L’INTERVISTA DI MINÀ A CAPONNETTO

ANTONINO CAPONNETTO 

Maggio 96

GIANNI MINA’: Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese?
ANTONINO CAPONNETTO: Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole d sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.
GIANNI MINA’: Caponnetto, lei non era nato eroe, ma uomo mite, e invece si è trovato, di colpo, a dover essere coraggioso.
ANTONINO CAPONNETTO: Sì, con quel tanto di paura che accompagna gli uomini in questo tipo di avventure. Ricordo ancora la risposta che diede Paolo quando gli chiesero se non avesse paura. “ Certo – disse – non sarei un essere umano se non avessi paura, però mi sforzo di avere quel tanto di coraggio che serve per superarla, per andare avanti”. Che risposta meravigliosa!
GIANNI MINA’: Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent’anni a Pistoia e poi a Firenze.
GIANNI MINA’: E perché invio la domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttorio, dopo l’assassinio di Chinnici?
ANTONINO CAPONNETTO: Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c’è un cordone ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall’oppressione della mafia, per restituire dignità e libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché n on pensavo di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il tempo mi ha perdonato…(….)
GIANNI MINA’: Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano , per loro ero comunque uno “straniero”che veniva a togliere lavoro ai siciliani, e ai palermitani….(…)
GIANNI MINA’: Sicuramente c’erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C’è la certezza che qualcuno ha tradito. Ma appena la giustizia si avvicina a questo sottobosco politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, e tuttora, a “coperture” anche se si sta cercando di far luce su tutto questo.
GIANNI MINA’: Lei ha mai conosciuto Contrada?
ANTONINO CAPONNETTO: Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983.
GIANNI MINA’: Come seppe dell’attentato a Falcone?
ANTONINO CAPONNETTO: Dalla televisione, e mi sentii morire.
GIANNI MINA’: Parlò con Borsellino quel giorno?
ANTONINO CAPONNETTO: Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento.
 GIANNI MINA’: Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli?
ANTONINO CAPONNETTO: Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo.
 GIANNI MINA’: Lei mi ha detto “Borsellino sapeva di morire”; in che senso sapeva di morire?
ANTONINO CAPONNETTO: Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell’attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento.
GIANNI MINA’: Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo per farlo saltare in aria?
ANTONINO CAPONNETTO: Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili.
GIANNI MINA’: Ma non c’era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno che lo potesse aiutare in qualche modo?
ANTONINO CAPONNETTO: Sì, Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto nei suoi confronti disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze…(…)
GIANNI MINA’: Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta?
ANTONINO CAPONNETTO: Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un’associazione così ben organizzata come la mafia, se non coordinandosi. C’era bisogno di riunire le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di mafia. Avevo già coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di un’esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la stessa esperienza l’aveva vissuta a Roma.
GIANNI MINA’: Come scelse i suoi collaboratori?
ANTONINO CAPONNETTO: Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già li e aveva istruito il processo Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell’omicidio del commissario Basile…
GIANNI MINA’: Parliamo dell’operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la mafia. Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre centoventi omicidi. La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò perla prima volta i nome di Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Liggio, dei Greco, dell’omicidio Scaglione, rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”. Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise – aprendo la porta dall’interno – di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l’unico modo per entrare in una struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai progrediti (….)
GIANNI MINA’: Chi decise di smantellare il pool antimafia?
ANTONINO CAPONNETTO: Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come affrontare la lotta alla mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per lasciare il posto a Giovanni che era l’unico per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose andarono diversamente.
GIANNI MINA’: Chi bocciò Falcone?
ANTONINO CAPONNETTO: Il Csm
GIANNI MINA’: Nelle persone di?
ANTONINO CAPONNETTO: Mi porto sempre dietro l’appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi dei presunti favorevoli, dall’altra quella dei quali dava per scontata l’opposizione. Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all’ultimo momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella colonna a lui contraria.
GIANNI MINA’: Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a Palermo.
ANTONINO CAPONNETTO: Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri, in tanti documenti. Borsellino li definì “giuda”, quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del 1993, dopo l’eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere a Caponnetto, il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest’uomo rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.”
GIANNI MINA’: Non so se – come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco? ANTONINO CAPONNETTO: Ognuno ha fatto la sua parte.Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell’Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica,e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la procura della Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue (…)
GIANNI MINA’: In un’intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato”.
ANTONINO CAPONNETTO: “Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il parlamento non avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari. E’, quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti decisivi per la lotta alla mafia.”
GIANNI MINA’: Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria?
ANTONINO CAPONNETTO: Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che non lo saprò mai.

Fondazione Antonino Caponnetto