanno parlato svariati collaboratori di giustizia. Su tutti vale la pena di ricordare quel Totò Cancemi che raccontava: “Mi ricordo (…) di una riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, (…) che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là, con Riina. E io c’ho sentito dire: La responsabilità è mia. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: Questo ci… ci vuole rovinare a tutti, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino. (…) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (…) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa… questa risposta a qualcuno, questi accordi che lui aveva preso”.
La ricerca della verità su quanto avvenuto passa dalla comprensione degli elementi che portarono all’accelerazione dell’attentato, ed anche dalla necessità di dare un volto a questo “qualcuno” (anche Riina, nelle intercettazioni nel carcere Opera con Lorusso, parla di un qualcuno che disse di fare la strage “subito subito”).
Ma procediamo per gradi. Nel corso degli anni sono stati aperti più filoni investigativi.
Uno portava alla trattativa Stato-mafia. Un altro possibile era proprio quello dell’inchiesta mafia-appalti di cui Paolo Borsellino si interessava, come emerso nelle dichiarazioni di diversi testimoni.
Vedremo, però, come questa pista (la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-Mafia, ma anche di tanti giornaloni e contestatori della trattativa e dei pm che hanno condotto il processo) non può essere considerata come decisiva nella ricostruzione per comprendere ciò che avvenne ormai quasi 29 anni addietro, cioè le stragi di Capaci, via d’Amelio e nel 1993 gli attentati di Firenze, Roma e Milano.
Mafia-appalti
La vicenda dell’inchiesta mafia-appalti, archiviata dopo la strage di via D’Amelio (il 14 agosto 1992 dopo la richiesta dei pm titolari d’indagine, scritta nel 13 luglio 1992 e inviata al Gip il 22 luglio) è particolarmente complessa e nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti.
Uno dei titolari di quel fascicolo, Roberto Scarpinato, oggi Procuratore generale a Palermo, ha spiegato in più occasioni come nell’accelerazione “non c’entra assolutamente il dossier mafia-appalti perché quello che è accaduto va molto al di là della storia di appalti regionali. Perché Paolo Borsellinoera perfettamente al corrente del fatto che l’inchiesta mafia-appalti era stata temporaneamente archiviata e si aspettava, per riaprirla, l’intervento di altri collaboratori di giustizia. Come poi è avvenuto”. Ma vi era anche un altro dato, che è documentale. L’esistenza di una doppia informativa.
Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.
La prima: c’è una prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione.
Quello che si evince però dall’archiviazione è che non c’erano nomi di politici, né tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in quel momento la Procura di Palermo non aveva.
La seconda informativa
Come spiegato dai pm di primo grado del processo Stato-mafia, il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo” si decide a depositare una seconda informativa mafia-appalti che contiene espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
In questa seconda informativa, finalmente completa, vi erano acquisizioni investigative su Mannino e sui politici. Acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data del febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti.
“Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 1991-1992 – scriveva Caselli – furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”.
Il pm Tartaglia, nella requisitoria, ha spiegato che alcuni nomi di uomini politici (Lima, Nicolosi e Mannino) venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo solamente il 5 settembre 1992, quando con una informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno“venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”. Come mai quei nomi non erano presenti? Furono volutamente depennati dai Ros dei Carabinieri?
La sentenza di Palermo
Comunque la Corte d’assise di Palermo, nelle motivazioni della sentenza Stato-mafia, non mette in dubbio l’interesse di Borsellino per il fascicolo.
Si dice però che “tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)” scrivono i giudici. Dunque, sul piano logico, i giudici spiegano come non vi è la “certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio”.
Diversamente come ricostruito nel corso del processo “l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino,proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d’Amelio”. Secondo i giudici, “non v’è dubbio, che quei contatti unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riinagià come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste con cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”.
Non solo. Si legge nelle carte che “ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino,poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.
Il Borsellino quater
Ma anche il Borsellino quater, a ben vedere, lascia aperti degli spiragli. Perché i giudici di primo grado, nel procedere alla individuazione dei moventi della strage di via d’Amelio, da una parte sottolineavano come vi fosse la possibilità di utilizzare soltanto “le fonti di prova dotate di univoca valenza dimostrativa, evitando ogni rivalutazione di vicende che formano oggetto di altri procedimenti pendenti dinanzi ad altre autorità giudiziarie alle quali spetta il relativo giudizio”.
Dall’altra però scrivevano che Borsellino “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra’”.
I giudici, che riprendevano le parole scritte dai pm nella memoria conclusiva, affermavano: “Appare incontestabile come la strage di Via d’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”.
In sede di appello, perentoriamente viene esclusa la trattativa come motivo dell’accelerazione per il delitto. Comunque si parla anche di “possibili gruppi di potere estranei a Cosa nostra” nella strage di via d’Amelio.
E su questi punti, così come sulla presenza di mandanti esterni delle stragi vale la pena ragionare proprio per comprendere come la trattativa, o forse sarebbe meglio dire le trattative, sia davvero un nodo centrale.
L’incontro negli uffici del Ros
La difesa dei carabinieri Mori-De Donno e Subranni, da sempre ha fatto riferimento ad una data, quella del 25 giugno 1992, in cui Paolo Borsellino si recò presso la caserma Carini di Palermo, spiegando che il tema affrontato fu proprio l’inchiesta mafia-appalti. Di quell’incontro, è un fatto noto, le autorità giudiziarie di Palermo e Caltanissetta vennero a conoscenza dall’agenda grigia del giudice Borsellino. Come mai nell’agenda non vi sono annotazioni?
Altra domanda. Se davvero era così rilevante quell’incontro come mai Mori e De Donno nulla dissero ai magistrati che si occupavano della strage? Un silenzio che durerà fino al 1997 quando si pente Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, portando con sé anche la polemica sul famoso rapporto mafia-appalti. Evidentemente l’oggetto di quell’incontro riguardava altro. L’ex braccio destro del giudice ucciso, il tenente Carmelo Canale, riferì al processo Borsellino quater che nelle ultime settimane di vita Paolo Borsellinostava cercando di fare luce sull’anonimo, conosciuto come ‘Corvo 2’: una lunga lettera indirizzata, tra gli altri anche al magistrato, in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina.
Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava tra l’altro di incontri tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa. In incognito il teste e il magistrato andarono alla caserma Carini, a Palermo, per l’incontro al quale partecipò anche il superiore di De Donno, l’allora colonnello Mario Mori.
Borsellino su Berlusconi e Dell’Utri
Le attività di Borsellino, dunque, furono molteplici. E forse si dovrebbe ragionare sulla possibilità che dietro alla decisione di uccidere il giudice vi sia stata una convergenza di interessi. E’ noto, ad esempio, che lo stesso magistrato a Casa Professa nel suo ultimo discorso aveva dichiarato di essere un “testimone” e di voler essere sentito dai pm che si occupavano delle indagini sulla strage di Capaci. C’erano state poi le dichiarazioni di Mutolo e Messina, raccolte dal magistrato in luglio. Ma non solo.
Perché appena due giorni prima la strage di Capaci, Paolo Borsellino rilasciò un’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000.
In quella video intervista i due giornalisti francesi stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi. Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.
L’appunto di Falcone su B.
Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in qualche maniera stessero monitorando le vicende che ruotavano attorno all’ex Cavaliere emergono anche da un altro dato. E’ stato ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.
Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falconetenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.
Quei nomi contenuti nell’appunto non sono di poco conto e rappresentavano una traccia di ciò che sarebbe stato scoperto successivamente. Gaetano Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato il “tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore.
E’ ampiamente riconosciuto che, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellinofosse il magistrato di punta della lotta alla mafia. Ed è facile pensare che fosse al corrente delle stesse cose. Sapeva dei vecchi affari di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni Settanta. E quelle “storie” erano tutt’altro che vecchie o prive di fondamento. E lo dimostra proprio con quell’intervista ai due giornalisti francesi, in cui si sottolinea i rapporti che Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, a Milano, avrebbero intrattenuto con personaggi delle famiglie palermitane.
Nomi chiave.
Nelle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Dell’Utri è scritto che per diciotto anni dal ’74 al ’92, l’ex senatore è stato il garante dell’accordo tra Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Cinà (Gaetano Cinà, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. In quella sentenza i giudici mettevano anche in rilievo come “il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.
Se Borsellino aveva intuito tutto questo è ovvio che fosse divenuto un ostacolo non solo per la trattativa in corso, ma anche un problema per chi stava preparando la discesa in campo di Forza Italia. Un nuovo potere che sicuramente il giudice avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato i vertici di quel nuovo potere, ovvero Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
I mandanti esterni
Ma sappiamo anche altro. Perché Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati a più riprese, ed archiviati per mancanza di riscontri sufficienti, per essere stati mandanti delle stragi.
La Procura di Firenze oltre vent’anni fa li aveva indagati, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un’inchiesta che partiva dalle stragi del 1993 fino ad arrivare alla mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma del ‘94. Per gli inquirenti quei fatti di sangue rientravano “in un unico disegno che avrebbe previsto una campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa”.“Nel corso di quelle indagini – si leggeva ancora nel decreto di archiviazione del ‘98 – erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali”. Dal canto suo il Gip aveva evidenziato che le indagini svolte avevano “consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli indagati Dell’Utri e Berlusconi, ndr) di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto”.Il giudice concludeva affermando che, sebbene “l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità”, gli inquirenti non avevano “potuto trovare – nel termine massimo di durata delle indagini preliminari – la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate sulle suddette omogeneità”. Anche a Caltanissetta, dal ’98 al 2001, su quegli stessi personaggi avevano indagato il pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. Ma anche in quel caso l’indagine fu poi archiviata.
Nuovo capitolo
Oggi l’indagine nei confronti dell’ex Premier e dell’ex Senatore è stata riaperta dai magistrati fiorentini (con il coordinamento del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e il pm Turco) dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni dei colloqui in cui il capomafia Giuseppe Graviano – considerato lo stratega militare degli attentati compiuti in quell’anno a Firenze, Roma e Milano e condannato all’ergastolo per le stragi del ’92 e del ’93 – raccontava al compagno di detenzione nel carcere di Ascoli Piceno il coinvolgimento di Berlusconi nella strategia delle bombe. “Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto”; “Berlusca… mi ha chiesto questa cortesia… Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni… in Sicilia… In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa…”; “Nel ’94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze e fatto il traditore”; “Venticinque anni fa mi sono seduto con te… Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…”; “Io ti ho aspettato fino adesso e tu mi stai facendo morire in galera”.Parole e accuse che, seppur in forma diversa, Graviano ha lasciato intendere anche rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso del processo ‘Ndrangheta stragista.
Mettendo in fila i pezzi si evince che Paolo Borsellino non solo era stato messo al corrente dalla Ferraro del dialogo, già grave, tra i carabinieri e Vito Ciancimino, ma con ogni probabilità aveva intuito anche altro.
Forse proprio quell’ascesa che portò poi alla discesa in campo e al “ventennio” Berlusconiano nella storia politica del nostro Paese.
Di Berlusconi e Dell’Utri parlò Totò Cancemi: “Quando c’erano le preparazioni per le stragi di Falcone, del dottor Falcone, io ero in macchina con Raffaele Ganci. Stavamo andando là e Ganci Raffaele mi disse, con pochissime parole: U zu’ Totuccio si incontrò con persone importanti”.
Ganci non gli fece i nomi di quelle “persone importanti”, ma per Cancemi è abbastanza chiaro: “Se io devo fare una logica, diciamo, (…) i discorsi sono questi che si facevano in quel periodo”. Quindi, quando fu sentito nel 1999 al processo sulla strage di via d’Amelio, aggiunse: “Se io vado indietro, noi andiamo a trovare un Vittorio Manganoche faceva quello che voleva nella tenuta di Berlusconi di Arcore. Là c’era un covo, un covo di mafiosi che andavano là, organizzavano sequestri di persona, vendevano droga, e io ho fornito pure; che c’è stato un tentativo di un sequestro di persona, che uno di questi che era, mi sembra, se non faccio errore, Pietro Testone, chiamato di… ora che mi viene il nome glielo dico… Pietro Vernengo, (…) quindi là era la base di tutte queste cose. Quindi, dobbiamo cominciare, diciamo, di qua, quindi i vantaggi ci sono… ci sono stati curati da anni indietro a venire in avanti”.
Anche l’ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, che raccontò del papello e dello stop ricevuto per compiere l’omicidio Mannino, riferì di aver parlato con Riina nel marzo 1992, dopo la morte di Lima, e che il boss corleonese gli disse delle nuove opzioni politiche (Vito Ciancimino, “mi portarono pure sto Bossi, addirittura Marcello Dell’Utri”).
E poi ancora Filippo Malvagna, Maurizio Avola, Pino Lipari, ed Ezio Cartotto. Quest’ultimo, dipendente di Publitalia, racconta che Dell’Utri, subito dopo l’omicidio Lima, gli avrebbe dato un primo incarico ancora occulto, di creare comitati politici che raggruppassero persone provenienti da più partiti, per creare un partito alternativo.
Tracce. Elementi che non possono essere ignorati e che oggi vengono ripresi in mano dagli organi inquirenti per ricostruire quella stagione di sangue e delitti che, accanto all’inchiesta Tangengopoli, hanno portato al crollo della Prima Repubblica dando vita alla Seconda.
Paolo Borsellino aveva intuito. Ed è altamente probabile che le sue considerazioni le avesse messe nero su bianco in quell’agenda rossa sparita.
Ecco perché c’è la necessità di fare presto. Ecco l’accelerazione improvvisa rispetto alle scadenze prestabilite per cui Riina decide di “fare il fatto di Borsellino”.
Nella fase cruciale dell’esecuzione non ci sarà nemmeno il bisogno di provare e riprovare il piano come era stato per Falcone. Perché sul posto, a fianco dei mafiosi, ci saranno professionisti non appartenenti a Cosa nostra, ma agenti dello Stato deviato. Gente abituata a operazioni rapide e pulite.
Spatuzza racconta in maniera chiara dell’uomo “non appartenente a Cosa nostra” all’interno del garage di Villasevaglios durante le fasi di imbottitura di esplosivo della Fiat 126.
E’ un dato di fatto, inoltre, che non furono uomini di Cosa nostra a trafugare l’agenda rossa del giudice Borsellino dalla borsa. Una sparizione ancora avvolta nel mistero, nonostante gli elementi fin qui emersi. Su tutti la foto del colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli, in passato finito sotto indagine per il furto dell’agenda rossa del procuratore aggiunto Paolo Borsellino poi assolto per “non aver commesso il fatto”, nonostante le famose immagini in cui viene ritratto con in mano la borsa del giudice e le continue testimonianze costellate più di dubbi che di certezze.
Cambio di rotta
La trattativa continua anche dopo la morte di Paolo Borsellino, con Cosa nostra che alza il tiro colpendo (su input di chi?) il patrimonio artistico a Firenze, Roma e Milano.
Secondo quanto Vito Ciancimino ha raccontato al figlio Massimo, è Dell’Utri il traghettatore, il mediatore, il burattinaio, assieme a Provenzano, del rinnovato patto tra Stato e mafia.
In questo senso abbiamo ricordato le testimonianze di Salvatore Cancemi, ma vanno sicuramente aggiunte quelle dell’ex boss di Caccamo Antonino Giuffré, uno dei bracci destri di Bernardo Provenzano.
Quest’ultimo riferì che il nuovo capo di Cosa Nostra, appunto Provenzano, contravvenendo al suo abituale e cautelativo riserbo, non aveva temuto di esporsi personalmente nell’indicare a tutti gli uomini d’onore il nuovo partito di riferimento: Forza Italia. Il partito fondato da un uomo della mafia.
Ecco il cambio di rotta dopo le perlustrazioni, che furono fatte, anche per la realizzazione di un partito proprio (Sicilia Libera).
L’accordo
E’ un dato di fatto che tutta l’ala oltranzista di Cosa nostra, piano piano, progressivamente, esce di scena. Non Binnu Provenzano che regnerà indisturbato fino all’aprile 2006, accuratamente protetto da qualsiasi tentativo di cattura.
E’ sempre Giuffré ad aver spiegato nei fatti ciò che avvenne. “C’era una divinità che dovevano essere offerti dei sacrifici umani”. Una metafora efficace con cui indica nel “sacrificio più grande” il tradimento di Riina, concepibile soltanto però per un fine più grande: la Cosa Nuova, inabissata e silente. Quasi Invisibile.
Per quante e plausibili trattative si siano accavallate tra il gennaio del 1992 e quello del 1994 è evidente che rientrano tutte in un unico progetto di “gioco grande” in cui Cosa Nostra ha prestato il suo know-how della violenza, come dal 1943 in poi, affinché si instaurasse in Italia un regime in linea con il nuovo ordine globale.
Quel testimone della trattativa è passato di mano in mano mentre segreti e misteri si sono confermati nel tempo. Da una parte c’è l’ultimo padrino latitante, depositario dei segreti di Riina, Matteo Messina Denaro, affiancato dai fratelli Graviano, che sono in carcere al 41 bis assieme a Leoluca Bagarella e i fratelli Madonia di Palermo. Dall’altra quella parte di Stato che nel suo silenzio-assenso non parla mai di lotta alla mafia e sistemi criminali. Come nulla fosse. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo, gli agenti delle scorte e cittadini inermi sacrificati sull’Altare della Patria.
La guerra continua
La ricerca della verità sulle stragi passa da più livelli e nel 2021 c’è ancora molto da fare perché non è stato scoperto tutto. Ma al contempo non si deve far passare l’idea che sia stato tutto marcio. Nell’intervista a La Repubblica Fiammetta Borsellino, senza fare alcun distinguo afferma che “il sistema giustizia è apparso malato nella vicenda depistaggio: è assurdo che per un processo definito il più grande errore giudiziario della storia italiana non sia stata individuata alcuna responsabilità di coloro che quel processo hanno gestito. Non ci sono stati neanche provvedimenti disciplinari. Anzi, chi ha sbagliato, oggi svolge ruoli apicali all’interno dell’ordine giudiziario”.Un’affermazione che sottointende alcuni magistrati, tra questi anche Nino Di Matteo. L’abbiamo detto in più occasioni. Si può assolutamente comprendere la pretesa di verità di tutta la famiglia Borsellino per la tragica perdita vissuta ed in presenza di troppe verità incomplete. Basti pensare che sulla strage non è noto il nome della persona che premette il telecomando che fece saltare in aria l’autobomba in via d’Amelio il 19 luglio 1992.
C’è poi tutta la vicenda delle prime indagini sulla strage, la vicendaScarantino, e quella serie di false prove, mescolate a frammenti di verità per rendere “credibile” il racconto del “pupo” della Guadagna. Di fronte a questi fatti, inseriti nel depistaggio, è comprensibile la pretesa di verità dei familiari vittime di mafia. Ma in questa ricerca della verità non si possono fare errori di valutazione e di persona.
Ancora una volta, dunque, siamo a ricordare, come sia ampiamente dimostrato nei fatti che Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con questa vicenda. Lo stesso magistrato, ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al Csm) ha dimostrato la sua completa estraneità al depistaggio di via d’Amelio.
Del resto basta osservare l’operato di Di Matteo per comprendere come sia stato tra quei magistrati che più di tutti si è avvicinato alla verità sulle stragi.
In questa guerra continua che ha visto così tanti caduti spesso, purtroppo, è la stessa Cosa nostra a dare prova di quelli che sono i bersagli da colpire in quanto nemici del Sistema criminale.
E’ stato così in passato ed è così anche nella storia più recente, nella rappresentazione dei suoi vertici quando Salvatore Riina (deceduto nel 2017) ha letteralmente condannato a morte Nino Di Matteo, confermando di fatto quell’ordine che, a detta di più collaboratori di giustizia, in particolare uno su tutti, Vito Galatolo, boss di prima grandezza del quartiere Acquasanta e figlio di Vincenzo Galatolo (boss ergastolano tra gli autori della strage di via Carini che uccise il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo), arrivò a Palermo con una missiva inviata dal superlatitante Matteo Messina Denaro: si deve uccidere il magistrato palermitano perché “si era spinto troppo oltre” perché a volerlo erano “gli stessi di Borsellino”.
Condanne a morte da parte della mafia che oggi vengono riconosciute anche da quelle parti che hanno avversato lo stesso Di Matteo (vedi l’ex pm Palamaranel libro scritto con Sallusti). Un progetto di attentato che, come scrissero i pm nisseni che chiesero l’archiviazione dell’indagine, “resta operativo”. Un attentato mosso non dalla vendetta, ma dalla necessità di prevenire ogni possibile intralcio.
Trent’anni dopo la lotta continua grazie all’impegno di più Procure e di magistrati come Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm ma reintegrato a pieno titolo dal Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Rahonel pool che indaga sulle stragi ed i mandanti esterni, o ancora pm come Giuseppe Lombardo, Luca Tescaroli, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri ed altri nelle varie procure antimafia. Sono loro quei magistrati dalla schiena dritta che rappresentano quella parte di Stato che vuole arrivare alla verità indicibile, costi quel che costi, svelando i nomi di quei mandanti esterni che non sono fantasmi.
Alcuni di loro sono morti. Altri sono ancora ai vertici della Nazione e rappresentano quei soggetti